Libertario: fautore radicale e intransigente di una libertà politica prossima all’anarchia.
Ricetta: rimedio, indicazione scritta od orale delle norme per preparare un composto, sistema, espediente
ricette
libertarie
di Rino De Michele
"ricette
libertarie" di Rino De Michele & Altri Autori,
coedizione ApARTe°/Venezia e La Fiaccola/Ragusa, pagg.
130,euro 15,00, formato 22x22cm, interamente illustrato.
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Che arcani ingredienti utilizzava l’allegra nonna Cucca per ottenere detonanti colazioni alchemiche?
Come fu che il vasto dominio dell’imperatore dei risotti ebbe una così breve durata?
Pulcinella sarebbe veramente riuscito a mangiare tutto quello che sognava di ingurgitare?
Contemporaneamente ad una folla di 900 autorità allegramente a cena, gli operai superstiti della Thyssenkrupp cosa portarono a tavola? La cottura di un pollo arrosto avrebbe potuto evitare la forca ad un irrequieto contadino?
Comè che Aicha, giovane cuoca tunisina, riusciva a cucinare e a servire polli mutanti con otto paia d’ali?
Quali particolari tagli di carne adoperava per i suoi squisiti bolliti un oste veneziano? E poi, perché gli finì così male?
Possono le porzioni di Bianco Mangiare aprirci le porte del paradiso?, e dei pezzetti di pan duro sono in grado di proteggerci dai fulmini?
È vero che abitare nei pressi di una centrale nucleare fa aumentare il colesterolo cattivo?
Che attinenza aveva la frugale cena di Michelangelo Buonarroti con gli anarchici che, nel 1894, per sfuggire alla dura repressione poliziesca si rifugiarono sui monti della Garfagnana?
Recuperare al gusto un brodo avanzato dal pranzo festivo, può condurre all’alcolismo?
Riuscite ad immaginare il più famoso e conteso cuoco svizzero cucinare per Malon, Arnauld, Malatesta, Guesde, Reclus, Bakunin?, e chi di questi fumava pestilenziali sigarette turche?
Possiamo considerare Pippi Calzelunghe e i suoi pomeriggi a rosicchiare mele, una sorta di spontaneismo pedagogico libertario?
Continuano in questo libro le storie e le ricette del precedente “ricette anarchiche”. Per chi ne fosse ancora curioso, ulteriori storie di vite vissute, di vicende storicamente esatte legate a ricette culinarie più o meno fattibili. Non sempre tutto è semplice, ma mai l’anarchia lo fu.
Buone esperienze e buon appetito.
Luther Blisset |
Menu per un suonatore di trombetta
Quando l’11 maggio del 1860 il generale Giuseppe Garibaldi, che sbarcò con i Mille nel porto di Marsala, sapeva benissimo che, per chiudere con successo la sua impresa, gli sarebbe stato assolutamente necessario l’appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani. Questo sarebbe avvenuto solo se fosse stato accolto, non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche come colui che poteva dare le possibilità di nascere ad una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie. Con questo intento, il 2 giugno, aveva emesso un decreto dove prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre.
In effetti le condizioni di vita dei miserabili siciliani erano particolarmente disastrose tanto che il sociologo francese La Bruyère giungeva a descriverle così: “Si vedono certi animali selvaggi, maschi e femmine, in giro per le campagne, neri, lividi, nudi e bruciati dal sole, curvi sul terreno si muovono e scavano con una straordinaria ostinazione. La loro voce, però, è quasi del tutto articolata e, quando si drizzano, mostrano un viso umano: ché in effetti sono degli uomini, e a notte sopraggiunta si ritirano nelle loro tane, dove vivono di pane nero, di acqua e di radici”.
A Bronte (1) i popolani abboccarono alle chiacchiere dei nuovi padroni ed insorsero (2) contro i baroni e i ricchi possidenti. Iniziarono con minacce e tafferugli poi, il 2 agosto, la situazione drammaticamente precipitò. La gente sciamò per le strade appiccando il fuoco all’Archivio Comunale e a diverse case, sedici persone, tra nobili e ufficiali, vennero uccise.
