Educazione
o barbarie
Cornelius Castoriadis (Costantinopoli, 1922 – Parigi, 1997) è stato uno dei maître à penser più innovativi della cultura francese del secondo Novecento. Greco di nascita, riparò in Francia negli anni Quaranta. Fondatore del gruppo Socialisme ou Barbarie con Claude Lefort, pubblicò l’omonima rivista dal 1949 al 1966. Inizialmente comunista (fu vicino al trozkismo fino a vent’anni), ha maturato una delle critiche più radicali e articolate del marxismo, specialmente della tecnoburocrazia sovietica, sviluppando il concetto di autonomia. È stato filosofo, psicanalista, economista e, soprattutto, attivista rivoluzionario. La sua opera è assolutamente enciclopedica, non solo vasta ma varia al punto da toccare in profondità i campi del sapere più disparati. Ma questa poliedricità non ha favorito la diffusione del suo pensiero, al contrario: in Italia sono state tradotte e pubblicate poche opere (spesso parzialmente), e anche all’estero rimane un autore di gran lunga più citato che letto e assimilato.
Democrazia e relativismo, il libretto pubblicato ora da Elèuthera, è una buona occasione (l’unica in lingua italiana) di incontrare il pensiero di Castoriadis nei suoi tratti essenziali. Depurato dalle difficoltà dei linguaggi accademici e specialistici, ma non banalizzato, si presenta come dialogo fra Castoriadis e i membri del MAUSS (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali), tra cui ricordiamo Alain Caillé, Serge Latouche e Chantal Mouffe. Le questioni poste dal MAUSS, fucina di primo piano di intellettuali marxisti eterodossi, danno vita a un dibattito vivace, in cui le analisi e proposte di Castoriadis emergono per radicalità e chiarezza. Frutto di cinquant’anni di attività, dopo altri quindici anni sono più attuali che mai.
Innanzitutto, la democrazia. Per Castoriadis, la democrazia non è data dalla natura né dallo sviluppo dialettico dei rapporti sociali, è una creazione storica e autonoma degli esseri umani che decidono di autogovernarsi e, in quanto tale, costruzione aleatoria. Nulla è più estraneo di questo al pensiero marxista, ispirato dalla necessità della rivoluzione. In due momenti della storia, nell’Atene classica e nell’Occidente, l’idea di una società autonoma (che si dà regole da sé), s’impone rispetto all’eteronomia dilagante. Il germe di questa autonomia «è la messa di discussione di sé stessi»: la capacità di riflettere su sé stessi, di prendere le distanze e di rivoltarsi contro l’istituito e di creare dal nulla nuove istituzioni sociali.
Questo processo incessante di rimessa in discussione esprime un relativismo radicale. Ma non si tratta di una resa critica di fronte al divenire, al contrario. Il riconoscimento che le dinamiche sociali sono legate in maniera indissolubile alle fragili contingenze umane, e sono del tutto svincolate da presunte necessità storiche, ragioni razionali o istanze trascendenti, è una precondizione per l’esercizio della libertà. Nessuno spontaneismo, nessuna soluzione facile né definitiva, poiché «Niente e nessuno può proteggere l’umanità dalla sua propria follia» (1). Ma tanto meno può essere una soluzione l’eteronomia, in qualunque sua forma, di delega ai rappresentanti, o di soggezione a un potere dittatoriale, regale, imperiale. Per questo l’unica democrazia possibile è la democrazia diretta, a sostegno della quale Castoriadis offre argomentazioni semplici ed eleganti.
Quali sono gli strumenti per coltivare un immaginario di autonomia, che è la base dell’esercizio della libertà? Castoriadis indica con forza la paideia, l’educazione: «la partecipazione dei cittadini, a tutti i livelli della società, non è una faccenda nella quale basta aspettare un miracolo, bisogna lavorarci intensamente, introdurre delle disposizioni istituzionali che la facilitino. […] Nessuno nasce cittadino. E come lo si diventa? imparando a esserlo. Lo si impara, innanzitutto, osservando la città in cui ci si trova.». Consapevoli (e Castoriadis cita esplicitamente Berlusconi e il suo omologo francese Bouygues) che la situazione è grave, forse senza rimedio, perché l’immaginario è dominato dall’immondizia televisiva, dalla volgarità dell’esibizionismo pornografico di massa.
Il discorso si conclude con una duplice apertura al futuro. A proposito dell’insostenibilità dell’ideologia del Progresso, vero punto in comune fra il marxismo e il liberalismo, sia a livello economico sia a livello tecno-scientifico. «Ecco quindi qual è il punto centrale della questione politica oggi. Una società autonoma può essere instaurata solamente dall’attività autonoma della collettività. Tale attività presuppone che gli esseri umani investano con forza ben altro che non la possibilità di acquistare un nuovo televisore a colori. Più profondamente, essa presuppone che la passione per la democrazia e la libertà, per gli affari comuni, prenda il posto della distrazione, del cinismo, del conformismo, della corsa al consumo. In breve: essa presuppone, tra l’altro, che l’economico cessi di essere il valore dominante o esclusivo. [...] Diciamolo in maniera ancora più chiara: il prezzo da pagare per la libertà è la distruzione dell’economico in quanto valore centrale e, di fatto, unico. È un prezzo davvero tanto alto? Per me, certamente no: preferisco infinitamente avere un nuovo amico piuttosto che un’automobile nuova. Preferenza soggettiva, senza dubbio. Ma ‘oggettivamente’? Lascio volentieri ai filosofi politici il compito di ‘fondare’ lo (pseudo-)consumo in quanto valore supremo. Ma c’è qualcosa di più importante ancora. Se le cose continuano la loro corsa attuale, questo prezzo dovrà essere pagato in ogni caso. Chi può credere che la distruzione della Terra potrà continuare ancora un secolo al ritmo attuale? Chi non vede che questa distruzione si accelererà ancora se i paesi poveri si industrializzano? E chi stringerà la cinghia, quando non sarà più possibile tenere le popolazioni fornendo loro costantemente nuovi gadget? […] È certo che non si può continuare così. Ma è certo che non si può puramente e semplicemente dire: si distrugge tutto e si riparte da zero. Siamo la prima società in cui la questione di un’autolimitazione dell’avanzamento delle tecniche e delle conoscenze si pone non per ragioni religiose o simili, o politiche in senso totalitario – Stalin che decreta che la teoria della relatività è antiproletaria –, ma per ragioni di [...] prudenza nel senso profondo del termine. E insisto: parlo di limiti non solo della tecnica, ma anche della scienza. […] mi piacerebbe molto che un Hubble ancora più potente ci permetta di sapere se c’erano oppure no delle protogalassie quindici miliardi di anni fa, è un problema che mi appassiona. Ora, gli Hubble e i satelliti implicano la totalità della scienza e della tecnica moderna. Dove andremo a porre questo limite, e chi lo porrà, e a partire da cosa? Questa è una vera domanda».
