Nel corso degli ultimi anni numerosi storici hanno intrapreso una revisione critica rispetto alle forze ed agli ideali che hanno agitato la prima metà del secolo scorso. Ciò che accomuna tutti questi lavori è la costante rimozione dell’antifascismo, della sua tensione rivoluzionaria e delle sue componenti ideologiche. Al contrario il fascismo, quello storico, è stato oggetto di una rivalutazione storiografica, che trova l’esempio più fine, sistematico ed acuto nell’opera di Renzo De Felice, e in quella dei suoi collaboratori raccolti attorno alla sua collana “I fatti della storia” edita da Bonacci. Questa interpretazione elude e manipola le responsabilità storiche e politiche del fascismo, ne minimizza la natura reazionaria, antiproletaria ed antidemocratica e accomuna un regime distruttivo, liberticida e totalitario ai governi autoritari ai quali era abituato il nostro gracile sistema liberale. La Resistenza, di cui volutamente si ignora la dimensione europea, viene vista solamente nell’ottica italiana, come crudele guerra civile dove gli uni e gli altri vengono posti sullo stesso piano.
Questa revisione storica – un fenomeno che coinvolge tutta l’Europa, si pensi al revisionismo storico dei Nolte, dei Rassinier, degli Irving che negano la realtà dell’Olocausto o ne riducono la portata fino ad annullare le responsabilità del regime nazista – si esprime anche attraverso la rimozione dagli studi e dalle analisi della consistenza e del ruolo che svolsero in quegli avvenimenti le minoranze, quelle minoranze agenti, come furono gli anarchici o i militanti di Giustizia e Libertà, o quelle minoranze guida, come cercarono di essere i comunisti e i socialisti.
Una colpa, questa, imputabile anche alla storiografia ufficiale della Resistenza, che più preoccupata di istituzionalizzare e di sacralizzare la lotta antifascista, ha sistematicamente censurato o mistificato quelle esperienze difficilmente riconducibili entro le scelte politiche dettate dalla ricostruzione o dalla guerra fredda, liquidando sbrigativamente la scomoda opposizione di quei movimenti e gruppi rivoluzionari che lottarono contro il Fascismo per compiere quella rivoluzione sociale che avevano da sempre preconizzato.
inferiorità psicologica
Non è un caso dunque che, se si escludono pochi accenni in alcune pagine di Ferruccio Parri, nelle lezioni di Carlo Francovich e negli scritti di pochi altri, non vi sia traccia nella storiografia della Resistenza della presenza anarchica nella lotta partigiana. Eppure la Resistenza, senza citare coloro che caddero in Spagna donando la propria vita per la libertà di tutti, prende anche i nomi delle brigate Malatesta e Bruzzi che operarono in Lombardia, della formazione Amilcare Cipriani a Como, delle pistoiesi, Squadre Franche Libertarie, delle formazioni libertarie liguri, del Battaglione Lucetti e della Elio di Carrara.
Gli anarchici parteciparono alla Resistenza in maniera massiccia e pagarono un alto tributo di uomini e di sangue, ma subirono l’egemonia delle altre forze della sinistra, in particolare per l’assenza di un’organizzazione specifica e di un comando militare unico che inquadrasse tutto il movimento nella lotta di liberazione. Naturalmente si organizzarono in proprie formazioni partigiane, ma di regola si trovarono inquadrati nelle Garibaldi, nelle Matteotti, nelle formazioni di Giustizia e Libertà. “Le loro formazioni di combattimento – scrive Gino Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza – rimangono legate al Partito comunista, al Partito socialista, al Partito d’azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati qualificati non riescono mai ad imporre una linea politica rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in senso libertario. Anche se essi non sono secondi a nessuno nella lotta armata contro il nazifascismo non riescono a superare il gradino di inferiorità psicologica in cui li pone la loro carenza organizzativa e la mancanza di un programma politico uniforme”. Una situazione questa che trova una spiegazione nella storia stessa dell’anarchismo nell’avversione verso il militarismo e la gerarchia nella convinzione che qualsiasi forma di governo è negazione della libertà umana.
