1. Il processo di civilizzazione, l’opera più nota del sociologo Norbert Elias, fu pubblicato inizialmente – nel 1939 – in due volumi dedicati rispettivamente a La civiltà delle buone maniere e a Potere e civiltà. Dopo aver descritto la meccanica sociale in virtù della quale qualcuno arriva ad esercitare più potere di altri, in quest’ultimo volume, Elias mostra come l’ampia fenomenologia di ciò che costituisce la nostra categoria del civile – i sentimenti del pudore e della ripugnanza, per esempio – dipenda strettamente dalla trasformazione delle costrizioni imposte da altri in autocostrizioni. È soltanto grazie a questa interiorizzazione collettiva di regole – a questo Super-Io di massa, per metterla in termini parafreudiani – che, perlopiù ma non sempre, non ci si ammazza l’un con l’altro ad ogni angolo di strada, affidandosi invece – a seconda dei casi – o alle incertezze del diritto o all’ambiguità delle cortesie.
2. Dopo alcuni mesi di permanenza per motivi di lavoro in Svizzera, a Lugano, un amico mio torna e mi sciorina la sua analisi sociologica. “Sai che differenza c’è tra i giovani di Lugano e quelli di Milano, o di qualche altra città italiana?”. E spiega che entrambi gettano per terra cartacce e abbandonano qua e là bottiglie di birra – vuote –, ma che se lo fai notare ad uno di Milano sono certamente male parole e rischi che ti spacchi la faccia, mentre, se lo fai notare ad uno di Lugano, questo torna indietro, raccoglie e butta nel cestino più vicino. I super-Io, ovvero le forme della censura collettiva, hanno le loro oscillazioni culturali – presumibilmente, un tempo i comportamenti erano più marcatamente diversificati e nella globalizzazione tendono ad avvicinarsi – ma non a sovrapporsi perfettamente.
3. Laddove Elias parla del rapporto odierno tra la struttura dell’intreccio sociale e la struttura del comportamento e dell’economia psichica individuali – e laddove, esemplificando, mostra come esplosioni di gioia possano anche alternarsi a insopprimibili stati di angoscia –, riferisce di un articolo del “Daily Telegraph” del 12 febbraio 1937 in cui si descrivono i film più amati dai bambini. In questo articolo si sostiene che, “nonostante tutti i condizionamenti di una civiltà molto avanzata”, nei gusti dei bambini emergono comportamenti di uno standard ben diverso: i bambini, specie i più piccoli, amerebbero l’azione e, soprattutto, l’azione aggressiva; non avrebbero ripugnanza per il sangue, applaudirebbero il trionfo della virtù, fischierebbero la cattiveria e sarebbero particolarmente predisposti a passare da uno stato d’animo all’altro “nello spazio di una frazione di secondo”. Elias fa notare che a questa repentinità nello spostare l’intensità emozionale ora dalla parte della paura e ora dalla parte del piacere è “strettamente legata anche la specifica struttura dei tabù nelle società più semplici” – fatto che avrebbe caratterizzato quel Medioevo occidentale dove la manifestazione dei piaceri e dei tabù – come le tendenze all’ascesi e all’automortificazione – erano molto più evidenti di quanto lo sarebbero state poi, “negli stadi successivi del processo di civilizzazione”.
4. Nel 1914, François Mauriac pubblica La robe prétexte che in Italia venne tradotto con il più esplicito e forse pruriginoso Adolescenza. La “robe prétexte” (“toga praetexta”, nel senso di decorata, decorata di un bordo color porpora) è quella tunica che i giovinetti dell’antica Roma indossavano fino ai diciassette anni, prima che venisse consegnata loro la toga da adulti – abito, elemento del codice vestimentario, dunque che, facilmente, può diventare simbolo per designare un passaggio di età biologica – prima biologica – e sociale.
Mauriac racconta in prima persona singolare le vicissitudini morali di un orfano dodicenne a Bordeaux, allorquando non era ancora luogo comune attribuirne la causa a metafore meteobiochimiche come quella delle “tempeste ormonali”. Educato al cattolicesimo ed alla sua disciplina – atti devozionali e punizioni, letture edificanti e geloni di prammatica nei mesi invernali –, sotto lo sguardo stanco ma vigile di una nonna, la sua vita scorre con diligente regolarità nei silenzi di una casa dolorosa e nella rispettabilità della sua classe sociale agiata. Tuttavia, i sintomi del cambiamento, urgendo, bussano prepotentemente alle porte della sua sensibilità.
Dopo che la sfrontatezza di sua cuginetta Camille era stata punita con uno schiaffo e con il debito castigo di andarsene immediatamente a letto “senza cena”, il dodicenne di Mauriac si coglie nel morboso piacere di ciò cui ha assistito. La punizione della cuginetta – e l’averla vista punita – non lo muove a solidarietà alcuna. Anzi. Poi, si trova a riflettere non senza una certa curiosità altrettanto morbosetta sul fatto che lo zio, tutto in ghingheri, esca tutte le sere per farsi portare in carrozza al circolo – da cui, a quanto pare, torna solo alle prime ore del mattino. Più tardi, infine, rimasto solo con la nonna, dopo lunghi silenzi, prova a buttar là una domanda: “A che età si può commettere il male, nonna ?”
