La persistenza della memoria
intervista di Franco Bertolucci a Maurizio Antonioli
A colloquio con uno dei principali storici dell’anarchismo italiano, certo il massimo conoscitore del “poeta dell’anarchia”. Ragionando sul suo ruolo e ancor più sulla sua figura mitica.
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Che ruolo hanno avuto nella storia dell’anarchismo la tradizione e il mito?
Ancora non molti anni fa parlare di tradizione e di mito nell’ambito culturale della sinistra suscitava un certo sospetto. Delle idee di tradizione e di mito sembrava essersi impadronita una certa destra, quella che ne faceva un uso politico di basso profilo, ma anche quella più culturalmente attrezzata alla ricerca di un sostegno storico di lunga durata. Tutto questo dimenticando, come è stato ampiamente dimostrato in sede storiografica negli ultimi venti-trent’anni (il volume di Hobsbawm e Ranger, L’invenzione della tradizione, uscì in italiano per Einaudi nel 1983 e da qualche tempo gli storici anglosassoni lavoravano su questi temi) che anche le tradizioni ritenute più autentiche spesso si sono rivelate semplici “invenzioni” neppure tanto antiche. E che comunque espressioni come “tradizionalisti” o, all’opposto, “progressisti” sono interpretabili solo se contestualizzate in modo preciso, riferite ad un determinato momento storico, ma non sono utilizzabili per tutte le stagioni. Non è un caso se oggi, da parte di esponenti del governo, i sindacati, in specie la Cgil, vengono accusati di essere “conservatori”, quindi “tradizionalisti”, perché vogliono conservare l’articolo 18 a scapito di un futuro di flessibilità. Non esiste perennità di “tradizione” come il cosiddetto “progresso” non è sempre un automatico passaggio dal peggio al meglio. La storia non è un processo lineare di passaggi dal meno al più, e neppure il contrario. Come non sono esistite “età dell’oro” non esiste, ahimé, nessuna “terra promessa”, né in senso religioso né politico. Le parole stesse mutano il loro significato e i loro contenuti. Basti pensare a “destra” e “sinistra”. Nell’Ottocento i liberali danesi, svedesi e norvegesi si chiamavano semplicemente “sinistra” (“Venstre”) come quelli italiani cosiddetti “progressisti” sono stati definiti “sinistra storica”. L’“Estrema sinistra” italiana di fine Ottocento comprendeva, oltre ai socialisti, anche i repubblicani e i radicali. Tenuto conto di tutto questo, non dobbiamo diffidare delle parole quando esprimono bisogni radicati nel profondo della mentalità umana. E “tradizione” e “mito” sono tali a qualunque latitudine e in qualunque cultura. Bisogna solo distinguere, accettando il fatto che esiste una molteplicità di “tradizioni” e di “miti”. Esistono quindi “tradizioni” e “miti” anche all’interno dell’anarchismo, come in tutti i movimenti che si proiettano nel futuro e che fanno della trasformazione sociale, culturale, politica, economica l’asse della propria azione e la giustificazione della propria esistenza, senza tuttavia dimenticare che anche chi sostiene un determinato status quo in realtà non sta affatto fermo ma ha una visione del futuro altrettanto dinamica. C’è però una differenza nell’uso di espressioni come “tradizione” e “mito”. Nel primo caso, parlando di anarchismo, gli anarchici stessi si sono resi conto che stavano creando una tradizione e che questa era necessaria. Non si spiegherebbe altrimenti l’attenzione di molti militanti, a partire dalle fine dell’Ottocento, per la “memoria”. Non dimentichiamo che il primo vero storico dell’anarchia, Max Nettlau, era un anarchico e non soltanto uno studioso “simpatizzante”. Anche l’anarchismo insomma “inventa” (si tratta di un’invenzione a caldo, spesso spontanea, non artefatta) una propria tradizione che è intessuta di eventi e di persone. Ogni movimento politico ha bisogno di una tradizione, ha necessità di riallacciarsi a qualcosa, a qualcuno, di avere dei lontani progenitori e dei padri riconoscibili, in una parola di legittimarsi. Abbiamo fatto caso che il termine è lo stesso che viene usato per indicare la progenie non “illegittima”? Quando prima della “grande guerra” Oberdan Gigli scriveva sulle “fonti elleniche dell’anarchismo” non faceva altro che cercare di rintracciare una lunghissima “tradizione” di pensiero che potesse “nobilitare” l’anarchismo stesso grazie ad una sorta di “perennità” del suo nucleo ideale. La “tradizione” quindi come patrimonio di