La Coordinadora
e il caffè zapatista
Il Caffè Zapatista Durito distribuito in Italia dalla Coordinadora (luogo d’incontro libertario a supporto lotta zapatista) viene coltivato e lavorato da cooperative di produttori (appartenenti al movimento zapatista) nel Chiapas in resistenza. Attualmente partecipano al progetto tre cooperative di produttori di caffè: la cooperativa Ssit Lequil Lum (zona Nord), facente riferimento al Caracol di Roberto Barrios; la cooperativa Yachil (zona Selva-Caracol di Morelia) e la cooperativa Yachin (zona centro-Caracol di Oventic). Queste tre cooperative, oltre ad avere cominciato un mercato interno senza intermediazioni, esportano il loro caffè in Europa ad un prezzo stabile e solidale a realtà che sostengono la lotta zapatista.
Gli obiettivi e le modalità di lavoro delle cooperative si possono riassumere così: stabilire un contatto diretto con i compratori solidali per non continuare ad arricchire i coyotes (gli intermediari speculativi che rivendono il caffè alle multinazionali e lo comprano alle cooperative secondo il prezzo della Borsa di New York), stabilire un rapporto politico basato su fiducia e solidarietà con gli acquirenti garantendo un prodotto di ottima qualità, conservare le ancestrali tradizioni che prevedono una stretta relazione tra le attività lavorative e il rispetto della Madre Terra. Grazie a questo il caffè che viene prodotto è sano, pulito, privo di agenti chimici. Non ci sono piantagioni intensive, le piante sono coltivate all’ombra di boschi eterogenei (piante medicinali, alberi da frutto, alberi per legna....). Il lavoro delle cooperative è parte di un progetto più ampio volto al rafforzamento dell’autonomia, alla crescita integrale di tutti i municipi e al raggiungimento degli obiettivi del movimento indigeno zapatista (casa, terra, salute, educazione, alimentazione). La Coordinadora acquista e distribuisce circa 2 tonnellate di caffè all’anno e fa riferimento da diversi anni alla Cooperativa Libertad di Amburgo che organizza l’importazione dal Chiapas in Europa.
Dal 2011 si è poi aperta la possibilità di realizzare l’importazione e la lavorazione del caffè verde (torrefazione, macinatura e impacchettamento) interamente in Italia, grazie al progetto di un gruppo di compagni di Lecco che sta cercando di dar vita ad una realtà lavorativa collettiva e autogestita (già avviata a livello sperimentale), in collaborazione con il sindacato USI-AIT Arti&Mestieri.
(per contatti Jacopo: cell 340-5367035, caffemalatesta@autistici.org). Precisiamo inoltre che la sede dell’Unione Sindacale Italiana (USI/AIT), presso cui è possibile acquistare il caffè zapatista, non è più in via Bligny (come scritto nel dossier dello scorso numero) bensì in via Torricelli 19.
Coordinadora
info@coordinadora.it
Pisa/
Il monumento spostato
Al sindaco della città di Pisa Marco Filippeschi
Al direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa Prof. Fabio Beltram
All’Assessore ai lavori pubblici del Comune di Pisa Andrea Serfogli
e p.c. alla stampa locale
Leggo con preoccupazione la notizia riguardante il progetto di ristrutturazione della piazza San Silvestro e dello spostamento del monumento a Franco Serantini per lasciar spazio ad una nuova scultura.
Condivido le considerazioni che alcuni cittadini hanno espresso sul danno ambientale causato dal taglio degli alberi della piazza, sull’uso ‘sociale’ della piazza e l’auspicio di una riqualificazione dell’area che prediliga innanzitutto le esigenze di vivibilità e socializzazione degli abitanti.
Considerazioni che Piero Pierotti già qualche mese fa aveva scritto in una lettera pubblica con competenza e senso della misura.
L’Italia è il paese delle piazze. Piazze che sono scenario di architetture che tutto il mondo ci invidia ma anche, e forse soprattutto, palcoscenico ideale dove si è raccontata quotidianamente la costruzione della nostra società civile. Luogo dove si sono rappresentati, dall’Unità in poi, i riti di una tradizione civile e laica spesso segnata dal conflitto tra il discorso del potere e le rappresentazioni istituzionali da una parte e quelli, antagonisti, delle rappresentazioni popolari dall’altra. È per questo che le piazze sono diventate “agorà della memoria” e i monumenti in esse ospitati “altari” laici, sui quali si sono formate intere generazioni di cittadini.
