Rivista Anarchica Online


72 scritti...
che palle!

 

Attualità
dell’anticlericalismo

di Persio Tincani

La sudditanza verso la chiesa cattolica non è una prerogativa della sola destra.

Negli ultimi anni, quando si solleva il problema dell’ingerenza dei preti nella cosa pubblica, è sempre più frequente sentirsi rispondere che quel problema è “una roba vecchia”, nel senso che si tratta di una questione che ha fatto il suo tempo. È, questa, l’espressione dell’idea che la separazione tra Chiesa e stato sia “roba da Risorgimento” e che i residui di anticlericalismo – che non significa altro che opposizione alle pretese di dominio secolare da parte dei preti e dei loro sodali – siano qualcosa della quale la società contemporanea potrebbe, e forse addirittura dovrebbe, liberarsi.
Eppure, più che mai in passato, l’ingerenza è ora attiva con tanta solare evidenza. Senza neppure più quella maschera di savoir faire alla quale era ben addestrata, la parte clericale rivolge indicazioni, direttive, ordini ai decisori politici, ed esercita, quando le occorre, un vero e proprio potere di veto. E lo fanno tutti, dal parroco del paese che pretende (e ottiene) che il sindaco revochi il permesso per una manifestazione satirica, al capo dei vescovi che, di fatto, comanda di stracciare il progetto parlamentare dei DiCo con un “non possumus”, quello sì, di risorgimentale memoria. E non si dimentichi di quando il Berluscone, fresco di incarico, andò a trovare Joseph Ratzinger per ricevere da lui l’esplicito saluto al capo di un «governo amico», a suggello di un patto di mutua assistenza e, soprattutto, di mutuo governo.
La sudditanza verso la chiesa cattolica, però, non è una prerogativa della sola destra. Il Partito Democratico, quell’opposizione che i governi di tutto il mondo invidiano all’Italia, ha addirittura scritto nella propria Carta dei valori che la religione non è un fatto privato, ma che anzi è cosa che rileva nell‘arena pubblica. Non si facciano le vergini: in Italia, quando si scrive “religione” si intende una religione, quella cattolica romana, gerarchica, strutturata, organizzata. Ai partiti di dichiarata “ispirazione” cattolica si affiancano i politici di ogni schieramento che, prima di ogni altra cosa, dichiarano il proprio essere cattolici. Perfino tra coloro che si dicono “laici”, è raro trovarne uno che ometta di dichiarare il proprio rispetto per la chiesa, della quale viene ribadito un non meglio precisato ruolo di “guida morale” o di “carità assistenziale”, entrambi dati per presupposti e mai dimostrati o argomentati.
Così, mentre si celebra il 140° della Breccia di Porta Pia, il segretario di stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, siede accanto al presidente della repubblica sul palco delle autorità, dal quale eleva una preghiera per l’Italia unita. E ne ha ben donde, il cardinale: i nemici di ieri sono diventati, oggi, i suoi camerieri.

 


La mia anarchia

di Pino Cacucci

«Ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?»