Carlo Milani
Approfondimenti su:
http://www.castoriadis.org
1. «Nessuno può proteggere l’umanità contro la follia o il suicidio», «La polis grecque et la création de la démocratie» (1982-1986), ripreso in Domaines de l’homme, Paris, Le Seuil, 1986, p. 297; nuova edizione collana «Points», p. 371.
Bibliografia italiana di Castoriadis
La Società burocratica - I rapporti di produzione in Russia, SugarCo, Milano, 1978 (esaurito)
L’Immaginario capovolto, Elèuthera, Milano, 1987 (con Pierre Ansart, Amedeo Bertolo et al.)
Gli incroci del labirinto, Hopefulmonster, Firenze, 1989 (esaurito)
L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, Dedalo, Bari, 1998
L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 (esaurito)
La rivoluzione democratica. Teoria e progetto dell’autogoverno, Elèuthera, Milano, 2001
Finestra sul caos. Scritti su arte e società, Elèuthera, Milano, 2007
Democrazia e relativismo, Elèuthera, Milano, 2010 |
Non puoi fermare
il vento
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“La ragione per la punibilità della sessualità lesbica è data dal (...) ribaltamento del naturale sentire delle donne, dall’alienazione che così si viene a provocare rispetto al loro naturale destino di mogli e di madri e dall’alterazione e dal danno alla vita della comunità nazionale che così si vengono a produrre”. (Rudolf Klare, giurista e sergente SS, 1937).
Questa citazione, tratta dal saggio di Claudia Schoppman presente nel recente R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista (a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi. Ombre corte, collana Documenta, Verona, 2010. pagg. 190, euro 19), oltre a somigliare in maniera scontata ma inquietante alle teorie della destra cattolica italiana attuale, ci introduce al discorso della punizione dell’omosessualità durante il nazifascismo. Punibilità che ha differenziato i gay dalle lesbiche: solo in Austria infatti le lesbiche sono state incluse nel paragrafo 129 del codice penale (attivo sino al 1971!), mentre in Germania il paragrafo omofobo 175 (attivo a est fino al 1957 ed a ovest sino al 1968) non nominava le donne. Anche l’Inghilterra, oltretutto, si è distinta per la penalizzazione dell’omosessualità, ma parlamentari conservatori non riuscirono, nel 1921, a introdurre la punibilità anche per le donne.
L’invisibilità delle lesbiche continua quindi anche durante il più cruento delirio di normalizzazione europeo. Come esseri non inclusi nel bestiario e invisibili anche allo specchio, noi lesbiche indirizzate ai campi di concentramento veniamo definite in altro modo: ebree, asociali, prigioniere politiche, prostitute... . “..Il pericolo di venire denunciati per -atti osceni- era maggiore per gli uomini che per le donne. Da un lato, perché gli uomini spesso cercavano i partner nei parchi o nei bagni, il che portava a numerose delazioni. Dall’altro lato, perché gli atti sessuali compiuti dalle donne, al contrario, si svolgevano generalmente in spazi domestici, cosa che offriva loro grande protezione.”
La repressione dell’omosessualità in Germania era iniziata più crudamente verso la fine degli anni di Weimar, poi, nel 1933, vennero chiusi tutti i locali “sospetti”, con pubblicazione sulla stampa degli indirizzi vietati. Solo nel 1936, brevemente, si riacconsentì l’apertura dei locali berlinesi per dare l’impressione durante le Olimpiadi che la città non fosse sotto il maglio della censura.
La diffusione e naturalezza del desiderio produce esistenze differenti in ogni classe sociale, così gli esempi di resistenza lesbica, faticosamente tratti dagli archivi e confluiti in questi preziosi otto saggi, sono infiniti: dalle lesbiche ebree alle donne internate nei campi come asociali, alle intellettuali a quelle prive di formazione politica, alle “julot” lesbiche, donne che nei campi di concentramento usano il proprio corpo per ottenere migliori accomodamenti. Lotta politica e lesbismo si scontrano in un’atmosfera di guerra che, se da un lato favorisce l’uscita delle donne dai ruoli predefiniti (aumento del numero delle operaie, vita militare ecc.), dall’altro stigmatizza in tutti gli schieramenti l’esibizione dell’orientamento sessuale, anche nella Resistenza: lo racconta Raquel Osborne nel suo saggio “Le monache rosse. La visione delle prigioniere politiche rispetto alle relazioni lesbiche nei campi di concentramento nazisti e nelle carceri franchiste”: “Tra di noi, la compagna stessa che viveva l’esperienza del lesbismo si emarginava da sola (...)”, oppure, come per smentire l’ideologia del “rosso degenerato” diffusa dai franchisti, esse venivano segregate dalle loro stesse compagne, le “monache” dedite anima e corpo alla causa del loro partito.
Il pericolo posto in causa da donne che si sottraggono per istinto all’economia sessuale maschile, dicevamo, non è nominato o a seconda dei casi incluso dai nazisti in un maniacale compendio di biopolitica, che include le lesbiche prive di risorse mimetiche (escludendo quindi quelle che si proteggevano con matrimoni combinati) in una strategia di segregazione “sanitaria”che le accomuna alle donne mentalmente sofferenti, a vagabonde e renitenti al lavoro, a coloro che trascurano la casa e la famiglia. Tutte “incorreggibili” che venivano sottoposte a durissime punizioni corporali, iniezioni di apomorfina e sterilizzazione coatta.
È una scelta giusta e significativa che le autrici abbiano scelto per questo libro la parola R/esistenze, perché, come spiegano nell’introduzione, la nostra stessa vita era (ed in molti casi è ancora) una resistenza ai tentativi continui di negare il nostro stesso essere al mondo.
A queste sorti si sottrassero le tante donne volontariamente esiliate che condussero tra l’altro importanti ruoli nella Resistenza, come l’affascinante Mopsa Sternheim, arrestata nel 1943 a Parigi, torturata dalla Gestapo (estrazione dei denti), la quale per resistere moralmente al campo, nel quale si distinse per la forza e la cura delle compagne malate... faceva a mente la lista dei suoi amori e delle loro qualità.