Rispetto al progetto presentato dalla Normale di cui hanno parlato i giornali, non condivido affatto l’idea che per fare spazio ad un’opera artistica si debba cancellare e/o emarginare la storia recente di una piazza come quella di San Silvestro. Tanto più se, a giustificazione di questo progetto, si affermi un unico concetto, quella di esaltare la magnificenza dell’ex palazzo Thouar – ora sede del polo scientifico della Normale – e con questa il ruolo della stessa Scuola Normale Superiore nella città di Pisa. Si veda in proposito l’interpretazione data dall’autore Theimer alla propria opera artistica che è risultata vincitrice del concorso internazionale indetto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa. Tutti siamo riconoscenti alla Scuola Normale per lo sforzo fatto per il recupero dell’area ex Thouar, ma mi domando: è possibile che oramai tutto il centro storico di questa città debba inesorabilmente identificarsi nei suoi destini con quelli delle sue Scuole di eccellenza e dell’Università? Non è possibile pensare ad un diverso uso dei luoghi che rispetti maggiormente la storia della nostra comunità cittadina? Tutti siamo consapevoli dell’importante funzione della Scuola Normale Superiore come dell’Università ma, negli ultimi decenni, lo sviluppo urbanistico di entrambe ha condizionato non poco la città che l’ha subito passivamente.
La questione della proposta di riqualificazione di Piazza S. Silvestro va ben oltre l’aspetto urbanistico e architettonico e investe direttamente il difficile equilibrio tra la città e la sua memoria.
Ora, senza voler entrare nei dettagli sui motivi e le responsabilità di trascuratezza della piazza che in questi ultimi anni si è accentuata e sulla necessità di un intervento di riqualificazione, quest’ultimo non può prescindere dalla storia recente che evoca questo luogo.
Il monumento a Franco Serantini che si trova al centro della piazza è stato donato alla città di Pisa da un Comitato popolare, composto da amici di Franco, cittadini, libertari di Pisa e di Carrara, e inaugurato il 7 maggio 1982, dieci anni dopo la tragica morte del giovane anarchico. La scultura commemorativa si affiancava idealmente alla lapide posta per “volontà dell’assemblea proletaria”, come recita in calce il marmo che ancora oggi è ben visibile all’entrata del Palazzo ex Thouar, il 13 maggio 1972, sei giorni dopo la scomparsa di Serantini.
Il luogo scelto per i due ricordi lapidei non è casuale; come tutti i pisani conoscono, la Piazza come il Palazzo sono stati gli spazi frequentati quotidianamente da Franco Serantini negli ultimi anni della sua vita e il Palazzo, prima dell’ultima ristrutturazione, almeno in una parte, aveva una funzione non tanto “benemerita” essendo un “riformatorio” nel quale Franco di fatto venne obbligato a risiedere.
Ora la storia di questo ragazzo è parte integrante della memoria di questa città e il suo ricordo è sicuramente condiviso, nel bene e nel male, da quella generazione di pisani, e non solo, che fu testimone del suo tragico epilogo. Credo di conseguenza che ogni tentativo di rimuovere dalla sua posizione il monumento sia uno schiaffo alla memoria di Serantini e di tutti coloro i quali hanno coltivato, spesso in silenzio, il suo ricordo, compresi anche quelli che con l’omaggio dell’opera commemorativa, vollero fissare in modo definitivo nella storia di questa città la ferita aperta dalla tragica morte di Franco. Un cittadino, vorrei ricordare, la cui morte fu causata da un violento e brutale “abuso di potere” di cui nessuno è stato mai chiamato a rispondere, un’ingiustizia palese che pesa come un macigno sulla coscienza civile di ognuno di noi.
Corrado Stajano, che ha raccolto in un libro ben conosciuto la vicenda di Serantini – un testo coraggioso che ha fatto scuola (Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini) –, definì la vicenda del giovane anarchico un caso emblematico dell’Italia dell’epoca della giustizia che non fa giustizia.