dispersione e ritardi
Eppure gli anarchici dettero un contributo cospicuo alla lotta contro il fascismo. Fin dal 1921 quando la violenza fascista iniziò a colpire la stampa e i militanti, la risposta fu la resistenza ad oltranza attraverso l’organizzazione di manifestazioni, la partecipazione agli scioperi generali e l’adesione agli Arditi del popolo, movimento politicamente eterogeneo che cercherà di reagire colpo su colpo alle prepotenze squadristiche. L’ascesa al potere di Mussolini e del suo governo segna una svolta nella storia degli anarchici italiani in quanto ne determina la dispersione. Il movimento subisce più duramente degli altri partiti antifascisti (in proporzione naturalmente alle forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi. All’incendio delle sedi e delle sezioni dell’USI, il sindacato di tendenza anarcosindacalista alle devastazioni di tipografie e redazioni, alle uccisioni seguono i sequestri, gli arresti, il confino. L’anarchismo italiano entra in una fase di clandestinità, ma le sue forze si vanno sempre più assottigliando. Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, spiati non resta che la via dell’esilio. Coloro che in Italia erano scampati alla galera e alla morte trovano rifugio soprattutto in Francia.
Anche all’estero la vita degli anarchici come del resto quella di tutti i fuoriusciti, non fu facile. La repressione era dura anche nei paesi ospitanti. La guerra di Spagna poi si prese coloro che erano sfuggiti al carcere o al confino.
La sconfitta del movimento anarchico in Spagna fu dura e si ripercosse anche sui fuoriusciti italiani. Quest’ultimi non fecero nemmeno in tempo a riorganizzarsi che lo scoppio della guerra mondiale e la caduta della Francia li disperse ancora una volta. Fu quello il momento più grave. Quelli che non riuscirono a darsi alla macchia o a fuggire furono rastrellati dalle autorità tedesche e francesi e spediti nei campi di concentramento o consegnati alle autorità italiane. Non c’è dunque da meravigliarsi se la caduta del fascismo trovò il movimento anarchico disperso, mantenuto vivo più che altro nella memoria di molti lavoratori e nell’atteggiamento individuale dei militanti rimasti. Il movimento anarchico giunge così in ritardo e fortemente limitato nelle sue possibilità di azione partigiana. Queste carenze si aggravarono dopo il 25 luglio del ‘43, quando di fronte al succedersi degli avvenimenti ci sarebbe stato un bisogno ancora maggiore dell’apporto dei vecchi e più prestigiosi militanti che affollavano le isole di confino. Ma mentre alla caduta di Mussolini i militanti di tutti gli altri partiti venivano liberati dal governo Badoglio gli anarchici vengono trattenuti in un primo tempo a Ventotene e successivamente trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari vicino ad Arezzo da dove riescono a fuggire solo dopo 1’8 settembre.
Carente di quadri politici, dispersi nell’esilio nelle persecuzioni, morti in Spagna, privo di aiuti da parte degli alleati, stretto nella logica della politica dei due blocchi, il movimento anarchico può confidare solo nelle proprie forze e in ciò che i militanti riescono a conquistarsi in battaglia, sia per quanto riguarda le armi che i rifornimenti.
non solo lotta armata
Per tutte queste ragioni gli anarchici preferirono nella maggioranza dei casi aggregarsi a formazioni controllate dai partiti comunista, azionista e socialista, anche in quelle località dove la presenza anarchica era sufficientemente numerosa da consentire formazioni di soli anarchici. Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò alle azioni militari, ovunque i militanti anarchici si impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente colpite dalla brutalità della guerra istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società più libera e più giusta alla cui costruzione avevano dedicato la loro vita.