Mentre la Kripo, la “Centrale del Reich per la lotta all’omosessualità e all’aborto” compiva il suo sporco mestiere, le lesbiche sopravvivevano anche grazie al Sistema, come racconta una lesbica berlinese che, trasferita in una piccola azienda del nord ricorda: “Ai tempi del nazismo ho vissuto i flirt più incantevoli della mia vita. E per giunta durante il servizio obbligatorio al deposito di munizioni...”.
Tanti i preziosi contributi del libro per quello che riguarda le lesbiche italiane: l’annotare l’esistenza lesbica nelle citazioni brevi e spesso vaghe degli intellettuali d’allora (Mario Tobino, Luce d’Eramo, Gianpaolo Pansa, Vasco Pratolini, Enzo Biagi), la sottolineatura del rapporto tra lesbiche italiane e istituzioni culturali proto-femministe del tempo, ed anche sportive, come l’Accademia di educazione fisica femminile di Orvieto fondata nel 1932 per volere fascista e diventata per contrappasso un punto d’incontro delle lesbiche integrate e amanti della... fitness. Quando si dice: non puoi fermare il vento.
Francesca Palazzi Arduini
Zapata
sempre attuale
Quest’anno ricorre e si festeggia in Messico il 1° Centenario della Rivoluzione.
C’è chi vorrebbe correggere le date e sostenere che la Rivoluzione non è iniziata nel 1910 e che i primi moti scoppiano ben prima. Altri sostengono invece che la caduta di Porfirio Diaz, come pure l’insediamento di Madero , sono avvenuti soltanto nel 1911. I piú scettici dichiarano che la rivoluzione non si è mai conclusa e anche questo è un punto di vista che va preso in considerazione.
I compagni, comunque sia, hanno fatto buon viso a cattiva sorte e hanno indetto due manifestazioni celebrative , a modo loro , che sono avvenute in giugno e delle quali avremo modo di riparlare in separata sede .
Il primo colloquio internazionale su “Migrazione e Rivoluzione” ha avuto luogo fra il 7 e l’11 giugno u.s. ed è stato indetto dalla Direzione di Studi Storici dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (DEH-INAH) a Città del Messico.
Gli anarchici della capitale messicana hanno invece convocato i militanti a due “Giornate per il ricupero della memoria storica dell’anarchismo in Messico” nella sede del “Centro Sociale Libertario Ricardo Flores Magón” (1).
Ricardo Flores Magón ed Emiliano Zapata sono le due maggiori figure che da un secolo dominano il panorama delle idee rivoluzionarie in Messico e non cessano di ispirare strategie di lotta valide per tutte le circostanze. Per questa ragione Magón e Zapata sono ancor oggi e piú che mai all’ordine del giorno, sia dei convegni sul passato storico della nazione, sia sulle barricate a Cananea (sí, di nuovo lí, anche se con attori diversi), a Chiapas, Oaxaca o altrove.
Al Convegno dell’INAH ho stretto amicizia con la Dott.ssa Laura Espejel , la quale, per ringraziarmi di “interessarmi ed amare la storia del suo paese” mi ha fatto dono di una sua plaquette: Emiliano Zapata como lo vierom los zapatistas (Edizione speciale dell’Istituto Culturale del Governo dello Stato di Morelos del 2010, 48 pp.).
Bellissima la veste tipografica magnificamente illustrata da Fernando Robles ed arricchita da fotografie scelte da Francisco Pineda e sapientemente corredata da testi selezionati da Laura Espejel (2). Nella sua prefazione il Governatore dello Stato di Morelos, Marco Antonio Adame Castillo, ci spiega che questa pubblicazione è stata concepita per i bambini e gli adolescenti, parte di una mostra itinerante che percorrerà borghi e villaggi di Morelos affinché tutti imparino a conoscere chi li ha difesi e spronati e ha messo a repentaglio la propria vita per una causa nobile , senza pensare di trarne un tornaconto personale. Segue un’introduzione dello storico Salvador Rueda Smithers il quale allude alle proporzioni umane gigantesche del gran rivoluzionario che assurge a figura mitica, al di là di tempo e spazio.
Zapata fu seguito da tutti i contadini perché non solo era uno di loro ma colui che aveva meglio capito che la libertà e la terra, per gli agricoltori, vanno di pari passo.
Da centinaia di testimonianze incise dai ricercatori specializzati in storia orale, l’autrice ha saputo estrarre , con rara maestria, le dichiarazioni piú genuine, contundenti, convincenti, incisive, significative che potessero icasticamente colpire l’immaginazione dei loro eventuali fruitori.
Jesús Sotelo Inclán narra che Emiliano, all’età di nove anni, vide suo padre piangere e gliene chiese le ragioni.
“Perché ci tolgono le terre”
“Chi?”
“I padroni”
“E perché non lottate contro di loro?”
“Perché sono poderosi”
“Ebbene, quando sarò grande farò sí che le restituiscano”
(Questa conversazione viene riprodotta sotto la fotografia della casa della famiglia Zapata)
Ed è proprio cosí che son andate le cose. La vocazione di “Terra e Libertà“ anche se l’ha presa da Magón, è sempre stata insita in lui.
Come nelle tragedie di Shakespeare non mancano i momenti di ilarità: ad esempio quando in uno dei rari viaggi in città, delle popolane chiedono agli zapatisti se son cannibali. La risposta, indiretta, la dà un’altra didascalia asserendo che la fame ogni tanto era tale che hanno dovuto cibarsi di cani, asini e cavalli anche se , in genere, venivano sfamati da contadini solidali.
Dichiara Serafín Placencia Gutiérrez, secondo capitano di cavalleria: “Se arrivavamo da qualche parte il villaggio stesso ci procurava da mangiare e quando ci ritiravamo da qualche parte su una collina, la gente del villaggio ci portava carichi di provviste, cosí mangiavamo”. Alcune fotografie interessanti: Zapata e Madero, Zapata e Villa, cadavere di Zapata, sorretto dai suoi aiutanti, increduli.
I suoi commilitoni sperano che risorga. Simbolicamente Emiliano Zapata non è mai morto e continua ad alimentare le speranze di coloro ai quali ha additato il cammino della lotta per la liberazione da tutti i gioghi.
Pietro Ferrua
Note
- Le due giornate previste dagli organizzatori sono state ridotte ad una sola per non creare difficoltà al programma del convegno accademico dedicato altresí quasi esclusivamente al “Magonismo”. Gli interventi sono disponibili tramite U-Tube.
- Invitata, il mese prossimo, a collaborare al “Ciclo di conferenze sullo zapatismo” indette dal Museo Nazionale di Storia (8 luglio-19 agosto 2010) ove presenterà una conferenza dal titolo:”Le Brigate Sanitarie zapatiste”.
