Morte non accidentale
di un monarca
Colpo al cuore, Morte non accidentale di un monarca è un documentario storico diverso dal solito. Le interviste e le analisi che attraversano il film hanno due differenti direzioni. La prima è ripercorrere la vita di Gaetano Bresci e il regicidio di Umberto I, con la chiara volontà di raccontare il personaggio, praticamente dimenticato dai libri di storia, ed analizzare un contesto difficile che l’Italia ha vissuto come quello dell’epoca umbertina. L’altra è l’analisi politica del gesto: la volontà di riscatto, l’azione individuale al di là della propaganda del fatto, l’impossibilità di restare inermi di fronte a delle atroci ingiustizie. Un gesto contestualizzabile anche ai giorni nostri, al di là dei sovrani e dei potenti. Un gesto vivo in chiunque abbia, come Bresci, la forza rivoluzionaria di dire basta ed abbattere il simbolo…
Perché nel 2010 avete scelto di produrre un film su Gaetano Bresci?
In questi anni la figura di Gaetano Bresci ha attraversato le nostre ‘vite militanti’. Quasi per gioco abbiamo usato il suo nome per intitolare aule universitarie occupate, collettivi, case occupate… Avevamo ripreso il suo nome e la sua vicenda come mito da seguire, esempio di come, nel suo gesto individuale, egli sia riuscito a cambiare un’intera società.
Dopo anni di ‘azioni in suo nome’ ci è venuto quasi spontaneo dedicargli un film, mettendo a disposizione le nostre conoscenze artistiche e professionali per farlo rivivere ancora una volta. Ci è sembrato quasi un atto dovuto.
Durante la lavorazione ci siamo poi accorti di quanto fosse un’esperienza politica anche la messa in atto del film. Infatti in questi quattro anni ci siamo trovati spesso a confrontarci sulla vicenda, ad analizzare passo per passo il quadro politico, le cause e le conseguenze del gesto, il senso finale che il nostro lavoro doveva avere.
Vedendolo mi è sembrata centrale l’attualizzazione del personaggio, mi sono sbagliato…
Proprio sull’attualizzazione del personaggio si è poi sviluppata l’analisi profonda nel work in progress del nostro documentario. Come persone moderne, come anarchici, ci sembrava superficiale uscire con un prodotto sterile, stile History Channel, che restasse fermo al 1900. Ci sarebbe sembrata una mossa contraria a quello che ci eravamo preposti: far rivivere Bresci attraverso il nostro documentario.
D’altra parte non volevamo però neanche uscire con un prodotto “di propaganda” dipingendo Bresci come un eroe, esempio da seguire nella lotta all’odierno capitalismo. Ci sembrava riduttivo se non controproducente ai fini di far conoscere la sua figura al più vasto pubblico possibile.
La soluzione è da ritrovare nel montaggio: abbiamo cercato assonanze fra l’epoca umbertina e l’epoca contemporanea, evidenziando ciò che secondo noi potrebbe avere senso oggi nel gesto di Bresci e cosa invece sarebbe politicamente e socialmente anacronistico.
Abbiamo perciò accostato ad esempio la sua condizione di migrante con quella dei migranti attuali, stipati in barconi senza gloria per poi esser rinchiusi nei moderni lager nazisti chiamati CIE. Persone che, con le loro speranze ed aspettative, partono in cerca di fortuna per poi scoprire che la felicità non la puoi trovare al di là del mare.
Abbiamo messo in parallelo la lotta del movimento “dal basso” di fine ottocento con quella contemporanea, unendo Argentina, Palestina, Chiapas, piqueteros, e Animal Liberation Front. Lotte senza partiti, senza leaders politici di circostanza.
Che tipo di montaggio e quale stile avete scelto per il vostro documentario.