In Sicilia l’impero inglese aveva vasti interessi commerciali e terrieri che non andavano toccati (3), quanto era accaduto a Bronte mandò Garibaldi in fibrillazione. Senza indugio inviò nel paese etneo un battaglione di garibaldini al comando del genovese Nino Bixio. Bixio ne fu molto contrariato, il suo generale entrava nei libri di storia e lui ne poteva essere escluso per colpa di un pugno di pezzenti che avevano alzato la testa. Giunto in paese mise subito le cose a posto, cioè riportò tutto come prima: i ricchi a comandare e gli schiavi a servire. Aveva una fretta dannata e nutriva un sommo disprezzo verso l’umanità sofferente (4), istituì un processo e in sole quattro ore giudicò 150 persone infliggendo a cinque la fucilazione.
I condannati furono l’avvocato socialista Nicolò Lombardo mente pensante del movimento ma completamente estraneo alle uccisioni, lo scemo del villaggio Nunzio Ciraldo Fraiunco perché aveva girato per le strade del paese soffiando in una trombetta di latta e cantilenato “Cappeddi (5) guaddattivi, l’ura dù judiziu s’avvicina, populu nun mancari all’appellu”, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi.
La notte che precedette la fucilazione, una brava donna chiese il permesso di portare delle uova al Lombardo ma il braccio destro dell’Eroe dei Due Mondi, nel respingerla malamente, le rispose che il detenuto non aveva bisogno di uova poiché l’indomani avrebbe avuto due palle piantate in fronte.
All’alba del 10 agosto, i condannati vennero portati nella piazzetta antistante il convento di Santo Vito e collocati dinanzi al plotone d’esecuzione. Alla scarica di fucileria morirono tutti ma nessun soldato ebbe la forza di sparare a Fraiunco che risultò incolume. Il poveretto, nell’illusione che la Madonna Addolorata lo avesse miracolato, si inginocchiò piangendo ai piedi di Bixio invocando la vita. Ricevette una palla di piombo in testa e così morì, colpevole solo di aver soffiato in una trombetta di latta.
Note
- Bronte era il nome di uno dei ciclopi, figli di Poseidone, che, nelle viscere dell’Etna o Mungibeddu “chi jetta focu e fiammi ‘dì tutti i lati”, forgiavano le saette di Zeus.
- Repressioni simili a quella di Bronte furono attivate nei confronti di altri paesi dell’entroterra siciliano che, rivoltandosi contro i vecchi padroni, incapparono nei nuovi.
- La spedizione dei Mille fu segretamente appoggiata dall’Inghilterra. Garibaldi aveva ricevuto, dagli interessati amici d’oltremanica, un sostegno economico di tre milioni di franchi in piastre d’oro turche e la casuale presenza di alcune navi inglesi, alla fonda nel porto di Marsala, evitò che il “Piemonte” e il “Lombardo” venissero cannoneggiati dalle navi borboniche. Tutto questo affinché si cambiasse tutto pur non cambiando nulla.
- Così scriveva, nei riguardi di Nino Bixio, nella novella “La libertà”, Giovanni Verga: “Veniva a far giustizia il Generale, quello che faceva tremare la gente... Il Generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina prima dell’alba se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che se ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitavano.”
- A Bronte si erano formate due fazioni politiche: una dei ricchi possidenti e dei borghesi denominata Cappelli o Ducali; l’altra, dei miseri e dei popolani che si raccoglieva attorno all’avvocato Nicolò Lombardo, si chiamavano i Comunisti poiché le loro idee socialiste prevedevano una società senza classi, dove i beni sarebbero stati messi in comune tra tutti.
- Si dice così, portare solo la pancia e la presenza, quando, invitati a casa di qualcuno, a pranzo o a cena, ci si presenta a mani vuote portando solo sé stessi e tanto appetito.
Risotto alla sbirraglia
Sbirri
Il nome di questo risotto riconduce al buon rapporto che le classi subalterne hanno sempre avuto con i servi del potere: gli sbirri.
Sbirro, dal vocabolario italiano, è lo spregiato poliziotto, il questurino (ancora si dice: faccia da sbirro!); nel gergo della malavita napoletana è la spia, il delatore. In Veneto si qualificava di sbiro l’individuo scaltro e malizioso.
Ed appunto nel Veneto troviamo questo sostanzioso risotto che ha modificato il suo nome da Riso de polastro a Riso a’la sbiraglia dall’abitudine, da parte dei sbiri della Serenissima o della soldataglia francese e austriaca, di razziare i polli nelle campagne in un’epoca in cui la fame, ai popolani, non dava tregua. Nel territorio bresciano troviamo la stessa ricetta che lì viene però nominata Riso a’la pitocca, probabilmente dal fatto che, tra il XVII e il XVIII secolo, un gran numero di mendicanti, pitocchi, percorrevano le contrade della pianura Padana vivendo d’elemosina e rubacchiando qualsiasi cosa fosse loro possibile.