memorie, come ricchezza da spendere per dare senso all’azione e alla visione del futuro. Anche l’anarchismo più radicalmente nichilista ha sempre mostrato un coté tenacemente attaccato al passato. Naturalmente si tratta di vedere di quale passato, e perciò di quale tradizione, si sta parlando. Ma anche i “cavalieri del nulla”, anche coloro che sono stati pronti a gettare “gli atomi della propria vita nella ridda urlante della fiamma” creavano una tradizione rinunciando al proprio futuro. Sul mito bisogna essere più prudenti, perché il termine stesso evocava forme di memoria vicine al culto, dando luogo spesso a forme di rifiuto tipiche dei movimenti antiautoritari. Nonostante ciò anche il movimento anarchico si costruì il suo Pantheon di eroi e la rituale celebrazione degli eroi portò, quasi inevitabilmente, alla mitizzazione di alcune figure individuali (ad esempio Gori) nonché di gruppi di persone (i martiri di Chicago) o momenti collettivi (la Comune di Parigi). I miti non sempre hanno un volto, ma sempre esprimono una carica di mobilitazione, sono l’esempio e lo stimolo dell’azione, danno il calore della fiducia e il rassicurante senso di appartenere ad una storia.
Pietro Gori è stata una figura mitica dell’anarchismo italiano tra Otto e Novecento, per la capacità di sintetizzare con la propria vita la forza utopica del pensiero libertario e di trasmetterla a larghi settori popolari e del movimento operaio: possiamo affermare che subì un processo di “beatificazione laica”? Quali forme ha assunto nel suo caso il passaggio dalla memoria al mito?
Pietro Gori è stato certamente una figura “mitica” dell’anarchismo italiano ed ha subito una sorta di “beatificazione” laica. Come ho scritto in passato: “Nella sua figura infatti, in una sorta di processo spontaneo di eroizzazione, si raccoglievano, si concentravano quei valori esemplari di cui egli si faceva e si sentiva portatore e che le sue poesie, i suoi scritti e la sue parole evocavano: l’assoluta fedeltà all’Idea, la coerenza di vita, il coraggio, la combattività, la bontà virile, il senso del sacrificio”. Del processo di “mitizzazione” di Gori ho appunto dato conto anni fa (Pietro Gori. Il cavaliere errante dell’anarchia, Pisa, Bfs, 1995(1), 1996(2). Gori appartiene alla generazione successiva a quella degli internazionalisti. Non fa parte dei padri fondatori dell’anarchismo, ma per motivi contingenti è colui che più di ogni altro incarna in Italia l’anarchismo della delicata fase di differenziazione e di separazione dal socialismo “legalitario”: Appare quindi agli occhi di molti anarchici italiani come espressione dell’identità anarchica agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento. Ma al tempo stesso è figura la cui immagine condensa in sé gli aspetti dell’eroe politico postromantico: ha le physique du rôle (è alto, slanciato, elegante nei modi), ha un’oratoria trascinante nei comizi ma mai demagogica, è poeta affetto anche da mal sottile, come avvocato si batte nei tribunali per difendere i compagni, fa della sua emigrazione politica un’epopea, i suoi inni e le sue canzoni hanno una straordinaria diffusione, il suo atto unico Primo maggio viene rappresentato in tutto il mondo, si sacrifica fino all’ultimo per la propaganda e muore in un’aura di “santità” laica soffuso di virtù rivoluzionaria. Anche Gori ebbe qualche detrattore (Libero Tancredi, Ciancabilla, il sedicente Pio Spadea) che però ebbe più a contestare la “idolatria” da cui era circondato che non le sue posizioni politiche. Il carisma di Gori era tale da imporsi anche agli avversari politici o comunque a coloro che non condividevano le sue idee, ma si trattava di un carisma, potremmo dire, dal volto umano, non costruito da un apparato di consenso ma soprattutto non prodotto dall’odio e dal fanatismo, come altri carismi che ben conosciamo. Nel caso di Gori il passaggio dalla memoria al mito avvenne molto presto, prima ancora della morte, nell’ultima fase della sua vita, quando la sua attività era continuamente interrotta dalla malattia. Gori era certo un militante politico, molto più importante di quanto siamo abituati a pensare, ma agli occhi di ceti popolari abbruttiti, socialmente emarginati, colpiti nella dignità umana, rappresentava un sogno di redenzione, di riscatto, di nuova vita. Era in un certo qual modo il “Messia dell’anarchia”. È interessante un paragone con Malatesta, il cui carisma fu certamente