La nonna non risponde, “asciugò le lenti degli occhiali, e la luce ferì i suoi occhi malati” – e nel silenzio protratto a lui viene in mente che la nonna si eccitava soltanto ormai per i “problemi di etichetta” – se la tale o la tal’altra la salutava o no per la strada, e se la salutava nelle giuste maniere. Spesso risaliva ai padri e ai nonni della reproba di turno, scoprendo così che quella mancanza di oggi conseguiva ad un ieri soltanto apparentemente morto e sepolto, perché la nonna gliela spiegava come l’effetto dell’appartenenza di un suo antenato ad una classe sociale inferiore. La nonna, insomma, lo iniziava alla teoria ed alla pratica della diseguaglianza sociale.
Credo che il lettore perderebbe un’occasione se considerasse la concatenazione di questi pensieri come del tutto casuale. Il piacere per la punizione inflitta a sua cuginetta in sua presenza, lo zio che vive una vita nascosta ai suoi occhi e incomprensibile alla sua ragione, l’esigenza di porre una domanda alla nonna – una domanda che, non ricevendo risposta, innesca un’attenzione nuova, focalizzata in una nuova, inquietante, consapevolezza – sono soltanto nodi dello stesso sviluppo. Nei termini manichei dell’educazione che gli è stata impartita, sta prendendo coscienza del potere e di quanto possa essere fascinoso il suo esercizio, sta prendendo coscienza del ruolo che gli tocca in quanto maschio e in quanto borghese – e sta lottando tra sé e sé con la vergogna della differenza a favore, differenza di genere e differenza di classe.
5. Ne Il signore delle mosche, William Golding immagina un gruppo di bambini – dai dodici anni in giù – abbandonati a se stessi in un’isola sconosciuta. Finiti lì per un disastro aereo, piuttosto fiduciosi nel fatto che, prima o poi, qualcuno verrà a salvarli, i bambini cercano di organizzarsi e, come prima pensata hanno quella di indire libere elezioni per determinare le reciproche gerarchie. Golding scrive un tetro e angoscioso romanzo a tesi che avrebbe inorgoglito Sant’Agostino: l’uomo – l’umano – è fatto per il “male”, senza coercizione è destinato sempre e comunque alla barbarie – anche quando è animato dalle migliori intenzioni. Inutile dire, allora, che sull’isola si va ben presto verso la più oscena oppressione: l’esercizio del potere e della sua forma più violenta danno piacere a chi l’esercita, l’utile sociale è un optional, la paura ancestrale domina su qualsiasi ragione e, dunque, una religione frutto di un atteggiamento magico – come i suoi totem, come i suoi pali per la tortura – è erigibile in quattro e quattrotto – tanto facile che ci riuscirebbe anche un bambino.
6. L’acquiescenza con cui Elias sembra accogliere una tesi che, in fin dei conti, non si discosta affatto da quel cattolicesimo che imputa alla natura umana un’intrinseca malvagità, non corrisponde alla sua solerte vigilanza nei confronti delle categorie che, spesso incautamente o inconsapevolmente, vengono utilizzate da storici e sociologi. I nostri bambini non rappresentano la fase medioevale dell’evoluzione dell’uomo occidentale sul pianeta – alla stessa stregua dei nostri vecchi che non ne rappresentano la postmodernità – qualsiasi cosa voglia dire questo termine. La loro educazione – il faticoso e spesso avvilente processo in cui si pretende che la costrizione divenga autocostrizione senza compromettere la felicità dell’individuo cui il processo è imposto – dipende da noi. Che, poi, questo “noi” sia un’entità difficile da confinarsi – che al processo partecipino molteplici agenzie cui noi tutti, come singoli individui, non vogliamo o non possiamo opporci – non ci assolve da ogni omissione eventuale nell’assumerci le nostre responsabilità. La tentazione di categorizzare come “naturali” i fenomeni sui quali preferiamo “dormirci sopra” piuttosto che affrontare è tanta – costituisce una forza ottusa, latente, temuta e al contempo attesa, desiderata come un sonno liberatorio: un analogo dell’adolescenza di Mauriac, dei suoi torpori e dei suoi piaceri consapevolmente proibiti –, ma questa tentazione va rintuzzata. Non di ineludibili “verità” della condizione umana, ma di categorie mentali risultato dell’operare di qualcuno pur sempre si tratta: l’applicarle o no resta sempre e comunque affar nostro – questione di consapevolezza, di sensibilità e di scelte politiche.
Felice Accame
P.s.:
I due volumi di Elias sono stati pubblicati nel 1982 e nel 1983 da Il Mulino.
Il processo di civilizzazione è stato pubblicato nel 1988. Adolescenza di François Mauriac è stato pubblicato da Rizzoli, Milano 1960. Il signore delle mosche di William Golding è stato pubblicato per la prima volta nel 1954. Un’edizione italiana attualmente disponibile è quella di Mondadori, Milano 2001.
|