Correva l’anno... 1974, se ben ricordo. A Chiavari contribuivo a fondare il Gruppo Durruti del Tigullio, e ogni tanto andavo a Genova dove frequentavo gli anarchici del circolo Pietro Gori, e tra loro il più anziano era Giuseppe Pasticcio, mai visto senza l’eterno fiocco nero al colletto della camicia lisa. In quel periodo partecipai anche a un comizio di Paolo Finzi, distribuendo copie di A con ossessionante impegno, convincendo ad acquistarla passanti che, pochi minuti prima, mai avrebbero immaginato di tornare a casa con quella rivista in tasca. Forse mi misi un po’ troppo in evidenza...
Perché il caso volle che a quel comizio, tra i poliziotti in servizio di ordine pubblico, vi fosse un mio ex compagno di scuola (e in questo caso compagno è parola inopportuna) arruolatosi in polizia per il servizio militare. E spifferò al superiore di turno come mi chiamavo e dove abitavo. Me lo avrebbe rivelato lui stesso qualche tempo dopo, dicendo che mi aveva visto “così convinto in prima fila” da sembrargli un fanatico, insomma, a suo parere, lo aveva fatto “per il mio bene”. Erano anni tesi, i 70, e bastò quella vigliaccata a farmi schedare alla questura di Genova, una traccia indelebile per tanto tempo, al punto che una quindicina di anni più tardi, andando a rinnovare il passaporto alla questura di Bologna, dove ormai risiedevo da tempo, al momento di ritirarlo mi sono sentito dire dall’agente “preposto”: «Stiamo ancora aspettando il nullaosta da Genova, sa, lei è schedato là…». Infine, dovetti andare ai piani superiori, per riavere il passaporto, dove sostenni un dialogo dell’assurdo con una simpatica poliziotta, che esordì: «Vede, io so tante cose degli autonomi, dei lottacontinui, dei potereoperaisti, dei maoisti-linea-dura-filoalbanese… ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?».
Risposi serafico: «La pace nel mondo».
Sbottò allargando le braccia: «Eh, già, come no, pure io la vorrei, ma mi faccia il piacere, mi faccia».
E mi ridiede il passaporto rinnovato.
A Chiavari, prima ancora di diventare anagraficamente maggiorenne, frequentavo un’osteria dal soprannome curioso, “U sucidu”, per via del puzzo di vino rancido, il fumo, i tavoli con un dito di grasso sopra… be’, un po’ sudicio sì, ma era un bel posto. Lì ci andava spesso Roberto Leimer, e intorno a lui ci radunavamo in vari ragazzi, attratti un po’ dal suo eloquio impastato, un po’ dall’aria bohemien, e molto dalla sua generosa capacità di invettive libertarie pacate ma incrollabili. A rivista anarchica era sempre al centro delle nostre discussioni, bevevamo ogni articolo con appassionato interesse, ci apriva finestre su realtà anarchiche e di lotta in tanti posti del mondo e nel resto d’Italia, ci sentivamo meno provinciali ogni volta che arrivava il prezioso pacchetto da Milano da andare a vendere in giro, dopo che ognuno di noi ne acquistava subito una copia per sé; eravamo quattro o cinque in tutto, con punte di sei alle riunioni della domenica mattina, quando l’unico che lavorava poteva permettersi di venirci.
Per la sede del Durruti, affittammo una sorta di ripostiglio di fianco a un fornaio, che non serviva neppure come garage, dove il problema principale era il puntuale rigurgito di liquami fognari ogni volta che pioveva. Forse era per questo che durante le frequenti riunioni avevamo tutti la faccia schifata: non era disprezzo per la società borghese, ma semplice puzza di cacca. Un giorno presi la situazione in pugno: comprai un sacco di cemento e tappai il tombino interno. Il giorno dopo, venne giù una povera signora dicendo che la casa era allagata di merda. Tappi da una parte, sfoga dall’altra.
Insomma, avevamo più problemi con le fognature che con la polizia.
Dopo quei tempi squinternati del gruppo anarchico del Tigullio (che per chi non lo sapesse non è il nome di un rivoluzionario paraguayano ma del golfo su cui si affaccia anche Chiavari), venne il tempo di migrare… L’università a Bologna era un buon pretesto per andare a vivere da solo, con un gruppetto di sciamannati come me. E Giuseppe Pasticcio, figura storica dell’anarchismo genovese, mi scrisse una commovente lettera di “presentazione” per i compagni dei circoli bolognesi: la conservo ancora, inizia con la frase “potete avere fiducia nel nostro compagno Cacucci”… E sulla sua firma tremula, un bel timbro con la A cerchiata dalla scritta “Circolo Studi Sociali Pietro Gori”. Erano tempi così, da candore carbonaro.
Quando la feci vedere al Cassero di Porta Santo Stefano, ricordo lo sguardo tra il divertito e lo stupito degli “anziani”, che sembravano voler dire: “da quando in qua ci vuole la lettera di raccomandazione per dichiararsi anarchici?”. Allora c’erano Libero Fantazzini e la sua compagna Maria, presenze costanti di ogni assemblea, riunione, manifestazione, tutto. Instancabili, anche a ottant’anni suonati. Libero non ci vedeva granché, anzi un occhio non ce l’aveva proprio, eppure guidava la sua Simca impavidamente. Una sera arrivò tardi, e non era da lui: aveva scambiato una luce rossa di un cantiere di lavori in corso per un semaforo, e dopo essere rimasto fermo un quarto d’ora e forse più, Maria lo aveva esortato a ingranare la marcia. Libero non parlava volentieri del figlio Horst, che stava in galera per quasi l’intera vita senza aver mai sparato a nessuno, il rapinatore gentile che mandava fiori alle cassiere spaventate, ora c’è pure un film, Ormai è fatta, tratto dal suo libro di memorie, con Stefano Accorsi a interpretare lui, e l’ottima regia di Enzo Monteleone. Curiosa, la vita: Monteleone lo avrei conosciuto quando scriveva la sceneggiatura di Puerto Escondido. Horst invece lo avrei conosciuto poco prima che tornasse in cella, a morirci.
Libero voleva un gran bene a quel suo figlio ribelle, troppo ribelle persino per lui, che era di quegli anarchici per i quali l’onestà dev’essere di esempio al resto del mondo, compresa l’onestà “borghese”. Ma non ne parlava quasi mai, a noi giovanotti che scrivevamo a Horst in carcere e lo consideravamo un compagno anarchico a tutti gli effetti.
Tornando ai tempi liguri, Fabrizio De André era una presenza fissa nelle orecchie come nel cuore e pure nelle viscere, e come poteva essere altrimenti, poi, quando viveva in Sardegna, nella grande casa colonica nei pressi di Tempio Pausania, a qualche anno di distanza dalla brutta esperienza del sequestro, gli telefonai per chiedergli l’ennesima firma in un appello per chissà quale ennesima ingiustizia. Fabrizio non si faceva pregare neppure per fare concerti in sostegno di A rivista anarchica, e ovviamente mi disse che firmava, anzi, mi invitò ad andarlo a trovare. E me lo avrebbe ripetuto altre volte, ma per i casi della vita, è finita che all’Agnata ci sono andato solo dopo che lui non c’era più. E questo mi rimane come rimpianto.
Poi, il primo viaggio in Messico, il secondo... e a un certo punto vivevo più a sud del Rio Bravo che a sud del Po. Il Messico mi ha dato molto, se non tutto, per cominciare a raccontare storie scritte. E là ho potuto approfondire figure dell’anarchismo messicano di cui avevo soltanto letto su A, anni addietro: i fratelli Flores Magón, con l’utopia della rivoluzione libertaria nella Baja California, e Praxedis Guerrero, che nella Revolución era niente meno che “generale”, ma con Pancho Villa i generali erano comandanti in combattimento, non certo militari con i gradi. E cominciando a tornare da questa parte dell’oceano, con lo scrivere che gradualmente diventava un mestiere, pur restando una passione, su quelle pagine di A che da ragazzo leggevo avidamente, avrei preso a scriverci pure io, certo sporadicamente, di sicuro meno di quanto vorrei, ma sempre trovando interesse in chi leggeva, o magari in alcuni casi suscitando dibattiti e qualche critica per l’eccessiva irruenza di certe mie prese di posizione, l’essenziale è coltivare dubbi, perché gli anarchici hanno convinzioni ma mai certezze assolute: certo, la mania di spaccare i capelli in quattro ci perseguita, a volte ci immobilizza, però, l’immensa varietà di opinioni che in questi quarant’anni hanno trovato puntualmente posto sulle pagine della nostra irrinunciabile rivista, sono un patrimonio che rende più ricca la mente e più forte il cuore.
Lunga vita ad A, che coltiva dubbi, informa, induce a riflettere e approfondire, perché il mondo è troppo complesso per non essere anarchici.