enorme, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale. Ma venne chiamato “il Lenin d’Italia”, riconosciuto cioè come grande leader rivoluzionario, lontano però dall’“apostolo” Gori. Le cerimonie commemorative per Gori, a partire dal funerale, dimostrano come il processo di mitizzazione si fosse già perfezionato, fin da subito. Il bassorilievo, scoperto a Rosignano in occasione del primo anniversario della sua morte, opera dello scultore Bozzano, raffigurava il busto di Gori “sulle palme della gloria e del martirio con fiaccola, simboleggiante la libertà” e l’epigrafe, dettata da Mario Foresi, parlava di “esempio e conforto degli apostoli futuri”. Anche Bresci venne dipinto come un martire e in un disegno apparso su di un periodico statunitense, poco dopo la sua morte, veniva assunto in cielo da un angelo. Ma il suo martirio non comportò forme di beatificazione. Lo stesso può dirsi di altre figure dell’anarchismo italiano, dotate spesso di grande prestigio e continuamente ricordate, ma per le quali non abbiamo segnali veri e propri di processi di mitizzazione.
Nonostante la brevità della vita di Gori e l’affermazione successiva del fascismo, come ti spieghi la durata e la persistenza, almeno in alcune regioni d’Italia, del suo mito?
Non è semplice pronunciarsi sulla persistenza della memoria. Per quanto riguarda Pietro Gori è indubbio che le lapidi e i busti che erano stati collocati dopo la sua morte, in numerosi casi ripristinati dopo il fascismo, si trovano principalmente nell’Italia centrale, soprattutto in Toscana (all’Elba, a Rosignano, Castagneto Carducci, Piombino ecc.), ma anche in Umbria (Gubbio) e nel Lazio (Civitavecchia). Anche le vie dedicate a Gori si trovano soprattutto in città toscane. Testimonianze orali raccolte quarant’anni fa da Castri, Jona, Liberovici e Panti nell’area della Toscana tirrenica mostravano ancora la vivacità del ricordo in persone ormai anziane che avevano avuto modo di vedere Gori di persona o avevano partecipato ai suoi funerali, che costituirono una delle manifestazioni di cordoglio pubblico spontaneo più imponenti viste all’epoca per una figura politica antagonista. Se è quindi vero che la fama di cui godette Gori si diffuse in tutto il mondo, laddove esistessero comunità anarchiche (e non solo), è altrettanto vero che la memoria del “poeta dell’anarchia” si conservò molto a lungo nelle persone che ebbero modo di vederlo e di sentirlo parlare. Soprattutto di sentirlo parlare. Oggi probabilmente la sua oratoria ci farebbe sorridere, ma allora era difficile che qualcuno sfuggisse all’incanto delle sue parole “alate”. Basti pensare che una casa discografica dell’epoca voleva effettuare delle registrazioni da diffondere. Molti erano allora gli oratori da comizio, alcuni dei quali di notevoli capacità affabulatorie, ma evidentemente Gori spiccava su tutti al punto da lasciare tracce indelebili. Nonostante Gori fosse in qualche modo cittadino del mondo, per le sue peregrinazioni “di terra in terra”, come recita Addio Lugano bella, il senso di appartenenza a quella sorta di triangolo che va da Pisa a Livorno all’Elba era fortissimo. Nelle fasi acute della malattia Gori si rifugiava a Sant’Ilario, all’Elba, o a Rosignano e in quei luoghi erano le sue radici. Mi è capitatato, quindici anni fa, di trovarmi nella minuscola e bellissima piazzetta di Sant’Ilario a chiedere ad un anziano signore quale fosse la casa di Gori e ad avere pronta e sicura la risposta. Tuttavia è indubbio che la memoria si sia complessivamente molto affievolita. Potrei ripetere in proposito quanto ho scritto: “La «communauté d’imagination» su cui si fondava la figura di Gori si era nel frattempo disgregata, si era dissolta non solo con la scomparsa dei vecchi militanti ma anche con i mutamenti profondi avvenuti all’interno del corpo sociale della sinistra e nella mentalità delle classi subalterne, ed ogni tentativo di tenerla in vita a tutti i costi appariva chiaramente artificiale. Era tutto un mondo – modi di vita, rapporti sociali, credenze, sogni, speranze – che lentamente, non senza vischiosità e resistenze di tipo culturale ed emotivo, stava tramontando. E questo tramonto oscurava il cammino di quel «misterioso straniero» (uno dei protagonisti di Primo maggio) che, una volta nell’immaginazione di molti e da allora in poi nel ricordo di pochi, continuava a viaggiare senza posa «verso la parte donde si leva il sole».