La struttura del documentario ruota attorno alle interviste con alcuni personaggi. Primo fra tutti Giuseppe Galzerano alle cui parole è affidata la ricostruzione storica della vita di Gaetano Bresci e del contesto politico sociale in cui ha maturato l’intenzione di attentare alla vita di Umberto I. In questo contesto altre importanti parole ci sono state offerte da Umberto Cecchi, giornalista pratese, Marco Riccomini, autore dei testi del fumetto “Gaetano Bresci. Un tessitore anarchico” e Salvatore Schiano di Colella che ci ha accompagnato nel carcere borbonico di Santo Stefano dove Gaetano è stato imprigionato e ucciso.
Se la vicenda di Bresci costituisce il cuore del film, non di minore importanza sono gli approfondimenti analitici e storici: da una parte si ripercorre brevemente la storia e il significato del movimento libertario, dall’altra si analizza l’atto del regicidio, la questione della rappresentazione del potere e come questa si evolve, l’individualismo e la ricerca della libertà e di una vita dignitosa, il diritto “a dire basta” e a “buttar giù il vessillo, se no non contiamo mai un cazzo”. In questa parte del film fondamentali sono le parole dello storico pratese Ugo Fortini che ci accompagna in una disincantata e demitizzante analisi della figura di Gaetano, e la battuta finale di Silvano Gosparini a chiusa del film.
L’apertura del film è invece dedicata ai compagni e alle compagne carraresi, primi in Italia ad aver dedicato un monumento a Gaetano Bresci regicida anarchico. Ci raccontano la storia travagliata della posa di questo monumento Donato Landini e Mauro Franchini.
Data la quasi totale assenza di immagini d’epoca filmate, il corpo visivo del film è costruito attorno ad un lavoro di montaggio su una grande quantità di materiale fotografico. Lunga è stata la ricerca e la selezione di questo materiale che ci ha portato a visionare decine di volumi ed archivi, fino ad arrivare alla composizione finale di questo gioco di immagini fisse in costante movimento e compenetrazione che danno visione alle parole dei nostri protagonisti. Alle immagini storiche abbiamo inoltre affiancato immagini contemporanee sia per quanto riguarda le condizioni di miseria e repressione che per immagini di rivolta e resistenza. Tutto ciò per sottolineare che persistono tutt’oggi quelle condizioni di diffusa disuguaglianza sociale, povertà e repressione che hanno mosso nell’animo del Bresci il proposito di attaccare il responsabile di tutto ciò. Così come ancora reali sono i propositi di rivolta che accompagnano la nostra vita di esseri liberi.
Un discorso particolare va poi fatto per la ricostruzione visiva della vita di Gaetano Bresci. Pochissime sono le illustrazioni storiche che ci arrivano dato il divieto reale di pubblicare immagini dell’assassino del re. Ma l’animazione e il montaggio dei disegni di Fabio Santin per il fumetto di cui già si accennava prima ci hanno permesso di ricostruire alla perfezione ogni momento della vita di Bresci.
C’è poi un ‘personaggio misterioso’ che ci accompagna per tutto il film: lo vediamo davanti al monumento di Bresci a Carrara, lo intravediamo mentre facciamo le interviste, sotto l’insegna di via Gaetano Bresci a Prato. E poi lo vediamo sparare mentre una voce off sullo sfondo ci racconta con precisione del regicidio, ma soprattutto lo vediamo in coda al film mentre si aggira disinvolto nello squallore della commemorazione monarchica che ogni 29 luglio viene celebrata a Monza. È lo spirito libertario che non teme e che non muore, quello spirito che ci attraversa e che ci fa essere dappertutto nella storia e in ogni barlume di speranza e di indignazione.
Quali le difficoltà nella realizzazione.