In conclusione chiedo: si sistemi pure la pavimentazione della piazza, si crei uno spazio pedonale più ampio, si installino nuove panchine, ma non si modifichi la centralità del monumento di Franco Serantini. Cambiare collocazione del monumento di Serantini nella piazza, anche di poche decine di metri, sembrerebbe voler insinuare l’idea di emarginare in qualche maniera la memoria di Franco e questo non è accettabile. La città reagisca all’oblio della propria memoria, le forze sociali e politiche si facciano interpreti di un atto di coraggio e colgano questa occasione per proporre al Consiglio Comunale e alla Giunta di intitolare la piazza, che come è stato ricordato più volte tutti i pisani già chiamano “Piazza Serantini”, al giovane anarchico e la Scuola Normale Superiore faccia un passo indietro e ripensi al suo progetto. Franco Bertolucci
direttore della Biblioteca F. Serantini
(Pisa, 13 febbraio 2011)
Biblioteca Franco Serantini
Largo C. Marchesi, s.n. civ. 56124 Pisa
e-mail.: biblioteca@bfs.it
tel. 050 570995 Arte e anarchia/botta...
La tesi sostenuta da Arturo Schwarz (Arte e Anarchia, “A” 358, dicembre 2010/gennaio 2011) che “l’artista è l’archetipo dell’anarchico” e che “artista e ‘anarchico’ sono termini intercambiabili”, appare a prima vista veritiera e ragionevole.
Tutti conosciamo storie e aneddoti di artisti che si lamentano dei “valori borghesi” delle società in cui vivevano e la vie bohemienne condotta da artisti che popolavano i vari arrondissement di Parigi sembra confermare quanto sostenuto da Arturo. L’artista potrebbe essere più simile all’anarchico e l’anarchico più simile all’artista, ma temo che ci sono tante contraddizioni da risolvere prima.
L’artista soffre la mancanza di libertà principalmente per motivi personali e perfino egoisti, mentre l’anarchico lotta per la libertà non solo per se stesso ma sopratutto per gli altri. L’artista per canto suo ha la straordinaria capacità di guardare, osservare e esprimersi senza moralizzare nè giudicare. Sarei tentato di affermare che l’artista nasce senza “peccato originale”.
Stanley Spencer, artista inglese del ventesimo secolo, prestò servizio come infermiere militare in Macedonia durante la Guerra del 1914-18 e più tardi, volendo emulare Giotto, dipinse le sue impressioni sui muri della Sandham Memorial Chapel nella contea di Hampshire, Inghilterra. La cosa che colpisce di questo capolavoro è la mancanza di condanna (o “giudizio”) e invece vediamo soldati sia sani che infermi che preparano il tè, spalmano marmellata sul pane svolgendo tutta una serie di lavori quotidiani della vita normale di un soldato. sia sul campo che in ospedale. Poeti come Siegfried Sassoon ci hanno abituati (giustamente) a denunciare questa orrenda madre di tutte le guerre moderne. ma Spencer lo ricorda con franchezza ed obiettività senza analizzare nè giudicare. Quello che colpisce di Spencer è che ha vissuto tutta la sua vita in questo stato di “innocenza” primordiale.
Spostando la nostra attenzione verso la figura gigantesca di Pablo Picasso, troviamo un artista molto più impegnato politicamente. La sua “Guernica” è una condanna non solo del bombardamento della stessa città, ma una condanna di tutte le guerre. La sua appartenenza al Partito Comunista è risaputa. Ma il critico marxista John Berger gli dedicò un intero libro negli anni Sessanta (Success and Failure of Picasso) in cui condannava Picasso come un artista fallito. Secondo Berger, Picasso non era impegnato in maniera corretta. Perdipiù gli sembrava che Picasso non appartenesse al mondo attuale della lotta di classe, ma fosse piombato nel mondo moderno da un mondo primitivo e primordiale e che invece di un artista “valido” e dunque utile agli interessi del proletariato, costui fosse un tipo di sciamano. Non si sbagliava più di tanto.
L’anarchico non è un marxista e neanche si sognerebbe di condannare Picasso per non conformità alla dialettica marxista.
Ma il caso Picasso ci ricorda che l’artista e il politico raramente possono convivere. Il motivo per questo è semplice – Arte + Politica = Propaganda! E nello stesso modo l’arte influenzata dal giudizio politico diviene subito datata e dunque non può interessare l’artista il quale cerca sempre l’eterno, memore dello stato primordiale da cui proviene.