Visioni della “barbarie”
in Messico
Circa un secolo fa, fece molto scalpore negli USA e nel Messico, un libro di denuncia sociale, scritto dal socialista John Kenneth Turner, intitolato Messico barbaro. Nel dire di molti storici, quest’opera precipitò la Rivoluzione Messicana della quale, quest’anno, si celebra il primo centenario. Poco noto in Italia, ma anche nella natia Portland (Oregone, USA), quest’autore, dopo aver intervistato l’anarchico messicano Ricardo Flores Magón, incarcerato a Los Angeles, prestò fede alle sue mirabolanti rivelazioni : nel suo paese esisteva ancora la schiavitù, oltre a tutte le altre magagne prodotto della tirannia di Porfirio Diaz, al potere da un trentennio. Magón concluse annunciandogli che presto sarebbe scoppiata una rivoluzione in Messico, preparata dal Partido Liberal Mexicano, alla quale lo invitò a partecipare.
Turner si adoperò affinché questo avvenisse e si recò varie volte in Messico, la prima accompagnato da una guida-interprete, la seconda, insieme alla moglie incinta (la quale diventerà poi la collaboratrice intellettuale e rivoluzionaria del pensatore e militante, indi la biografa e ne difenderà la memoria sino alla fine della propria vita), la terza e le seguenti a rivoluzione avvenuta. Una rivoluzione di cui era stato un protagonista di primo piano: aizzando la sinistra americana contro Diaz, difendendo gli esuli, allacciando contatti cospirativi e procurando armi agli insorti.
Turner è l’unico straniero ad essere raffigurato nel famoso dipinto murale di David Alfaro Siqueiros dedicato ai precursori della rivoluzione e che fa gran mostra di sé nel Museo d’Arte di Chapultepec a Città del Messico. L’influsso straniero è d’altronde una costante storica nei moti libertari in Messico, non ultimo quello degli anarchici italiani. Fra i rappresentanti delle generazioni recenti basti menzionare Pino Cacucci e Claudio Albertani.
Quest’ultimo, cinquantenne milanese, apprezzato collaboratore di pubblicazioni anarchiche di lingua italiana (ma non solo) ha appena dato alle stampe El espejo de México (Crónica da barbarie y resistencia) (México, Altres Costa-Amic, 2009, in-8°, 194 pp.) nella cui prefazione Benjamín Maldonado non solo evoca John Kenneth Turner ma conclude che il paese sta vivendo in “un nuovo Messico barbaro”.
Alberani è ricercatore dell’Università Autonoma e ha al suo attivo trent’anni di esperienza messicana. Attento osservatore e cronista della realtà che lo circonda, il nostro compagno non si limita a guardare verso il passato e preferisce scandagliare il presente. Fa notare che la denuncia da parte dei giornalisti (contro i quali si accaniscono particolarmente le forze paramilitari, ufficiali e in divisa, oppure quelle segrete e anonime, ben camuffate dietro anodini passamontagna) è una delle azioni più pericolose all’ordine del giorno. Ben ventisei di loro sono stati assassinati.
Un’altra arma prediletta dai nemici della verità è quella dei sequestri di persona. Fra ratti criminali e politici se ne sono riscontrati addirittura settemila nel 2007, secondo le statistiche. Le squadracce semi-illegali e di pretta marca neofascista, praticano un po’ ovunque nel territorio nazionale questa repressione sistematica legata ai grandi interessi neo-capitalisti: traffico di stupefacenti, sfruttamento della mano d’opera, disboscamento antiecologico, protezione del latifondo, interessi petroliferi, giacimenti minerari e via di seguito.
Le forze sane della nazione si difendono secondo strategie inventate man mano: creazione di municipi autonomi, autogestione, carovane di solidarietà, cooperativismo e resistenza non-violenta o armata, dipendendo dai casi. Predominano le soluzioni di tipo zapatista e magonista che l’autore esamina da vicino.
Un capitolo è dedicato all’ÉZNL che irrompe nella realtà messicana il Capodanno del 1994 con l’occupazione di 7 comuni nella regione del Chiapas dichiarando però di non considerarsi un’avanguardia rivoluzionaria né un partito, né un’operazione di guerriglia, bensì come difensore di una democrazia orizzontale.
Nell’ottobre dello stesso anno creano sei regioni autonome e costituiscono ben 224 organizzazioni indipendenti, Il governo reagisce e dà inizio ad un’invasione militare, occupazione che dura sino agli accordi del 16/11/1996 detti di San Andrés Larránzar, che però non vengono rispettati dal governo e i conflitti riprendono vigore.
Albertani narra alcuni degli episodi di questa lotta duratura che ha seguito da vicino, spesso come testimone diretto. Assistette, ad esempio alla creazione dell’APPO (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca) in seguito alle manifestazioni di protesta della Giornata del Maestro del 15 maggio del 2006. Si trattò di una vera resistenza, con tanto di barricate, paragonate alla Comune di Parigi o al maggio 1968. L’APPO è un’associazione di netta ispirazione anarchica, come tante altre istituzioni anomiche che talvolta sorgono spontaneamente mentre talaltra sono prodotto di una strategia di gradualismo rivoluzionario che risale all’apparente “trasformismo” del Partido Liberal Mexicano (che nacque su una piattaforma liberale, maturò in socialismo rivoluzionario e sfociò più tardi in un anarchismo dichiarato).
Parecchie delle componenti dell’APPO “sanno” (alcuni diranno “puzzano”) di anarchismo, ad esempio: Colectivo Autónomo Magonista (CAMA), Colectivo Salud Autogestiva, Alianza Magonista Zapatista (AMZ) , Coordinadora Oaxaqueña Magonista Popular Anti Neo-liberal. Ma la realtà è mutevole e in un documento successivo Albertani dichiara che l’APPO è fatiscente e non rappresenta più nulla di importante.
Al di là dell’anarchismo le etnie indigene del Messico hanno una storia di lotta al loro attivo perché il loro concetto di autonomia è un retaggio ancestrale che precede addirittura la conquista del Messico da parte dei colonialisti spagnoli. Che si tratti degli Zapotechi o dei Tichi, dei Tarahumara o degli Yaqui, le rivendicazioni sono sempre le stesse: autogoverno.
Una delle ragioni per le quali la figura di Ricardo Flores Magón è sempre viva si deve in parte alle sue ascendenze indigene che lo hanno facilmente portato a farsi paladino delle loro esigenze. Fra i precursori della Rivoluzione Messicana i Magón sono stati i primi a denunciare i pregiudizi ed i soprusi di cui erano vittime e a trattarli da pari, bandendo ogni velleità di paternalismo .