La realizzazione del film è cominciata quando nell’estate del 2006 abbiamo letto il monumentale volume di Galzerano su Gaetano Bresci. Da quella lettura parte l’ideazione del film e la prima difficoltà è stata quella di dover selezionare un percorso narrativo tra i numerosissimi documenti e informazioni che il libro mette a disposizione. Realizzata una sceneggiatura di massima si pone il problema della produzione ovvero come trovare i soldi per spostarsi per fare le interviste, girare le immagini, cercare i materiali ecc... La risposta naturale è stata quella di condividere il progetto con il collettivo Teleimmagini, un collettivo di mediattivisti presenta all’interno dello Spazio Pubblico Autogestito XM24 di Bologna. Con Teleimmagini quindi sono state realizzate delle serate di autofinanziamento per recuperare il denaro necessario per la produzione, ma questo ha comunque richiesto il rispetto dei naturali tempi dell’autogestione. Se da un lato quindi le fasi di realizzazione del lavoro e di ricerca dei fondi si sono dilatate nel tempo (anche perchè nel frattempo sono stati realizzati altri progetti è c’è costantemente la necessità di seguire l’attività politica dello spazio sociale e quella di comunicazione indipendente), ciò ci ha permesso di sperimentare un sistema autoproduttivo totalmente svincolato da qualsiasi concessione alle dinamiche della produzione tradizionale, dal punto di vista estetico, contenutistico o produttivo. Unici referenti sono sempre rimaste le dinamiche di condivisione del lavoro. In tutto sono state girate circa 15 ore di materiale, quasi tutte interviste, nell’arco di circa 4 anni. Altro passaggio difficoltoso: la trascrizione integrale di tutte le interviste al fine di poter poi montare nel modo migliore possibile le cose tra di loro. Una volta terminato questo monumentale lavoro di trascrizione è cominciata la fase di montaggio vera e propria e quindi la visone collettiva dei primi premontaggi, i consigli dei compagni e delle compagne fino alla prima, bella e partecipata proiezione pubblica il 26 novembre 2009 all’XM24 di Bologna con la presenza dei protagonisti del film.
Grazie mille a Max e Silvia per questa intervista.
Andrea Staid
Sulla dicotomia
uomo-animale
Ai confini dell'umano: gli animali e la morte (Ombre Corte – Cartografie, Verona 2010. pp. 95. 10 euro) di Massimo Filippi non è un libro a una dimensione. Ha le peculiarità del libello, l’incedere del saggio animalista, il turbinìo nietzschiano della forma aforistica. Ma non è nulla di tutto ciò. È un’intersezione tra libera speculazione intellettuale e prassi quotidiana – l’autore, oltre ad essere medico e ricercatore affermato, è attivista (antispecista) per i diritti animali; in sostanza è un diario intellettuale di esperienza vissuta.
Appare come saggio letterario, leggendo per esempio il paragrafo Frammenti da un diario di bordo (pp. 77-79), in cui Filippi costruisce un senso nuovo mescolando estratti da un vasto, quanto complesso, panorama intelletuale, ma non è effettivamente letteratura. Adopera il termine tedesco Umwelt (p. 12) come “universo soggettivo” o, come direbbe Jakob von Uexküll, “fondamento biologico che sta nell’esatto epicentro della comunicazione e del significato dell’animale-uomo (e non)”, ma non riduce tutto quanto a un semplice stile “filosoficamente significativo”.
La liminarità suggerita dal titolo non è né spaziale, né superficiale, e non cerca di ricostruire una cartografia della morte o un’epigrafia dei diritti animali. È una litografia del contemporaneo, essenziale, ruvida, tanto da sembrare una Danza Macabra in chiave moderna. Filippi gioca con il “limite ultimo”, la morte, in cui il biopotere, forse zoopotere, interviene; come già adeguatamente la narrazione foucaultiana esaminò, a suo tempo, tra sorveglianza, punizione e storia della sessualità.
Nella Prima Cantica della Commedia dantesca la guida era rappresentata da Virgilio, il quale, secondo l’interpretazione auerbachiana, simboleggiava sì la ragione, ma anche l’impegno politico, la caducità della propria condizione, l’umanità, la speranza in attesa. In Ai confini dell’umano abbiamo una figura analoga al Virgilio di Auerbach per un viaggio evidentemente infernale: Theodor Adorno. Un maestro del sospetto “minore” rispetto a Marx, Nietzsche e Freud, per dirla con un termine coniato da Paul Ricoeur, ma non di certo «uomo di poco conto». Il filo rosso dell’intera trattazione mira a considerare il concetto “animale” sempre in rapporto con l’aconcettuale; ciò che bisogna estinguere è un'autarchia, un'autonomia gerarchica, del concetto (p. 26). L'intento è di operare con i “concetti”, ma cercando di portarli sempre verso il non-identico. Questa prassi la si ritrova certamente nella Negative Dialektik (Dialettica Negativa) adorniana, ma è anche il motore del cosiddetto Carro, protagonista dei primi due capitoli.