 

 


Una rivista
da studiare (e diffondere)

di Pippo Gurrieri

Nel 1977 è nata la nostra Sicilia Libertaria.

Il 2011 è anche il mio compleanno anarchico: 40 anni di militanza. Era il 29 agosto del 1971 quando, con altri ragazzi, decidemmo di abbandonare la FGCI e di aderire al movimento anarchico, allora a Ragusa “rappresentato” da Franco Leggio, un giovane di 50 anni che ci attraeva maledettamente e la cui casa-sede-libreria-covo frequentavamo già da qualche mese.
Fu proprio Franco a consigliarci di contattare A – rivista anarchica, allora neonata pubblicazione dall’impatto molto giovanile, e anche Umanità Nova, la storica testata della FAI, per distribuirle. Così per tutti questi anni queste sono state le mie fedeli compagne di strada, tra le poche che hanno resistito a venti e tempeste, a ce ne sono stati... Per noi giovani dell’estremo Sud questi giornali rappresentavano spesso i nostri soli modi di essere a contatto col movimento; senza di essi forse non ce l’avremmo fatta.
“A” l’ho sempre considerata una rivista da studiare, oltre che da diffondere, e anche se non sempre ho condiviso il contenuto dei suoi articoli, la sua autorevolezza è rimasta intatta negli anni, e anzi, posso dire, ora che faccio parte anch’io dei “vecchi”, che negli ultimi anni si è perfino accresciuta, per quella sua particolare attitudine, coerentemente mantenuta, a portarci il nuovo che nel mondo libertario, antiautoritario e anarchico planetario si è via via presentato; ma soprattutto per una caratteristica che mi è stata sempre molto a cuore: quella di rivolgersi ad un pubblico “esterno”, una rivista, potremmo dire, con un termine che fa arricciare il naso a qualcuno, di propaganda. Anche.
Con questo spirito, infatti, nel 1977 è nata la nostra Sicilia libertaria: avere come riferimento tutto quel mondo libertario, a volte anche inconsapevolmente libertario, che nei luoghi di lavoro, nella scuola, nel sociale rappresenta il nostro referente privilegiato; quindi un giornale prodotto per dire qualcosa a chi anarchico non è, con l’obiettivo di ampliare le simpatie e l’impatto delle nostre idee.
Chi avrebbe poi detto che anche Sicilia libertaria sarebbe riuscita a superare l’età della fanciullezza, ed oggi, con suoi 34 anni, fa oramai parte della schiera dei pochi giornali anarchici italiani abbastanza longevi, assieme alle sorelle maggiori A e UN.
Quelli che scrivevano su A e UN, e che noi dal lontano Sud vedevamo, come i “mostri sacri” dell’anarchismo, poi sono diventati compagni con cui condividere tante cose, con cui ci si capisce pur nella diversità, con cui si ha il piacere di collaborare, di incontrarsi in giro per l’Italia, a conferma di come, giustamente, nel nostro movimento la pubblicazione di un giornale, una rivista, un bollettino, abbia una sua “sacralità”, rappresenti un fattore aggregante, sia spesso l’anima stessa dell’anarchismo.
Quindi, i più sentiti auguri ad A per i prossimi 40 anni.