Albertani segue lo stesso itinerario: ascolta, analizza, capisce e si rende disponibile. Sa benissimo che Santiago Xanica, San Juan Copala, Chiapas e Oaxaca sono tappe, come già lo furono Cananea, Rio Branco, Paloma, Viesca, Ciudad Juárez.
Fiuta e aspettando l’incognito, apre il cuore, tempera il lapis e si rende solidale.
Pietro Ferrua
Il dramma delle
opinioni viscerali
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Alcuni anni fa, durante un dibattito, un giornalista rivolse una domanda allo scienziato Carl Sagan, e questi rispose che non riteneva di avere conoscenze sufficienti per rispondere in maniera sensata. Il giornalista lo incalzò, dicendogli “D’accordo, professore. Ma qual è la sua opinione viscerale?” Al che, Sagan ribatté che, di solito, cercava di non pensare con le trippe.
L’opinione viscerale, “la cosa che sento nel profondo del mio essere”, gode di grande credito presso quanti non riescono a non dire la loro, quale che sia l’argomento. E il malcostume imperante secondo il quale le opinioni di ciascuno - non importa su che cosa siano fondate, ammesso che abbiano un fondamento - contano quanto quelle di ogni altro, conferisce ad essa ulteriore rilevanza. “È una cosa che sento nel profondo“, “È una sensazione intuitiva, radicata nel mio essere, che questa cosa sia ingiusta e sbagliata”, “Non appena ne ho sentito parlare ho provato la netta sensazione di trovarmi di fronte a una grande verità”. La saggezza delle nonne ci dice di diffidare delle prime impressioni; ma le stesse nonne, che così bene ci consigliano, sono poi quelle che, quali siano le prove e le argomentazioni che portiamo far rettificare loro le eventuali opinioni fondate sul nulla, ci ribattono che “È così perché è così. Lo sento dentro di me, che la mia opinione è corretta, è vera”.
Il dramma delle opinioni viscerali è che, dato che arrivano da sé e che suscitano spesso sentimenti ed emozioni forti, sono spesso ritenute superiori, migliori, rispetto alle opinioni costruite sulla base di conoscenze acquisite con metodo e con rigore che, rispetto alle prime, sarebbero “fredde” o “asettiche”. I sentimenti, del resto, non sono qualcosa che sia possibile argomentare, almeno non è necessario farlo, eppure teniamo i nostri sentimenti in gran conto e riteniamo che una vita che ne sia priva sia una vita meno ricca, meno piena, di quella che la maggior parte di noi ritiene sia una vita appagante da vivere.
Finché tutto questo rimane nella sfera dei sentimenti, non c’è nulla di sbagliato. Dopo tutto, gli sforzi dell’economia evolutiva che cerca di spiegare le ragioni dei nostri affetti sulla base di un computo economico tra costi e benefici, giuste o meno che siano le argomentazioni, ci lasciano insoddisfatti, perché sembra che tutto ciò tenda a svilire, svuotare, banalizzare, misurare l’amore che nutriamo per i nostri cari, l’affetto che nutriamo per i nostri amici, la simpatia che proviamo per questo e l’antipatia che proviamo per quello. Quando, però, l’opinione viscerale sconfina dal campo suo proprio e riceve rilevanza al di fuori dell’ambito dei sentimenti, essa dispiega tutto il suo potenziale nocivo. Chi vorrebbe che il giudice del processo che ci vede come imputati giudicasse sulla base delle proprie opinioni viscerali, e ritenesse di non aver bisogno di acquisire alcuna prova o alcuna testimonianza, perché sente già nel profondo del proprio essere qual è la sentenza da pronunciare? Se si esclude il colpevole, che non ha nulla da perdere, direi che un giudice così non lo vorrebbe nessuno.
Eppure, nonostante già questo semplice esempio sembri in grado di convincere, in linea di principio, i più (“Vorresti farti processare da un giudice così?”), l’opinione viscerale, come se niente fosse, continua a fare la parte del leone negli ambiti più svariati.
Buoni genitori, il libro di Chiara Lalli, è uno studio sulle famiglie omogenitoriali che scalza l’opinione viscerale in materia e la sostituisce con gli argomenti suffragati dai dati di fatto. In primo luogo, attraverso le trascrizioni dei racconti dei protagonisti, che ci dipingono una realtà famigliare sorprendentemente normale. Poi, attraverso la critica puntuale dei vari argomenti di precauzione provenienti dalla filosofia morale, con i quali si tracciano delle linee normative invalicabili al fine di evitare “danni possibili” ai soggetti coinvolti in una relazione o ai terzi, per mostrare come, anche in questi casi, il più delle volte si tratti di tesi del tutto speculative e disgiunte dall’osservazione empirica (quando non mero esercizio di autocompiacimento, come il passo del pessimo Umberto Galimberti che Lalli cita a pagina 58). Infine, il libro demolisce la persistente pretesa di rendere “la natura” un modello normativo (“Per natura non esistono bambini che hanno due madri o due padri”) con argomentazioni rigorose e stringenti.
“Un bambino nato da una madre surrogata è destinato ad avere dei problemi affettivi e psicologici, perciò la pratica dell’utero in affitto è da vietarsi”. D’accordo: mostrami su quali basi tu fondi questa affermazione e, se mi convincerai, conta pure su di me per l‘inevitabile raccolta di firme.
Come scrive Lalli, «sono troppe le persone che non sanno nulla e che non hanno voglia di informarsi. Nessuno dice: “Devo saperne di più prima di esprimere un parere”. Si continua a parlare male solo sulla base del sentito dire, dando per scontato che la maggior parte della gente seguirà questo analfabetismo, fonte di discriminazioni. E anche i politici lungimiranti a un certo punto si fermano, come se non osassero andare oltre una certa soglia» (p. 119). Insomma, prendere esempio da Carl Sagan, sarebbe un buon modo per affrontare questa materia – e, in fondo, tutte le altre – con la serietà che merita. Il che non significa, si badi, che alla fine dovremmo concludere che una famiglia omogenitoriale sia per forza di cose una buona famiglia; soprattutto, non che ogni famiglia omogenitoriale sia per il semplice fatto di essere omogenitoriale una buona famiglia. Ma non è questo, forse, quello che succede con le famiglie tradizionali?
Insomma: leggete questo libro.