Il presupposto ontologico è l’idea secondo cui l’esistenza è autoritaria, in quanto la verità si dà solo nella costellazione di soggetto-oggetto e non può essere ridotta al soggetto o all’essere. Ciò che di vero vi è nel soggetto, si dispiega nella relazione con ciò che esso stesso non è, e non nell’arrogante affermazione del suo “essere così” o del suo “esserci”. In questo panorama di guerra esistenziale permanente, l’esistenza viene consacrata senza il consacrante lasciando sul campo una mera affermazione: affermazione di potere. La dicotomia uomo-animale eleva l’uomo ad artigiano del proprio mondo, occultando così la dimensione animale. La dottrina dell’habeas corpus incide, decide, coincide con la nozione di persona, rifiutando così per sempre la dimensione dell'animale e dell'animalità.
Nel capitolo Il carro dell’accalappiacani, Filippi conduce una decostruzione metafisica dell’immaginario antropomorfizzato. Attacca in profondità l’idea dell’uomo “ricco di mondo”, capace dunque di sopraffare e ritualizzare il proprio rapporto con l’animalità solo superficialmente, eliminando quell’animale valutato per differenza e perciò “povero di mondo”. La negatività di tale operazione, nel momento in cui emerge l’umano (pp. 7-8), è un’operazione che ha fatto storia e che non ha solo coinvolto gli animali non-umani, ma in questa costruzione dell’umano “per differenza” ha talvolta privato dello status di persona categorie deboli di esseri umani – inutili sono qui i riferimenti allo sfruttamento dell’essere umano su altri esseri umani, pensando al solo caso italiano, nonostante i lodevoli intenti passati di Giangiacomo Feltrinelli, non esistono ancora biblioteche in grado di raccogliere tutti i documenti riguardanti il solo tema dello “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Il primo carro diviene poi Il carro dei cani morti in cui la critica si focalizza sulla sola dimensione animale. Il tentativo di Filippi è quello di riabilitare la dimensione ontologica dell’animale non-umano, andando a colmare i vuoti che la tradizione classica non è riuscita a risolvere. L’analisi mantiene perciò alcuni elementi di quella tradizionale, ma cerca di spaziare in ambiti diversi con “criteri speculativi” diversi. L’intento ultimo è quello di mettere in luce la contraddittorietà della definizione di animale a partire dalla definizione di “umano”, espungendo così il pregiudizio terminologico che vede contrapposti animalità e razionalità, materialità e astrazione.
Ettore Brocca
La città (totalitaria)
smascherata
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Nelle nostre città la maggior parte delle persone non riescono a vivere come vorrebbero; l’ambiente urbano, che muta senza freno e senza rispetto di chi lo vive inibisce lo sviluppo delle personalità degli individui che abitano le città.
Le città sono inadatte a soddisfare i bisogni della maggior parte dei cittadini, sono organizzate a vantaggio dei pochi che dominano le politiche e la gestione delle risorse della città.
Questo libro smaschera la città totalitaria e cerca di costruire un minimo programma per combatterla e cambiarla.
Un programma radicale che deve opporsi allo sviluppo e reclamare un ritorno alla città, cioè all’agorà, all’assemblea. Deve proporsi di fissare limiti allo spazio urbano, restituirgli la forma, ridurre le dimensioni, frenare la mobilità. Riunire i frammenti, ricostruire i luoghi, ristabilire relazioni solidali e vincoli fraterni, ricreare la vita pubblica. Demotorizzarsi, vivere senza fretta. Dimenticarsi del mercato, rilocalizzare la produzione, mantenere un equilibrio con la campagna, demolire tre quarti del costruito, decementificare il territorio. L’economia deve tornare a essere una semplice faccenda domestica. Uscire dall’anonimato. L’individuo deve evolversi fino a trovare il proprio posto nella collettività e mettere radici. La città deve generare un’aria che renda liberi gli abitanti che la respirano. Secco, veloce e di facile lettura lo consiglio a tutte le persone che non si sentono a proprio agio nella “loro” città.