 


L’ingombrante zavorra
della tradizione

di Rossella di Leo

Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, della riflessione critica sull’agire.

L’avventura politica ed editoriale di “A” segna, in quel 1971, anche l’inizio di un progetto culturale più articolato che si sviluppa nel corso del tempo (ma in particolare in quel decennio) su spinta dello stesso gruppo di anarchici milanesi che ha appena dato vita alla rivista. Nascono così alcune iniziative culturali ed editoriali tra loro collegate, i cui specifici modi di operare e i cui diversi codici di comunicazione si integrano in una visione complessiva ben precisa: dare visibilità e coerenza alla proposta anarchica contemporanea.
(Mi permetto qui un ricordo personale sulla nascita di “A”, che ha coinciso con l’inizio della mia storia in quel gruppo di anarchici milanesi. Li ho conosciuti esattamente quando è uscito il primo numero della rivista, che il collettivo di studenti anarchici della Statale di Milano, di cui facevo parte, era andato a ritirare per la vendita diretta in università. Era febbraio, ma nello scantinato un po’ freddo e buio di piazzale Lugano 31, per qualche mese sede della rivista prima del trasferimento in via Rovetta 27, l’entusiasmo tangibile scaldava anima e corpo. Ho preso un pacco da 90 copie del primo numero – quello molto spartano con la famosa frase di Proudhon – e la mattina dopo mi piazzavo all’ingresso della Statale a vendere la rivista. Mi ero preparata a passare lunghe ore al gelo e invece sono stata assalita da una torma di studenti incuriositi che mi strappavano letteralmente il giornale di mano. Nel giro di mezz’ora avevo esaurito le copie disponibili. Wow! Ma allora gli scantinati funzionano, mi sono detta. E da allora, fino a oggi, ho passato molto del mio tempo due metri sotto il livello della strada).
Come testimonia la storia di “A”, i primi anni sanciscono (in sintonia con i tempi) un progressivo passaggio dall’attenzione prevalente verso la militanza “politica” (peraltro già in bilico tra modalità convenzionali e modalità post-sessantottine) all’attenzione prevalente verso le tante progettualità sociali e culturali libertarie che nascono tumultuosamente in quegli anni di rapida espansione dell’anarchismo. Inizialmente, il giornale è infatti concepito come uno strumento di supporto all’attività militante, ma già svolge una peculiare funzione di aggregazione per una rete di gruppi e situazioni molto diffusa e ancora poco interconnessa proprio per il suo carattere “spontaneo” (un punto di aggregazione peraltro postmoderno, nel senso che esula dalle tradizionali opzioni organizzative del movimento esistente: le federazioni, i gruppi ecc.).
Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, delle aspettative in mutazione, della riflessione critica sull’agire. E proprio da qui si dipartono altre necessità di approfondimento che approdano a ulteriori articolazioni del medesimo progetto culturale. Così, nel 1974 viene fondata, insieme a Louis Mercier Vega, la rivista internazionale di studi “Interrogations”, nel 1975 vengono costituite, sulla scia dell’impegno di Pio Turroni, le Edizioni Antistato, nel 1976 si costituisce il Centro studi libertari/Archivio Giuseppe Pinelli, nel 1977 apre la Libreria Utopia e infine nel 1980 approda a Milano la storica rivista “Volontà”. In poco meno di un decennio si crea dunque un contesto culturale che cerca di mettere insieme, con un respiro volutamente internazionale, ambiti di riflessione sempre più ampi con livelli di approfondimento e sperimentazione sempre più diversificati.
Non si può far qui la storia di tutte queste iniziative (per le quali rimandiamo allo studio fatto da Luigi Balsamini e scaricabile dal sito www.centrostudilibertari.it). Alcune chiuderanno, come “Interrogations” nel 1979 e “Volontà” nel 1996; altre si trasformeranno, come le Edizioni Antistato diventate Elèuthera nel 1986; altre ancora nasceranno in tempi successivi, come “Libertaria” nel 1999, o passeranno di mano, come la Libreria Utopia.
Ma quello che qui ci interessa sottolineare è che tutto questo progetto editorial-culturale messo in moto dal nucleo fondatore di “A” nasce da una esigenza impellente di ripensamento e rifondazione dell’anarchismo. Questi (allora) giovani anarchici sperimentano in maniera forte l’esaurirsi storico di un modo di agire e pensare tradizionale (poi definito “anarchismo classico”) che non risponde più alle esigenze e alle aspettative della contemporaneità. E questo sprona a riconsiderare tattiche e strategie (terminologia ancora intrisa di un linguaggio politico poi tramontato), o meglio a rintracciare nella ricca, feconda e talvolta contraddittoria sperimentazione libertaria in atto gli itinerari possibili di un’azione nel qui e ora.
Forse il loro limite (parlo alla terza persona ma ci sono dentro anch’io) è di non essere stati capaci di togliersi dalle spalle l’ingombrante zavorra della tradizione, in particolare nella versione volgarizzata che hanno ereditato dalla seconda metà del Novecento, e procedere più leggeri (e con meno sensi di colpa) verso una radicale rielaborazione e attualizzazione dell’anarchismo. Cosa che in altri paesi e in altre culture è stata fatta senza tanti patemi. Merito forse anche di altre generazioni che non hanno vissuto gli stessi anni e soprattutto gli stessi miti. Noi tutto sommato eravamo ancora figli della resistenza, dell’antifascismo, della rivoluzione spagnola e del proletariato militante. Figli appunto, non protagonisti, quelle storie ci commuovevano, ma non erano più le nostre. Eppure non abbiamo avuto la capacità emotiva di tagliare con un colpo secco quel cordone ombelicale che ci ha incatenato a un passato glorioso, sì, ma irrimediabilmente passato.

