Dopo il 25 luglio 1943 – data della caduta del fascismo – la liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data nell’isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell’Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti incominciando, nell’ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi anarchici, esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo avanzare nel Sud degli eserciti angloamericani – fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo.
Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C’imbarcarono intorno al 20 d’agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell’ergastolo dell’isola di Santo Stefano.
Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da carabinieri ed agenti della PS.
Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all’altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo stupore e l’indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l’ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell’isola di Ventotene durante la seconda guerra mondiale.
“Sparate vigliacchi!”
Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c’era stato promesso che saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di Arezzo si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifascisti nel poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull’imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l’ordine di caricare le armi. Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono: “Sparate vigliacchi!”. Perciò furono immediatamente condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest’ultimi, dalle regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l’arresto dei compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercé. Costituivamo, insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell’esilio in Spagna, l’aggruppamento più provato dalle lotte che in carcere e al confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l’odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e dissenteria.
I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che all’appello mattutino noi si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati all’ufficiale di ispezione.
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Emilio Canzi
(foto: archivio ANPI Piacenza) |
solidarietà internazionale
Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all’urto, intervenne. Ci pregò di non formalizzarci e si assunse egli l’ingrato compito. Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono il compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità all’ufficiale lo superavano in altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla “incoerenza” di Emilio Canzi che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della guerra, costituivano un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati da profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della disciplina al punto che nel presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse truppe che ci tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento e l’Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che li opprimeva ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei popoli. Questo spirito internazionalista risorto dall’azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l’aiuto di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini nell’Italia centrosettentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le sezioni chiesero al comando militare le armi per marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l’internamento a Ventotene. In quel momento udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe diretto prima che altrove alla nostra sezione per l’odio che i fascisti risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi perciò all’entrata per osservare ciò che stava per accadere, in tempo per udire chiaramente l’ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di sparare subito dopo avere intimato seccamente agli internati l’ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni. Non tutti gli internati ebbero il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari di fucileria del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle torrette di guardia che cingevano il campo.
silenzio apparentemente disarmato
Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni che poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del regime fascista, voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale di comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva a portarci alla morte.
Quell’ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo dimostrava idealità fasciste però era alieno da atti arbitrari come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze, arrivati in località S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò l’elenco del nostro gruppo dicendomi: “Voi siete responsabili di questi uomini”! Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino, veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà. Storia che deve sempre essere “fatta” prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i fatti della storia, possano scrivere la “storia” che non hanno “fatta”.
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da ricordare.