L’autore Miguel Amorós è stato un attivo partecipe del ’68 spagnolo, negli anni Settanta dà vita a vari gruppi anarchici, tra cui “Bandera Negra”, “Tierra Libre”, “Barricada”, “Los Incontrolados” e “Trabajadores por la Autonomía Obrera y la Revolución social”, conoscendo le carceri franchiste prima di essere costretto all’esilio in Francia. All’inizio degli anni Ottanta, è in rapporto con Guy Debord e partecipa alla diffusione dell’Appels de la prison de Ségovie.
Tra l’84 il ’92, fa parte della redazione della “Encyclopédie des Nuisances”.
Tra le sue principali ricerche storiche, ricordiamo La Revolución traicionada. La verdadera historia de Balius y Los Amigos de Durruti (2003), Durruti en el laberinto (2006) e la biografia dell’anarchico valenciano José Pellicer, fondatore della Columna de Hierro (2009). Sull’ideologia del progresso e sulle nocività ch’essa genera, ha scritto, fra l’altro, il Registro de catástrofes (Anagal). Numerosi testi di Miguel Amorós sono presenti sulla biblioweb “Caosmosis” (http://caosmosis.acracia.net/?cat=16).
Andrea Staid
Riscossa sociale e
“guerra civile”
La nuova pubblicazione Sovversivi e squadristi. Alle origini della guerra civile in provincia di Arezzo (Aracne Editrice, con prefazione di Fabio Fabbri, pagg. 324, euro 20) della raccolta di alcune ricerche, ulteriormente documentate e correlate tra loro, compiute nel tempo da Giorgio Sacchetti offre la possibilità di un viaggio in una zona assai poco frequentata da un punto di vista storico.
L’allusione geografica non è tanto alla provincia di Arezzo, teatro di vicende locali che ebbero comunque una rilevanza nazionale, quanto piuttosto agli anni immediatamente precedenti alla Marcia su Roma, cadenzati dai continui scontri tra sovversivi e fascisti, tra lavoratori e forza pubblica, che continuano a restare in ombra, nonostante l’insistita “riscoperta”dei fatti salienti – dal Risorgimento sino agli anni Ottanta – della “nostra storia”.
Nel prossimo 2011, infatti, è facile prevedere che non ci sarà alcuna commemorazione ufficiale per quanto avvenuto 90 anni fa.
Eppure, il 1921 fu per la società italiana un anno cruciale sul piano politico che vide la violenza fascista raggiungere il suo apice, sia nelle campagne che nelle città. Approssimativamente, ogni giorno si registravano una decina di uccisioni di attivisti sindacali, militanti di sinistra nonché semplici lavoratori e lavoratrici: metà per mano degli squadristi di Mussolini e metà sotto il tiro delle cosiddette forze dell’ordine.
Si trattava a tutti gli effetti di una guerra e il tributo in sangue, pagato da chi lottava contro le condizioni inumane di vita e lavoro imposte dal padronato agrario o industriale, era da tempo altissimo: è stato calcolato che dal 1917 al 1922 furono almeno 6000 i proletari uccisi e decine di migliaia quelli feriti da carabinieri, guardie regie, militari, mazzieri e fascisti. Questi ultimi erano comparsi sulla scena a partire dal 1919 e, nonostante che il loro Programma potesse contenere aspetti “di sinistra”, ben presto si dimostrarono un’organizzazione, finanziata da individuati settori economici e protetta dall’apparato statale al fine di fronteggiare, scompaginare e colpire con ogni mezzo i movimenti di rivendicazione sociale che, nell’agitato dopoguerra, avevano più volte assunto il carattere di aperte rivolte e insurrezioni contro il potere costituito.