 


Carcere no grazie

di Sergio Onesti

L’abolizione del carcere è un obiettivo di civile e umana convivenza sociale.

Abolire il carcere è una scelta concreta e non utopistica, razionale e non ideologica, ma è soprattutto una scelta etica. Il modello attuale del sistema sanzionatorio occidentale è quello della reclusione tout court dei condannati e cioè di isolamento-stoccaggio-riciclaggio dei soggetti ritenuti rifiuti sociali da confinare in una vera e propria discarica sociale quale è il carcere, ove viene praticata istituzionalmente la privazione di ogni legame sociale, fisico ed intellettuale in danno del condannato.
La nostra critica nei confronti del sistema penitenziario, non solo italiano, è incentrata sul trattamento riservato ai detenuti, che presenta le seguenti caratteristiche: 1) individualizzante, come se il crimine fosse il risultato solo di una scelta personale senza alcuna determinazione sociale e come se fosse possibile nelle attuali condizioni di sovraffollamento carcerario assicurare al condannato un trattamento rieducativo ad personam; 2) premiale, dove ciò che viene richiesto al detenuto è di accettare passivamente la pena senza mettere in discussione né la propria condotta né tantomeno l’istituzione carceraria; 3) differenziato, poiché i detenuti sono “diversi” non solo dagli altri cittadini, ma anche fra di loro in quanto il regime penitenziario al quale sono sottoposti è diversificato tra: “comuni”, “tossicodipendenti”, “alta sicurezza”, “41 bis” e addirittura al loro interno in sezioni esclusive, e ciò a tacere delle differenziazioni per etnia, per religione, ecc. Tali pratiche di eccezione poste in essere dal sistema penitenziario mirano all’isolamento del condannato, all’annichilimento della coscienza e della volizione dello stesso, oltre che alla brutalizzazione dei corpi tanto sotto il profilo psichico quanto sotto quello fisico.
Il sistema punitivo moderno, pur fondandosi teoricamente sul rifiuto della tortura e della violenza, e quindi a salvaguardia del principio dell’intangibilità dei corpi reclusi, non si preoccupa né di conservare la salute fisica e psichica del detenuto né tantomeno di aprire prospettive di riabilitazione e di reinserimento sociale. Basti ricordare, oltre alle limitazioni/esclusioni della sfera sessuale, alimentare e sanitaria, lo straordinario numero di suicidi che colpisce la popolazione detenuta in Italia, il cui indice è dieci volte più elevato rispetto a quello dei suicidi nella restante popolazione. Il carcere è sempre di più il dispositivo “troppo pieno” della società: non c’è lavoro, non ci sono case, non ci sono pari opportunità, non c’è evoluzione sociale e così, mentre le porte della società si chiudono, si spalancano contemporaneamente quelle del carcere: per i giovani, per gli immigrati e per tutti coloro che vengono espulsi dai processi produttivi e da quelli di integrazione sociale.
Al 31.8.2010 la popolazione detenuta in Italia era pari a 68.345 individui (a fronte di una capienza regolamentare di 44.608 unità) di cui 1.830 internati per lo più in ospedali psichiatrici giudiziari, 24.981 stranieri e 2.995 donne. Tale drammatica situazione è il risultato dell’ossessione securitaria che pervade la nostra società e che vede il proliferare di una legislazione “carcerogena”, costituita ad esempio dalla legge stupefacenti, dai vari decreti sicurezza, ecc. e che prevede il carcere come unica risposta capace di sospendere il crimine senza toccare le cause che lo hanno determinato. È più facile costruire nuove carceri piuttosto che cercare soluzioni sociali; è preferibile confinare i “cattivi” in carcere, piuttosto che prevenire le cause del crimine, reinserire i condannati ed occuparsi delle vittime del reato. Proporre l’abolizione del carcere non è pertanto né una provocazione intellettuale né un progetto utopico, ma l’unica scelta etico-culturale capace di opporsi al giustizialismo come unica soluzione ai problemi sociali; alla criminalizzazione di qualsivoglia comportamento, soprattutto giovanile, deviante e trasgressivo; e di ricercare una modulazione del trattamento sanzionatorio che abbia fini non solo di segregazione, ma anche compensatori, restitutori, riparatori o risarcitori. In altri termini è sempre più una necessità culturale e civile non pensare più al carcere come un “male necessario” né come unica ed esclusiva modalità di espiazione pena.
Solo una società senza carceri, come auspicano gli anarchici, o a carcerizzazione limitata, come vorrebbe qualche criminologo riformatore, può consentire l’elaborazione e la pratica di nuovi strumenti di dialogo, composizione e superamento del conflitto intrapersonale e sociale che ha dato causa al delitto senza abbandonare a se stessi tanto il reo quanto la vittima dal reato. Ecco perché l’abolizione del carcere rimane un obiettivo di civile e umana convivenza sociale il cui raggiungimento è, però, affidato alla capacità di concepire e progettare una società liberata dallo stato o quantomeno una società che riesca a prescindere da un modello punitivo ove il carcere costituisce l’unica ed esclusiva modalità di espiazione della pena.