Marc Chagall sosteneva la rivoluzione russa con entusiasmo, anche diventando un commissario culturale, ma sia per insidie politiche che la mania da parte dei suoi collaboratori di fare manifesti “rivoluzionari” che imponevano limiti ancora più rigidi alla creatività, fu costretto a cercare l’atmosfera libera di Parigi, finché l’avanzata nazista lo costrinse ad andare in America, perché come ebreo sarebbe finito ad Auschwitz.
I Situazionisti, e con loro molti anarchici e libertari, avevano solo sdegno per il “mondo dell’arte” – un mondo incorreggibilmente borghese, pieno di gallerie per èlite, aste con cifre astronomiche, ecc.. Nel ‘68 francese il movimento aveva bisogno di propagandisti e non di artisti. Gli slogan dipinti sui muri, gli “stencils”, i poster del ‘68 avevano un valore grafico ed artistico. ma non erano nè pretendevano di essere arte e gli stessi fautori si sarebbero offesi nel venire tacciati come “artisti borghesi”.
Quando l’artista si lamenta dei “valori borghesi” lo fa solo in quanto questi limitano la sua libertà espressiva e perciò cerca di sorvolarli per trovare spazi in cui è libero dai limiti che i “valori borghesi” gli impongono.
Picasso non aveva nessun problema con i “valori borghesi” della miliardaria Gertrude Stein (sua prima benefattrice e collezionista), ma ce l’aveva a morte con quei galleristi che gli volevano imporre soggetti che non gli interessavano e che spesso lo defraudavano. Un anarchico parigino della stessa epoca sicuramente avrebbe avuto problemi con i “valori borghesi” della Stein.
Storicamente gli artisti hanno trovato il modo per lavorare per re, papi, cardinali e perfino inquisitori. L’artista storico era più “artigiano”, spesso svolgendo un lavoro di bottega e dunque conosceva i suoi limiti sociali. Con l’emergere della borghesia e delle società borghesi, i ruoli sono diventati più vaghi e dunque divenne più problematico per l’artista trovare lo spazio entro il quale potrebbe esprimersi. Il progressivo imborghesimento della società ha portato altri problemi, fra cui l’orrore della carta bianca e la sacralizzazione laica della creatività artistica e si cominciò a parlare di “quello che l’artista ha dentro”, ecc... Soprattutto portò al distanziarsi dell’arte dal pubblico generale. Sia il cardinale, sia il critico d’arte, sia la vecchietta con il rosario in mano possono apprezzare (sempre a modo loro) un affresco di Giotto o un Caravaggio (…)
Ma veramente, come sostiene Arturo Schwarz, le parole “artista” e “anarchico” sono intercambiabili? Ed è desiderabile che ciò avvenga sia ora che nel futuro?
Pare che certi sviluppi vanno in quella direzione per ora. Ma sia Arte che arte sono antichi come l’umanità – perfino dai tempi delle caverne di Lescaux – mentre nella storia umana l’anarchia è relativamente recente sia come teoria che prassi politica. Rimango convinto anche che incapsulare l’Arte dentro una giacca per quanto attraente come l’anarchia non sia negl’interessi dell’artista.
Non capisco per esempio cosa sia l’originalità. La storia dell’arte è piena di riferimenti e rifacimenti del lavoro dei predecessori. Quando i “moderni” hanno abbandonato le accademie, non dovevano almeno avere un’idea di e a che cosa si stavano ribellando? Picasso nel suo tardo periodo ha sviluppato stampe ed incisioni basandoli sui lavori di Velasquez e Rembrandt. Le sue versioni erano sicuramente “originali” ma i soggetti fanno parte della cultura artistica mondiale. E i tanti artisti storici che hanno fatto infinite madonne e crocifissi?
“L’esigente pulsione interna” che dovrebbe motivare l’artista a creare mi risulta anche misteriosa ed inafferrabile. Mi suggerisce quel “dolore” che prende l’artista una volta che ha concepito l’opera e lo deve portare a compimento. Ma spesso fa parte della concezione relativamente moderna dell’artista – l’artista come viene visto dalla civiltà borghese (…)
Infine vorrei scusarmi con Arturo Schwarz per la mia presunzione ed impertinenza per aver voluto rispondere a questo suo scritto sintetico, che ci offre un vero tesoro di idee sulla relazione fra arte ed anarchia. La sua esperienza in tanti campi ci ha illuminati per tutto il ventesimo secolo. Il fatto che io abbia dovuto usare tante parole è evidenza dei miei grandi limiti mentre Arturo, come un grande artista quale è, riesce a dire tutto con poche parole.