Nel Secondo dopoguerra sia gli storici – a parte qualche rara eccezione –, sia gli anarchici – a parte le iniziative commemorative – non hanno riservato un grande interesse al ruolo di Gori nella storia del movimento operaio e libertario: come ti spieghi questa disattenzione?
Non sono mai propenso ad accusare gli storici di aver trascurato qualcosa. Gli storici, come tutti, seguono i propri interessi e a volte anche le mode storiografiche o quello che paga accademicamente. Una collega americana mi diceva tempo fa che ormai negli Stati Uniti c’è poco interesse per la storia d’Europa e sei à la page se studi l’Africa, le correnti migratorie o fai storia di genere. Il che significa avere o non avere borse di studio, avere o non avere finanziamenti per la ricerca, avere o non avere posti all’Università. Ma se a qualcuno non interessa studiare determinati argomenti perché dovrebbe farlo, in nome di quale interesse storiografico superiore? La questione è complessa ed esula dal nostro discorso. Voglio però aggiungere che trovo prive di senso le lamentazioni di coloro che accusano “gli storici” di non aver studiato questo o quest’altro, magari, come capita oggi, di non aver parlato male di Garibaldi. Quando ho iniziato a studiare e a pubblicare il cosiddetto “movimento operaio” aveva molti cultori, oggi ne ha pochi. La maggior parte di loro erano mossi da quella passione politica che ha contraddistinto gli anni Sessanta e Settanta. Poi l’interesse è andato gradatamente scemando. Quando ho iniziato ad insegnare Storia del movimento sindacale avevo l’aula piena, oggi gli studenti sono scarsi. Né ci si può stupire, dato il clima politico-culturale attuale nel quale i sindacati vengono spesso dipinti come un elemento di conservazione. Per quanto mi riguarda, studio alcune cose e ne trascuro moltissime altre e non mi sento in colpa per questo. Lasciamo quindi da parte la storiografia. Ciò che mi ha sempre stupito non è stato il disinteresse degli storici, ma degli anarchici stessi nei confronti di Gori. Bakunin, Malatesta, Merlino, Fabbri, Berneri sono stati più volti affrontati e discussi, ma non Gori. Perché? Perché di Bakunin e compagni si è potuto fare un uso politico sia all’interno del movimento sia all’esterno. La pur comprensibile ossessione tutta politica del passato portava a valutare i personaggi secondo il grado della loro presunta utilità. Mi ricordo la serie di “attualità di Bakunin”, “attualità di Proudhon”, “attualità di Berneri”, con l’obiettivo di ribaltare le accuse di inattualità che venivano rivolte agli anarchici soprattutto da parte dei “compagni” della sinistra, della sinistra dei grandi partiti, quelli che sapevano fare politica, che avevano un corretta visione della storia ecc., ma anche dei gruppi che conoscevano la “giusta via rivoluzionaria”. Dove siano finiti tutti questi lo sappiamo benissimo. Dove sono mai l’arroganza, il senso di superiorità o di condiscendenza con cui i solidi realisti, i detentori del segreto dell’evoluzione storica guardavano quei poveri illusi degli anarchici? E allora per ribattere, per essere ammessi alla stessa tavola politico-culturale bisognava dimostrare che no, che gli anarchici non erano affatto degli illusi perché avevano ancora molte cose da dire, erano insomma “attuali”, come e più degli altri. Non che questo atteggiamento non fosse comprensibile. Ci siamo cascati un po’ tutti, chi più chi meno. Ma quale uso politico si poteva fare di un personaggio che tutti ricordavano solo come un poeta, un militante generoso e appassionato, una sorta di simbolo, ma che risultava refrattario ad ogni utilizzazione attuale? È insomma il discorso dell’inattualità di Gori, che ho fatto nel mio lavoro del 1995. Ma se Gori era inattuale, perché perdere tempo a studiarlo, al di là degli aspetti folkloristici? Cantare Addio Lugano bella ogni tanto andava bene. Ma ci si fermava lì. In realtà – ma non è questa la sede per parlarne – Gori fu anche un militante politico di grande acutezza, un personaggio-chiave in alcune fasi. Basti pensare al ruolo centrale da lui sempre assegnato all’organizzazione sindacale, ma soprattutto alla funzione svolta nella fase di formazione del Partito dei lavoratori italiani nella quale fu il rappresentante principale della corrente anarco-operaista che si batté contro i socialisti guidati da Turati. Ma, senza entrare nel dettaglio, mi importa far rilevare come sia esistito anche un Gori squisitamente politico la cui azione in Italia fu di necessità interrotta dall’esilio e poi dalla malattia. Mi rendo però perfettamente conto di quanto Gori sia rimasto inattuale e che di lui si sia potuto fare un uso politico quasi nullo. Ma è poi questo quello che conta? O la storia è qualcosa d’altro e non può essere ridotta al rango di supporto, di volta in volta, della celebrazione dello Stato unitario o, al contrario, del Regno delle due Sicilie o del potere temporale dei papi?