 


Sentieri in Urupia

delle comunarde di Urupia

I principi fondanti del progetto sono essenzialmente due, la proprietà collettiva e il consenso nelle decisioni.

Dal 1995 la comune Urupia si propone come esperimento politico e sociale.
La sua collocazione geografica nell’alto Salento, terra di frontiera ma apprezzata mèta di pellegrinaggio turistico- musicale, ne ha favorito la conoscenza e frequentazione da parte dei più svariati esemplari umani: pur essendosi la comune caratterizzata fin dalle sue origini come progetto di chiara impostazione libertaria e anarchica, le sue interlocutrici e sostenitrici fanno riferimento a un’area ben più vasta nel cosiddetto universo alternativo anche europeo.
Urupia è una comune aperta che offre ospitalità a chi è interessata a vivere e condividerne gli ideali e la fatica di realizzarli.
I principi fondanti del progetto sono essenzialmente due, la proprietà collettiva e il consenso nelle decisioni, intesi come strumenti attraverso i quali poter realizzare l’uguaglianza economica, politica e sociale.
Grazie ai 26 ettari di terreno e alle strutture di proprietà dell’associazione Urupia, la sopravvivenza materiale della comune è basata prevalentemente sul lavoro agricolo- olio, vino, pane, frutta e ortaggi e relativi trasformati- e sulle attività sociali e culturali periodicamente proposte in sede- campeggi per fanciulle, iniziative politiche, feste, presentazione progetti e documenti… Inoltre una delle comunarde svolge il suo lavoro di maestra nella scuola pubblica.
Coerentemente con i presupposti antiautoritari del progetto la comune si è fin da subito, e in crescendo, dotata di tecniche e tecnologie finalizzate a ridurre l’impatto ambientale quotidiano:
riciclo delle acque tramite impianto di fitodepurazione , solare termico e fotovoltaico per la produzione di acqua calda e energia elettrica, riscaldamento degli ambienti attraverso caldaie a biomasse provenienti da produzioni agricole locali. Le coltivazioni e la cura dei terreni vengono da sempre condotte secondo i principi e le tecniche di un’agricoltura rispettosa non solo dell’ambiente e delle sue risorse ma anche delle persone.
Dal 2002 i prodotti della comune sono commercializzati dalla “cooperativa la Petrosa” fondata e gestita dalle comunarde di Urupia. Pur avendo come riferimento anche i più stretti parametri dell’agricoltura biologica, i prodotti non sono certificati per precisa scelta da nessun marchio nella convinzione che mai alcuna delega possa offrire garanzia e sicurezza su qualsivoglia aspetto dell’esistenza.
A Urupia il neutro plurale parla femminile.

 


Il progetto e i suoi tranelli

di Valentina Volonté

Per chi si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”, la parola progetto ha un sapore magico.