Persio Tincani
Un programma
dimenticato
Questo opuscolo malatestiano, che l’editore Franco Di Sabantonio ha il merito di riproporci, ritorna nei circuiti dei lettori libertari e degli studiosi dopo oltre un secolo di oblio. Le motivazioni di una siffatta caduca fortuna pubblicistica, per certi versi sorprendente visto il calibro politico teorico dell’estensore, sono state già analizzate in sede storiografica (1). Edito nel 1884 per i tipi della prolifica “Questione Sociale” (2) di Firenze – città quest’ultima che si conferma essenziale punto di raccordo e crocevia del socialismo antiautoritario italiano (3) – il Programma si rivelerà, nel giro di un decennio, come strumento inservibile per gli scopi ai quali era stato destinato: il proselitismo. Destino differente invece per il coevo Fra Contadini, autentico best-seller si può dire della propaganda anarchica ‘spicciola’, classico di Malatesta tradotto in decine e decine di lingue, ripubblicato centinaia di volte in varia forma e in auge sicuramente per tutto il secondo Novecento. Al di là di questo però, il presente opuscolo riveste un notevole importanza storiografica; ed è anzi un documento cruciale per la comprensione del pensiero malatestiano nella sua evoluzione iniziale, dalla nascita della Federazione italiana dell’internazionale anarchica (Rimini, 1872) fino alla svolta degli anni Novanta. Fondamentale anche per coglierne i successivi, ampi, risvolti novecenteschi. È solo il caso di sottolineare che ci troviamo, per longevità e vivacità intellettuale e d’azione, di fronte ad un leader (passi il termine) di acume e spessore eccezionali. La sua visione rivoluzionaria ha per così dire condizionato lo scenario politico e sociale a cavallo di due secoli nel nostro paese, giungendo a piena maturazione dopo la fallita esperienza insurrezionale della Settimana Rossa, proseguendo poi ben oltre i prodromi della guerra civile italiana. Un pensiero, quello che lui esprime in questo misconosciuto e ‘ottocentesco’ Programma, che si colloca a pieno ancora nella dimensione dell’esperienza politica degli albori, sebbene il ciclo virtuoso dell’esperienza internazionalista si sia già esaurito. Infatti l’Internazionale, in Italia come in Europa, sopravvivrà a sé stessa per qualche anno ancora, affievolendo man mano la sua spinta propulsiva per giungere alla consunzione verso la fine degli Ottanta. Complice la disgregazione del movimento in correnti fra loro politicamente incompatibili: anarchici, socialisti rivoluzionari, operaisti, riformisti / evoluzionisti. Ma l’evidente anacronismo del Programma, che noi siamo in grado di analizzare ex-post, ci rivela in pieno il travaglio della transizione, e la trama delle contaminazioni.
- “…Sono contraddittoriamente fusi, in un intreccio inestricabile, determinismo storico e determinismo naturalistico, volontarismo etico e scientismo positivistico…” (4)
Malatesta (all’epoca trentenne), mentre certo indugia anche su schemi teorici internazionalisti, al fine di contrastare il fronte legalitario riformista del socialismo materializzatosi con la svolta ‘possibilista’ di Andrea Costa (5), espone, quale completamento / superamento della vulgata marxista sull’abolizione della proprietà privata e dei mezzi di produzione, l’intuizione fondamentale anarchica della lotta senza quartiere al potere politico. Ossia sostiene la “simultanea abolizione” per vie rivoluzionarie dell’uno e dell’altra. E delinea la nuova identità acquisita dall’Internazionale quale“libera unione di combattenti”: comunista-anarchica, antiparlamentare nel metodo, antireligiosa. Il determinismo naturalistico risulta poi dalla constatazione che tutto è sottoposto alle leggi della natura e che pertanto, in modo realistico, la società umana debba porsi con esse in piena armonia. Alla scienza il compito di arginare – in senso materialistico – l’ignoranza alimentata da culti e sacerdoti, fermo restando il totale rispetto della libertà di coscienza. Gli obiettivi perseguiti hanno carattere universale; essi non riguardano soltanto l’emancipazione dei lavoratori ma la liberazione dell’intera umanità, ivi compresa la questione di genere là dove si rivendicano per la donna medesimi diritti e libertà che per l’uomo e la fine della sua secolare sottomissione. Contro l’individualismo, la famiglia e il patriottismo quali autentici ostacoli all’affratellamento umano. L’Internazionale intende promuovere l’unione di tutti in un “gran corpo organico, l’umanità”. Per una società comunista strutturata dal basso e antiautoritaria, basata sull’autogestione, la solidarietà, l’armonia e l’amore, dove non ci sarà più distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. A ciascuno secondo i propri bisogni, da ciascuno secondo le proprie possibilità – recita il noto adagio – fuori insomma dalla logica dei meriti e dei compensi propugnata dalle tendenze collettiviste, definitivamente rigettate dal 1876. Ed è un comunismo, quello malatestiano, fondato sull’etica piuttosto che sull’economia, un’etica intesa e declinata come dimensione politica dell’anarchismo:
- “…Abbiamo così alcuni elementi fondamentali del suo anarchismo, che rimarranno poi, maggiormente ampliati e argomentati, quali linee costanti di tutta la sua concezione: il comunismo come mezzo economico più coerente ed efficiente per realizzare quel principio di solidarietà che solo può essere a fondamento dell’anarchia…” (6)
È un progetto rivolto all’umanità intera, sebbene i referenti rimangano – con tutta evidenza – le classi subalterne, verso le quali si alimenta lo spirito della rivolta. Perché tutto appartiene a tutti. La rottura rivoluzionaria, “inesorabile” e ineludibile, armata e violenta (7), è il mezzo indicato dalla Internazionale per conseguire i propri obiettivi. Ciò in quanto ogni privilegiato non abbandonerà sua sponte la posizione che detiene. E si tratta di “colpire forte e presto” attraverso l’autonoma iniziativa delle masse e, sentitamente, degli “uomini di buona volontà”. Attraverso la libera azione di organizzazioni e associazioni (comuni, cooperative, sindacati…) che si porranno già quali elementi costitutivi di base della futura società. E ci si dovrà opporre alla formazione di qualsiasi nuovo governo. Certo le modalità di svolgimento della rivoluzione rimangono imprevedibili, mentre assoluta dovrà essere la fedeltà ai principi esposti nel Programma.