Infatti dopo la “vittoria” conseguita nel Primo conflitto mondiale, con l’olocausto di oltre 600 mila caduti, la patria adesso imponeva nuovi sacrifici senza gloria: salari da fame, disoccupazione, licenziamenti, sfruttamento, tanto da spingere le classi subalterne e persino i reduci di guerra su posizioni rivoluzionarie, sotto le bandiere del comunismo e dell’anarchia.
Questo clima di riscossa sociale attraversò tutta la penisola, raggiungendo anche le contrade e i borghi più isolati; le cronache della guerriglia di classe in Valdarno e in Valdichiana, ricostruite e approfondite dal minuzioso lavoro di Giorgio Sacchetti, mostrano uno scenario toscano tragicamente inedito, anche se certo non nuovo ad aspre tensioni popolari e a dure vertenze sindacali.
L’Autore e il curatore della prefazione, Fabio Fabbri, partendo da questo contesto di guerra civile, conducono ad un’interessante e argomentata critica, nell’analisi del fenomeno squadrista, della prevalente definizione del fascismo data dall’anarchico Luigi Fabbri quale “contro-rivoluzione preventiva”.
Tale tesi è, ad opinione di chi scrive, parzialmente condivisibile.
Infatti, è del tutto pertinente l’osservazione secondo la quale non ha senso parlare di “rivoluzione” rispetto alla conquista del potere da parte di Mussolini e dei suoi ras, avvenuta con incarico formale da parte del re e il voto favorevole della maggioranza del Parlamento, e tanto meno in relazione al “ventennale” regime volto alla restaurazione dei rapporti di classe tra capitale e lavoro.
Detto questo, però merita attenzione il fatto che la conclusione dell’Occupazione delle fabbriche avesse rappresentato tutt’altro che la chiusura prematura e definitiva di ogni prospettiva rivoluzionaria.
Infatti, quella che per il movimento operaio rappresentò, fondatamente, una sconfitta sul campo rispetto alle rivendicazioni economiche, significò anche un’ulteriore radicalizzazione della coscienza di classe. Condannata la linea perdente e rinunciataria dei vertici sindacali riformisti durante la vertenza, mentre le fabbriche erano presidiate in armi e sotto il controllo dei Consigli operai, significativi settori del proletariato industriale avrebbero, subito dopo l’epilogo del movimento, aderito massicciamente all’Unione Sindacale Italiana proprio in virtù delle sue intransigenti posizioni classiste e rivoluzionarie.
Anche sul piano più prettamente politico, analogamente, la perdita di credibilità del Partito Socialista portò sia ad un rafforzamento della neonata Unione Anarchica Italiana, sia fu il presupposto per la successiva nascita del Partito Comunista d’Italia “per fare come in Russia”.
Da questo punto di vista, quindi, la minaccia di una rivoluzione proletaria poteva dirsi tutt’altro che debellata, al punto da spingere i poteri forti (capitale, clero, esercito) ad agire preventivamente per scongiurare tale evenienza. Difatti, nel discorso alla Camera di Mussolini del 16 novembre 1922, dopo l’assunzione legale del potere da parte del fascismo, venne assicurato che “le direttive di politica interna si riassumono in queste parole: economia, lavoro, disciplina”.
Ulteriore interessante spunto di dibattito, messo in luce dal libro, è quello riguardante il nesso tra questa prima guerra civile e quella che, tra il 1943 e il ’45, avrebbe animato la Resistenza saldandosi con la guerra di liberazione nazionale e quella di classe.
Questa continuità, seppure riscontrabile nelle coerenti biografie di tanti antifascisti (ma anche di tanti squadristi tornati in servizio sotto Salò), appare in verità un fattore assai poco lineare e portatore di non poche contraddizioni per la storiografia ufficiale e la retorica istituzionale; tanto è vero che il primo antifascismo, sovversivo e marcatamente proletario, continua ad essere pressoché rimosso oppure ridefinito secondo canoni più rassicuranti per il potere politico, magari trasformando i nemici dello Stato di allora in anacronistici difensori della democrazia borghese di oggi.
Tocca quindi a chi cerca la libertà, armarsi di buona memoria, per non perdere il filo.
Marco Rossi |