Ma l’impulso di mettere il dito sulla tastiera del mio portatile è stato più forte di me. L’arte mi appassiona e per molti anni mi sono rifiutato di praticarla per motivi politici d’ispirazione libertaria e così questo scritto di Arturo Schwarz ha messo il dito su quello che per me è una piaga viva, che ora “soffro” con grande piacere ed entusiasmo.
Nino Staffa
(Mongrassano – Cs)
Arte e anarchia/... e risposta
Caro Nino Staffa,
ti ringrazio per le espressioni di stima nei miei confronti. Stracarico di lavoro rispondo telegraficamente ad alcuni dei tuoi appunti, perché mi pare che tu non abbia le idee molto chiare.
Scrivi “l’anarchico non è un marxista”. Ovvio, nondimeno, qualsiasi contributo politico filosofico o scientifico non può fare a meno dell’apporto di Marx, ed Engels, come nessun anarchico può dimenticarsi di Proudhon (anche se a volta da prendere con le pinzette), di Bakunin, di Kropotkin e del nostro grandissimo Malatesta o, ancora, come nessun fisico potrebbe dimenticare Einstein, ecc. ecc.
La regola aurea, come già più volte precisato, è la fedeltà al proprio essere (se non capisci quello che questo significa, pazienza), ne consegue che, anche nell’arte non ci si può mettere al servizio di una ideologia, tanto meno se di carattere politico. Su questo punto il manifesto “Per un’arte rivoluzionaria indipendente”, scritto da André Breton in collaborazione con Leone Trotsky nel 1938 a Coyoacan ci dà una risposta definitiva. T’invito a rileggerlo. Lo trovi ripubblicato in tutti i libri seri sul Surrealismo. In ultimo anche nel mio “Breton e Trotsky. Storia di un amicizia“ ripubblicato per la terza volta (dopo Savelli, 1974; Multhipla 1980; Erreemme edizioni 1997). Nel mio testolino per “A” ho tentato soltanto di ricordare alcuni elementi di carattere basilare.
Un fraterno saluto anarchico.
Arturo Schwarz
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni.
Mauro Bonalumi (Cinisello Balsamo – Mi) 24,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Antonio Cecchi (Pisa) 20,00; Anita Pandolfi (Castel Boolognese – Ra) 20,00; Rocco Tannoia (Settimo Milanese – Mi) 20,00; Luciano Pagni (Siena) 6,00; Franco Bertolucci (Pisa) 30,00; Michele Pansa (Tropea – Vv) 20,00; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto, Marina e Minos, 50,00: Patrizio Biagi (Pontremoli – Ms) 50,00; Alessandro Delfanti (Piacenza) 40,00; Alice e Alex (Bussero – Mi) 20,00; Nicola Pisu (Serrenti – Vs) 25,00; Rinaldo Boggiani (Rovigo) 50,00; Gianpiero Landi (Castel Bolognese – Ra) 50,00; Antonello Cossi (Sondalo – So) ricordando Vittorio Pini, amico e compagno, 20,00; Marcella Caravaglios (Messina) 20,00; Gesino Torres (Santo Spirito – Ba) 20,00; Roberto Bernabucci (Cartoceto – Pu) 20,00; Valerio Pignatta (Semproniano – Gr) 10,00; Giovanna Valtorta (Castelnuovo Magra – Sp) 10,00; Piero Barsanti (La Spezia) 20,00; Francesco Paolo De Martino (Meta – Na) 10,00; Daniele Florindo (Mestre – Ve) 20,00; Marco Cressati (Bari) 20,00; Paolo Sabatini (Firenze) 20,00. Totale euro 1.125,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro
100,00). Alberto Ramazzotti (Muggiò– Mb); Birgitta Schneider Verdecchia (Firenze); Fabio Palombo (Chieti) 200,00; Riccardo Caneba (Grottaferrata – Rm); Fantasio Piscopo (Milano); Gianni Alioti (Genova); Angelo Carlucci (Taranto); Dario Sabbadini (Milano); un compagno (Lugano – Svizzera) 150,00; Oreste Roseo (Savona) ricordando Umberto Marzocchi, Ugo Mazzucchelli, Mario Mantovani, Pio Turroni, Aurelio Chessa e Alfonso Failla; Tommaso Bressan (Forlì) 150,00.
Totale euro 1.300,00.
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