Rivoluzione dunque, nella forma insurrezionale e come trauma violento, punto di rottura obbligato verso la liberazione dalle oppressioni sia economica che politica; minoranze rivoluzionarie come soggetti politici del cambiamento; aclassismo sostanziale: queste le concezioni di fondo che emergono dall’elaborazione teorica malatestiana (nell’anno 1884). Come dato storiograficamente acquisito (8) si rilevano poi, nell’architettura filosofica di tutto il documento, ‘prestiti’ di evidente matrice marxiana: centralità dell’analisi economica sullo sfruttamento, catastrofismo storico, proletarizzazione… Un’impostazione deterministica quindi che però si accompagna ad un altro elemento egualmente robusto: il volontarismo di Bakunin. In una “particolare commistione fra specificità rivoluzionaria e spontaneità popolare” (9). C’è da osservare che, per quanto concerne la ‘spontaneità’ il documento si caratterizza per l’eccezionale cautela, ciò evidentemente in funzione anti-individualista.
È anche bene precisare che il lascito teorico del rivoluzionario russo non si inquadra di certo nella “tattica del colpo di mano”, delle piccole congiure settarie da conventicole – ascrivibili piuttosto ai seguaci di Mazzini, Garibaldi e Pisacane –, ma nel progetto di una grande rivoluzione popolare in Italia che veda, nel medesimo tempo, l’insurrezione del proletariato urbano e delle masse contadine. Così già si intravedono nel presente Programma alcuni primi elementi, di chiara derivazione bakuniana, utili per un ripensamento critico su tutta l’esperienza cospirativa italiana (in gran parte mutuata nel metodo dalla Sinistra risorgimentale), a partire dall’epica avventura della Banda del Matese (10). Ripensamento che si farà pienamente operativo, dal punto di vista politico, con la famosa svolta degli anni Novanta.
- “La rivoluzione non si fa in quattro gatti. Degl’individui e dei gruppi isolati possono fare un po’ di propaganda; – scriverà Malatesta dieci anni dopo (11) – dei colpi audaci, delle bombe e simili cose, se fatte con retto criterio (il che purtroppo non è sempre il caso), possono darci l’aureola di vendicatori del popolo, possono sbarazzarci di qualche ostacolo potente; ma la rivoluzione non si fa che quando il popolo scende in piazza”
Questa sorta di “revisionismo” malatestiano (peraltro ancora in fieri all’epoca della stesura del presente Programma) – come è già stato acutamente osservato (12) – non pregiudicherà in niente la prospettiva rivoluzionaria. Della quale, al contrario, si dilateranno e si miglioreranno le possibilità. Del resto anche la più antica svolta di Andrea Costa (“Lettera agli amici di Romagna”, 1879), sebbene di segno contrario, rispondeva alla medesima esigenza di allargare il contatto con le masse popolari.
Da notare, infine, anche la forma – quasi scanzonata, perfino ironica – con la quale è redatto il paragrafo introduttivo dedicato al “Fisco sabaudo”: un appello alla benevolenza delle autorità (“Fisco, lascia passare il nostro libretto e avrai reso un servizio ai tuoi padroni!”), con toni burleschi che pure espongono la sostanza vera della questione rivoluzionaria. - “Rispettiamo la legge noi! […] ma essa ha al suo servizio fucili e cannoni e manette e noi siam gente troppo ragionevole per metterci a cozzar con essa, fino a quando non avremo in mano argomenti più solidi che non sieno le buone ragioni e gli slanci di cuore” (13)
Ai “Compagni Internazionalisti” si chiede invece indulgenza per la “breve e frettolosa esposizione”. Mentre si raccomandano le osservazioni e gli ulteriori contributi, da utilizzare “in una seconda edizione più completa e più metodica, la quale desidereremmo che riuscisse un’opera collettiva” (14). La premura di Malatesta non dipende ovviamente dalla sua volontà ma dalle personali vicissitudini giudiziarie. Infatti bisogna considerare che, nel momento in cui si occupa della redazione del Programma, è appena rientrato in Italia dall’Egitto e, di lì a pochi mesi, sarà costretto a fuggire in Argentina (dove peraltro fonda un nuovo giornale con il medesimo titolo della testata fiorentina) (15).
Appare dunque evidente nell’autore l’intenzione di portare ad ardua sintesi rivoluzionaria tutto il percorso accidentato svolto dall’Internazionale fin dal 1864 (16) e nei successivi cruciali ed irreversibili passaggi. È un tentativo, generoso ma destinato all’insuccesso, quello di ritenere in prospettiva recuperabile l’esperienza internazionalista semplicemente considerando ininfluente “la timida Internazionale dei primi tempi”. Malatesta pare rendersene conto perché, sui “Preliminari” intenzionalmente depotenzia di qualsiasi connotato solido e futuribile la parola Programma (“…cercheremo soltanto di esporre in breve le ultime conclusioni, a cui l’Internazionale è fino ad oggi arrivata”) (17). Documento prezioso però che, certo rispondendo alle temperie del momento, ridefinisce come punti fermi i connotati comunisti e antiparlamentari dell’anarchismo. Giorgio Sacchetti
Note
- Cfr. P. C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta (1862-1892), Rizzoli, Milano, 1969, pp. 215-218; G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale (1872-1932), Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 120-126.
- “La Questione Sociale” (1883-1889) si pubblica a Firenze e a Pisa negli ultimi mesi. Esce con periodicità settimanale quale “Organo comunista-anarchico”, infine con il sottotitolo di “Voce dei lavoratori”. Promosso da Malatesta, ha fra i suoi principali collaboratori: Francesco Merlino, Francesco Pezzi, Luisa Minguzzi e Francesco Natta. Si succedono come redattori responsabili: Pilade Cecchi, Pietro Vasai, Pio Clementi, Pilade Fantasia. Cfr. L. Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol. I, tomo 1, Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), CP editrice, Firenze, 1972, pp. 33-34.
- La presenza in Firenze di Errico Malatesta, nei primi anni Ottanta, accresce di certo ruolo e importanza dell’anarchismo fiorentino (peraltro reduce da un periodo di stretta repressiva a seguito dell’episodio cruento della bomba antimonarchica a via Nazionale nel ’74). In città è attiva la Federazione Anarchica di via Strozzi, composta dal “Circolo di propaganda fra i giovani operai sotto i vent’anni” e da “Circolo di propaganda fra i grandi. Si tratta di un anarchismo di matrice popolare molto ben radicato. Fra i principali gruppi cittadini: “I Pezzenti” e “Vendetta” di San Frediano; “I Ribelli” di Porta Romana; “Luisa Michel”, “Né Dio né Patria”, “Germinal”, “Gustavo Flourens”, Gruppo delle Sigaraie… Numerosi anche i gruppi nel circondario: a Pontassieve, Le Sieci, Figline Valdarno, Lastra a Signa, Ponte a Signa, Rifredi e Sesto Fiorentino… Cfr. E. Conti, Le origini del socialismo a Firenze (1860-1880), Rinascita, Roma, 1950; P. C. Masini (a cura di), Biografie di sovversivi compilate dai prefetti del Regno d’Italia, “Rivista Storica del Socialismo”, a. iv, n. 13-14/1961; G. Sacchetti, Sovversivi in Toscana (1900-1919), Altre Edizioni, Todi, 1983.