Negli ultimi dieci anni la parola “progetto” è stata, credo, la più pronunciata da me e dalle persone che mi circondano.
Il progetto era (ed è) il nostro modo di pensare che le idee di cambiamento e trasformazione della società, con dosi massicce di volontà e passione politica, potessero concretizzarsi e diffondersi a spirale.
Per chi si si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”, la parola progetto ha un sapore magico, performativo quasi. Quando con i soci e socie della cooperativa Alekoslab, ci siamo imbarcati in quest'avventura auto-imprenditoriale tra autogestione e auto-sfruttamento, abbiamo espresso bisogni e desideri, cercando di costruire una realtà lavorativa a misura dei nostri sogni. Abbiamo messo nero su bianco gli obiettivi, le idee, lo stile, la qualità: abbiamo scritto un progetto. Ovviamente, il progetto si è trasformato nel tempo, ma era e resta l'espressione diretta di un piccolo gruppo di persone che si sono scelte e che condividono un orizzonte comune.
Cosa succede invece quando come operatori sociali ci troviamo ad operare in contesti nei quali il bisogno è formulato da un'amministrazione pubblica? “I giovani in questa città non partecipano, non hanno voglia di niente, sono demotivati, non riusciamo a coinvolgerli nelle proposte dell'assessorato alle politiche giovanili”: allora chiamiamo degli esperti che con il loro bagaglio di tecniche e saperi risolveranno il problema. Come? Attraverso un bel progetto!
Si ripetono parole come esperto, partecipazione, democrazia, locale, affinità; il difficile è cercare di trovare dei significati condivisi con delle persone che spesso hanno percorsi e pratiche politiche distanti o addirittura opposte. Il progetto dovrebbe quindi creare una realtà a nostra immagine e somiglianza, di comune accordo tra gli esperti e gli amministratori. Ecco però un cortocircuito: è possibile scatenare e poi gestire la spontaneità dell'immaginazione delle persone, e dei giovani in particolare, attraverso delle tecniche? E mettere queste tecniche al servizio di amministrazioni quasi sempre espressione di un potere che contesto? È giusto cercare di progettare legami sociali migliori? Evocare l'autogestione come orizzonte, quando la realtà è tanto lontana dalle pratiche che sosteniamo? Dubito e oscillo e mi riempio la giornata delle persone che incontro quotidianamente nella loro diversità, delle relazioni anche conflittuali che nessun indicatore di qualità può misurare; solo il senso di umanità che esiste prima di ogni teoria. E comunque i tranelli aiutano a stare svegli...
Alekoslab cooperativa sociale

 

 


Primo passo,
le relazioni umane

di Valeria Giacomoni

Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo.

Le domande che mi sono state fatte ultimamente sull’anarchismo mi hanno fatto riflettere molto e mi hanno aiutato a delineare il “mio anarchismo”.
Confrontarmi con persone diverse e ascoltare punti di vista, apprezzare o meno comportamenti, tutto contribuisce alla nostra formazione. Perché l’anarchismo è per me qualcosa che ognuno si costruisce, un modo di vivere in cui ognuno trova la sua coerenza. E che il nome non faccia pensare a questo l’ho capito da subito, dalla connotazione negativa con cui si presenta in una piccola città del Nord Italia. Poi ho scoperto un anarchismo per me “costruttivo” attraverso la storia della guerra civile spagnola e ho avuto la fortuna di assaporare questo modello di vita attraverso l’Ateneu Enciclopèdic Popular a Barcellona, che mi ha permesso di incontrare chi un altro mondo l’ha conosciuto e chi continua a lottare per un ideale.
Con curiosità e costanza mi sono avvicinata a un modo di vivere per me sconosciuto e che non è spiegato in nessun libro; il modo di relazionarsi con gli altri è qualcosa che si impara solo vivendolo. Poco a poco, e grazie anche all’educazione ricevuta, sono riuscita ad uscire dagli schemi imposti da una società disumanizzante e ho imparato a “utilizzare” quella disponibilità verso il prossimo che viene trasmessa a noi donne in maniera positiva e non “passiva”. Ho imparato ad intervenire in assemblee, a non avere paura ad esporre i miei dubbi e il mio punto di vista.
Questo processo è passato per la scrittura: mi risultava più semplice scrivere quello che pensavo che non esporlo a voce. Ho iniziato così a collaborare con qualche rivista spagnola e in “A” ho trovato la valorizzazione del mio pensiero ed il posto perfetto per condividere sensazioni e inquietudini.
Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo, piuttosto che pensare a grandi azioni. Sorrido quando qualcuno si sorprende di conoscere persone che si definiscono anarchiche e non corrispondono allo stereotipo che offrono i mass media. Sorrido nel vedere che se è una ragazza dal viso pulito e sorridente a chiedere la rivista “A”, le si offre una rivista per imparare a fare a maglia…e mi piace vedere molte persone intorno a me che si comportano in un modo che per me è anarchico ma si sentono completamente estranei a questa definizione. Non è certo importante l’etichetta quanto la coerenza che ognuno trova nel suo modo di comportarsi.

 

 


Quarant’anni
di anarchia a Bologna

di Walter Siri

L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato.