Franco Bertolucci
Maurizio Antonioli
professore ordinario di Storia contemporanea: insegna Storia dell’Europa contemporanea e Storia del movimento sindacale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Da sempre si è occupato di storia dell’anarchismo e dell’anarcosindacalismo, partecipando ad incontri, convegni e progetti editoriali come il Dizionario biografico degli anarchici italiani, dimostrando una peculiare sensibilità e attenzione all’universo dei movimenti libertari.
Tra le sue molte pubblicazioni si ricorda: La Fiom dalle origini al fascismo, 1901-1924, Bari, De Donato, 1978 (con B. Bezza); Sindacato e progresso. La Fiom tra immagine e realtà, Milano, F. Angeli, 1983; Vieni o maggio. Aspetti del Primo maggio in Italia tra otto e novecento, Milano, F. Angeli, 1988; Azione diretta e organizzazione operaia. Sindacalismo rivoluzionario e anarchismo tra la fine dell’ottocento e il fascismo, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1990; Armando Borghi e l’Unione sindacale italiana, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1990; Il Sindacato ferrovieri italiani dalle origini al fascismo, 1907-1925, a cura di M. Antonioli e G. Checcozzo, Milano, Unicopli, 1994; I Sindacati occidentali dall’800 ad oggi in una prospettiva storica comparata, a cura di M. Antonioli e L. Ganapini, Pisa, BFS edizioni, 1995; Pietro Gori, il cavaliere errante dell’anarchia, Pisa, BFS edizioni, 19951, 19962; Il sindacalismo italiano. Dalle origini al fascismo. Studi e ricerche, Pisa, BFS edizioni, 1997; Il sol dell’avvenire. L’anarchismo in Italia dalle origini alla prima guerra mondiale, Pisa, BFS edizioni, 1999 (con P.C. Masini); Le scissioni sindacali in Italia e in Europa, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi e F. Romero, Pisa, BFS edizioni, 1999; Lavoratori e istituzioni sindacali. Alle origini delle rappresentanze operaie, Pisa, BFS edizioni, 2002; Dizionario biografico degli anarchici italiani, diretto da M. Antonioli, G. Berti, S. Fedele, P. Iuso, Pisa, BFS edizioni, 2003, 2004, voll. 1, 2.; Riformisti e rivoluzionari. La Camera del lavoro di Milano dalle origini alla grande guerra (con J. Torre Santos), Milano, F. Angeli, 2006; E. Verzi, I metallurgici d’Italia nel loro sindacato, introduzione e cura di Maurizio Antonioli, Roma, Ediesse, 2008; Sentinelle perdute. Gli anarchici, la morte, la guerra. Pisa, BFS edizioni, 2009; The International Anarchist Congress. Amsterdam 1907, edited M. Antonioli, translation and english edition by Nestor McNab, Edmonton (Ca), Black Cat Press, 2009); Contro la Chiesa. I moti pro Ferrer del 1909 in Italia, a cura di M. Antonioli, A. Dilemmi. J. Torre Santos, Pisa, BFS edizioni, 2009. |
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