- G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico…, op. cit., p. 120.
- Cfr. E. Gianni, L’Internazionale italiana fra libertari ed evoluzionisti. I congressi della Federazione Italiana e della Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1872-1880), Edizioni Pantarei, Milano, 2008, pp. 305-309. Si veda anche (ivi, p. 310) la cartina “Consistenza delle forze anarchiche al marzo 1884”.
- G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico…, op. cit., p. 123.
- “…Le sue armi sono le bande e le barricate, i fucili e la dinamite, il ferro e il fuoco, messi in opera per distruggere gli eserciti, le flotte, le fortezze, le carceri, e tutto ciò che si oppone al trionfo del socialismo, costringendo il povero a sopportare la sua triste condizione…” (Programma, v. infra).
- Cfr. G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico…, op. cit., pp. 125-126.
- G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico…, op. cit., p. 126.
- Cfr. P. C. Masini, Gli Internazionalisti. La Banda del Matese 1876-1878, Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1958 [ristampa: Franco Di Sabantonio, Roma, 2009].
- “L’Art. 248”, Ancona, 4 febbraio 1894, Andiamo fra il popolo.
- Cfr. P. C. Masini, Gli Internazionalisti…, op. cit., pp. 132-138.
- Programma, v. infra.
- Programma, v. infra.
- Cfr. G. Berti, Malatesta Errico, in M. Antonioli, G. Berti, S. Fedele, P. Iuso (a cura di), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Pisa, BFS, 2004, vol. 2, pp. 57-66; L. Bettini, Bibliografia… cit., vol. I, tomo 2, Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati all’estero (1872-1971), CP editrice, Firenze, 1976, pp. 3-4.
- “Il documento si apre con l’atto costitutivo dell’Internazionale del 1864, ma in effetti della originaria Internazionale è rimasto il nome […] Per il resto questa nuova Internazionale, pur collocandosi nel solco della tradizione e richiamandosi soprattutto all’orientamento della corrente antiautoritaria, è ormai decisamente anarchica nel programma, nella tattica, nell’organizzazione…” (P. C. Masini, Storia degli anarchici italiani…, op. cit., p. 216).
- Programma, v. infra. Ed ancora: “…Le condizioni di lotta in cui vive l’Internazionale fan si che spesso la sua organizzazione non può essere regolare, che qualche volta le vengono a mancare tutti o parte degli organi federali, che la corrispondenza si trova interrotta e non è possibile, per causa delle polizie o di altro, di riunire i congressi. Non per questo l’Internazionale cessa di esistere...” (ibidem).
Contro il perbenismo
e la morale corrente
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La prima parte del titolo (Franco Brizi, Le ragazze dei capelloni. Icone femminili beat e yè-yè 1963-1968, Roma, Coniglio Editore, 2010, pp. 282, euro 38.00) non tragga in inganno i maliziosi e le maliziose; si legga anche il sottotitolo. Non si trattava affatto di ragazze in “uso” dei capelloni. Se mai erano giovanissime teen-ager che, nel del movimento di protesta giovanile degli anni sessanta, provavano a definire una propria identità femminile, ricavarsi un loro spazio autonomo di indipendenza e di giudizio, connotando una rivolta giovanile, all’interno della quale emergeva una specificità di genere.
Il libro tratteggia efficacemente un percorso di emancipazione femminile fuori dagli stereotipi consolidati della tradizione. È una strada del tutto impolitica, che ha come simboli la rottura nel modo di vestire, di cantare, di esigere e volere fermamente la libertà. Nel mondo della canzone beat, dei complessi musicali, nei locali per i giovani, mai si erano viste tante giovani e giovanissime, neanche ventenni. Non erano delle neo-Nilla Pizza, tutt’altro, erano le Patty Pravo, Silvie Vartan, Caterina Caselli, Catherine Spaak e tante altre. Rompevano col modo di vestire delle mamme, con la loro concezione vecchia del ruolo della donna nella società degli uomini, imponevano nei fatti, col comportamento, un nuovo ideale di femminilità, conquistata sul campo, con determinazione, caparbietà e coraggio. Sì, coraggio, perché l’Italia pretaiola e bacchettona non era certo disposta all’accoglienza dei nuovi stili di vita, li contrastava e li giudicava severamente a maggior ragione se si trattava di soggetti femminili. Quell’avanguardia di stile divenne il simbolo e il riferimento di migliaia di ragazze e ragazzine che chiuse nelle loro famiglie soffrivano in silenzio, mugugnavano, borbottavano mezze parole di protesta, aspiravano un ruolo nuovo nella società. A molte di loro era ancora proibito portare la minigonna, indossare gli stivaloni col tacco, usare il mascara e l’eye-liner e, proprio per questo, le amavano, vedevano nei loro atteggiamenti, comportamenti e canzoni, una risposta solidale e rappresentativa della loro insoddisfazione e sofferenza.
Il libro documenta con dovizia la quantità numerica delle avanguardie canore beat con una lunga biodiscografia delle ragazze. Seguono cinque interviste a ragazze beat curate da Maurizio Becker, mentre la parte centrale è dedicata alla riproduzione dei servizi giornalistici dedicati a loro da riviste quali Ciao amici, Big, Giovani, Ciao Big, pubblicate nell’arco degli anni che vanno dal 1963 al 1968. Queste riviste trattarono in larga parte argomenti comuni: riforma della scuola superiore e dei suoi programmi; settimana scolastica corta con sabato libero e niente compiti per il lunedì; introduzione dell'educazione sessuale nella scuola; divorzio, libertà sessuale, verginità, fedeltà matrimoniale, flirt, scappatelle; obiezione di coscienza; libertà di scelta nel campo delle amicizie giovanili e del matrimonio; richiesta di abbassare la maggiore età ai diciotto anni; attenzione alle mode culturali, di costume e musicali inglesi, americane e al beat italiano; reportage sulla nascita dei movimenti giovanili in altri paesi europei (hippie, provo) e alle forme di protesta e di rivolta di costume; ampio spazio alle lettere dei giovani lettori, che esprimevano il loro malcontento, la loro insofferenza verso il perbenismo e la morale corrente; lunghissimi dibattiti sui capelloni, sui difficili rapporti con gli adulti e con i genitori, sulle fughe da casa.
Diego Giachetti |