Questa è la ricetta: tagliate un pollo a pezzi molto piccoli, disossatelo e, con la carcassa realizzate un brodo che poi userete per inumidire costantemente il riso. Fate saltare la carne in una pentola aggiungendo un trito di carote e cipolle. Poi tutto va avanti come ogni normale risotto e questo sapete farlo.
Dimenticavo: se sognate uno sbirro, al gioco del lotto giocate 7; molti sbirri fanno 11; sbirri nei pressi del commissariato o della questura allora è, senza incertezze, il numero 57.
“Nero, Nero”
canto popolare veneziano
Il primo furto da me compiuto
è stato quelo de la signora
col pugnale ne la gola
quanti schei che go ciavà.
Cinquecento marenghi d'oro
mescolati con altri d'arzento
e si misero a cuor contento
a l'osteria a magnar e a ber.
Quando suona la mezanote
una pattuglia di polissia
circondavano l'ostaria
a Santa Maria i ne ga portà.
Chi m'ha tradito era un amico
che di nome si chiamava Nero
io lo credevo un amico sincero
ed invece el me ga rovinà.
Secondino fatemi un favore
di portarmi carta e pena
chè voglio scrivere alla mia bela
che un giorno ritornerò.
O Nero, o Nero dove tu sei
inganatore de la vita mia
fosti tu la mala spia
che in galera m'ha fato 'ndar.
Quando, grazie alla disponibilità dei siciliani delle Edizioni La Fiaccola e di ApARTe°/Venezia, pubblicammo “ricette anarchiche”, mai potevo pensare che il tutto si potesse trasformare in una sorta di saga. Quel libro ha riscosso sinceri apprezzamenti e una simpatia tale da superare tutte le mie aspettative che, confesso, non erano mai state di basso livello. Nell’aria comunque qualcosa c’era, non a caso concludevo quel lavoro con una citazione di Wolfgang von Goethe che recitava così: “In realtà un lavoro simile non termina mai. Lo si deve dichiarare concluso quando, a seconda del tempo e delle circostanze, si è fatto il possibile”. E “ricette anarchiche” si dimostrava sempre di più non concluso; il tempo e le circostanze mi spingevano a ampliare le ricerche e quella proposta, anche in direzioni inaspettate, non previste.
“ricette anarchiche” puntava molto più sulle storie che sulle ricette. Chissà per quale ragionamento, mi sembrava che il futuro lettore di quel libro fosse interessato più alla dottrina sociale e politica che propugna l’uguaglianza e l’abolizione di ogni autorità accentrata che all’indicazione scritta o orale delle norme per preparare un composto. Effettivamente così è stato, ma solo in parte. Molti mi han confessato di aver realizzato o tentato o pensato di realizzare le ricette spiegate in quelle pagine. Mi han chiesto chiarimenti e consigli sulle quantità esatte degli ingredienti da usare e i giusti tempi di cottura, mentre io avrei preferito domande su Pietro Gori, o Michele Bakunin anche perché, pensavo, di libri di ricette fatti meglio e più completi ne esistono a migliaia, sull’anarchia forse troppo pochi.
Con “ricette libertarie” proseguo il discorso interrotto al “menù vendicatore” di Gaetano Bresci. Ancora storie singolari che motivano ricette più o meno semplici con puntuali note a piè di pagina, essenziali agli episodi descritti ed alla propaganda di un pensiero, altre ricette nelle note o curiosità, in un gioco di carambola che mi son divertito a costruire e che, spero, interesserà il lettore. Ho trovato ulteriore sostento e collaborazione in altri autori, senza i quali i due libri non sarebbero quello che sono: un lavoro in un certo qual modo collettivo e solidale, insolito ed essenzialmente rispettoso. Vengono proposte ricette il cui scopo primario è anche quello di inviare, agli aspiranti cuochi anarchici, un’idea, una traccia da poter poi sviluppare secondo i propri gusti ed estri: a questo mirava “ricette anarchiche” e a questo porta ancora “ricette libertarie”.
“Su queste istruzioni escogita altre vivande” e “(il cuoco) potrà il mangiare variare o colorare secondo che a lui parrà”, così leggiamo in uno dei primissimi libri di cucina del XIV secolo. Questo rispetto dei percorsi di ognuno non è anche una piccola parte della nostra anarchia quotidiana?
Rino De Michele |
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