Sempre più spesso rileggo il tempo passato e mi “spavento” per quanto lungo è diventato il racconto. Fra due anni festeggeremo i quarant’anni d’uso del “cassero” di porta Santo Stefano dove ha sede il circolo anarchico “Camillo Berneri” di Bologna.
Ho cominciato a frequentare il movimento ben prima di questa presa in uso dei locali (che il comune di Bologna concesse tardivamente agli anarchici quale risarcimento delle distruzioni operate dal fascismo); ricordo le ripide scale del circolo “Cafiero” di via Paglietta; ma il grosso dell’attività, soprattutto negli anni ‘70, si svolgeva nei luoghi di vita, studio e lavoro, nelle strade e nelle piazze. Abbiamo cominciato, sarebbe bene dire, visto che la mia compagna di vita, Tiziana, ha condiviso fin da allora la comune attività sociale, culturale, progettuale che caratterizza l’anarchismo.
Dopo quarant’anni siamo un po’ la memoria dell’anarchismo bolognese assieme ad altri compagni e compagne che sono ancora attive. Queste righe per “A” cercheranno di fare il punto di quest’esperienza anche se i vari momenti, le fasi, le campagne, dovranno essere viste a “volo d’uccello”.
L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato non fosse altro per l’importanza che l’Università riveste nella vita politica, sociale, culturale ed economica della città. Migliaia sono le donne e gli uomini che, studenti fuori-sede, hanno attraversati i circoli, i locali, le librerie, i gruppi, i collettivi, le associazioni del movimento anarchico e libertario bolognese; apportando, ognuno/a il suo contributo specifico al movimento. Fortunatamente, il movimento è anche composto da tante e tanti “autoctoni” o “nomadi” che hanno trovato una collocazione stanziale nella città e nella provincia.
Così come la caratteristica dell’anarchismo come componente del movimento operaio si è sempre manifestata nella nostra città con una presenza diffusa e vivace degli anarchici nel mondo del lavoro e nelle lotte che questo mondo esprime.
Parlando di Bologna e del movimento con questa prospettiva memorialistica è d’obbligo soffermarsi sul “movimento del ’77”. In effetti, in quel movimento c’era molto dell’anarchismo bolognese e, di converso, l‘anarchismo della città è rimasto influenzato da quell’esperienza. A ben vedere, il 1977 è stato l’anno della morte del movimento, della sua sconfitta sul piano sociale prima ancora che su quello militare. Ciò che lo aveva preceduto era un decennio nel quale per molti di noi la rivoluzione era non solo auspicabile ma possibile, quasi a portata di mano.
Il politicismo che spesso sfociava nel politicantismo aveva cercato di normalizzare i movimenti, soprattutto operai e studenteschi che si erano manifestatati in quegli anni. Ma stagione dopo stagione l’anarchismo riprendeva il sopravvento: le istanze politiche rifluivano ed il movimento avanzava. Nella prima metà degli anni ’70, a Bologna, si contavano 6 locali esplicitamente anarchici e contemporaneamente l’anarchismo permeava innumerevoli altre esperienze. L’essere variegato poneva il movimento nelle condizioni di contaminare partecipando anche istanze che non si caratterizzavano in modo specifico.
Anche oggi, molte delle situazioni “di movimento” (centri sociali, collettivi di lotta, coordinamenti, sindacati di base) vedono una significativa presenza anarchica e libertaria. L’anarchismo, com’è evidente, oltrepassa e sopravvive alle stagioni, continuando la sua azione di sovversione sociale.

 

 


Appunti
sull’utopia concreta

di Zelinda Carloni

L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”.

Infausto errore è la pretesa che la politica sia una scienza, un due più due quattro. In realtà ciò che ha a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi (che poi è quella, la società) è una tecnica, un artigianato sapiente ma niente più, e non ha e non dovrebbe avere niente a che fare con la “scienza”.

  • I “paradisi perduti” possono essere perduti facilmente quando non siano mai stati conquistati.
  • L’aspirazione ad una società umana armonica e “felice” non va confusa con la nostalgia della perfezione primigenia: è piuttosto il desiderio di impadronirsi di un bene che deve essere conquistato dalla coscienza prima ancora che dall’esperienza.
  • Parole come evoluzione, sviluppo, arretratezza hanno a che vedere con una concezione storica che dà per scontato che comunque il tempo proceda verso la perfezione, ed è una forma paradossale di utopismo.
  • Dall’utopia concreta è inutile aspettarsi la “redenzione” degli uomini: è l’organismo sociale che deve essere compiutamente armonico, e non è necessario perché questo accada che ogni individuo si trasformi in una specie di asceta.
  • La dinamica delle società storiche si è sempre appropriata di un presunto diritto all’istituzionalizzazione; questa pratica, purché abbia un inizio, diviene aberrante, e si moltiplica in modo mostruoso fino a tentare di definire, secondo regole e norme, qualunque comportamento o scelta degli individui. In effetti, la presunta efficienza della società si riduce ad una forsennata attività di moltiplicazione delle sue forme nelle quali in nessun caso potrà far riquadrare tutti i soggetti sociali.
  • Ogni ipotesi che prospetti una utopia concreta deve partire dal presupposto che gli uomini non sono uguali, non sono prevedibili scientificamente e non rispondono necessariamente alla stessa maniera in determinate circostanze.
  • L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”, una agiografia di società che, per il fatto stesso di essere agiografica, commuove ma non convince. L’utopia concreta deve poter partire dal presupposto che l’uomo è ciò che è: una mistura indecifrabile, e niente affatto scientificamente definibile, di possibilità, passioni, generosità, meschinità e di tutti quegli attributi che solo la poesia può esplorare, ma nessuna scienza. Lasciarsi convincere che questo presupposto infici ogni possibilità di “altro da questo” è una forma di vigliaccheria intellettuale. Perché è certo che questo dato rende più complessa l’elaborazione di un progetto sociale, ma è falso che ne impedisca la formulazione. L’anomalia, la perversione, la negazione vanno previste e accettate, anche perché niente e nessuno le potrà mai eliminare.