L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù.
François de La Rochefoucauld |
Le riflessioni che seguono prendono le mosse da una breve discussione su facebook a proposito della nota dichiarazione del ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini che ha affermato che il 13 febbraio in piazza c’erano “solo poche radical chic e snob di sinistra”. La riporto:
“Mara – Ha sbagliato solo definendole radicalchic... al suo posto borghesi.
Cosimo – Sappi porre in crisi i tuoi convincimenti a priori sulla base della realtà effettuale. Era un tipico movimento democratico tutt’altro che elitario. Che poi vi fossero anche le sinistrignaccole da terrazza o da collina non ne modifica la natura sociale. Casomai, si dovrebbe ragionare sulla rinascita dell’antiberlusconismo indifferenziato.
Mara – Valori borghesi che appartengono tanto alla destra, alla sinistra e ai radicalchic.
Cosimo – Appunto, io ti insegno, tu mi insegni, noi ci insegniamo a vicenda che, per l’irruzione sulla scena del quarto stato, è condizione favorevole la mobilitazione del terzo stato e l’aprirsi di contraddizioni al suo interno.”
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Milano, 13 febbraio 2011 – In piazza per la dignità delle donne
(foto Roberto Gimmi) |
Torino 13 febbraio
Piazza San Carlo è gremita sin dalle 14,30, l’ora di indizione della manifestazione.
Le persone che arrivano, abbastanza omogeneamente donne ed uomini, hanno il classico aspetto, abbigliamento, modo di porgersi del “popolo di sinistra”.
Ho la netta sensazione che l’età media sia abbastanza alta, non che manchino giovani, al contrario, ma vi sono molte penne grigie. Come se una generazione politica, quella fra i cinquanta ed i sessant’anni, ed oltre, si sia sentita chiamata a raccolta.
In qualche misura è, fatto salvo che nulla si ripete perfettamente, la piazza dell’antiberlusconismo militante, quella piazza che si manifestò la prima volta il 25 aprile del 1994 a Milano sotto una pioggia battente e che è riapparsa a più riprese con maggiore o minore consistenza e vivacità come girotondi, manifestazioni della CGIL a Roma et similia.
Le organizzatrici torinesi, un collettivo femminista o una rete di collettivi – non saprei, ha chiesto di venire in piazza senza striscioni e bandiere ed è questa un’indicazione nazionale.
La cosa permette una sorta di indifferenziata comunità dei manifestanti armati di ombrelli e di gomitoli, una comunità apartitica, asindacale a....?
È una scelta che sembra piacere, i manifestanti non si vogliono sentire “strumentalizzati” o divisi per appartenenze, si vogliono cittadini e cittadine in rivolta contro quanto avviene nel palazzo. Una versione dolce, molto dolce, di quanto avviene a poche decine di chilometri dalle nostre coste.
Vero sino ad un certo punto. Se la koiné di questo mondo è l’opposizione società civile (corretta) – governo (corrotto) e non tollera o, almeno, non apprezza troppo altri linguaggi quali quello dell’opposizione capitale – lavoro o, dio scampi e liberi!, l’ipotesi di una rottura radicale degli equilibri sociali, è sin troppo chiaro che, in filigrana, il “movimento” rimanda all’attuale sinistra politica, alla necessità di una sua modernizzazione e immersione nel “suo” popolo.
E su questo punto è interessante l’attitudine di una serie di mie vecchie e nuove conoscenze.
Quando si ha, per fare un solo caso, la malagrazia di far rilevare a qualche sinistrignaccola mediamente conformista che il segretario generale della CGIL Susanna Camusso era sul palco a Roma, che qualcuno avrà ben deciso di dare spazio alle postfasciste di Futuro e Libertà al fine evidente di negare il carattere troppo strettamente “di sinistra” della piazza e di alludere ad un più ampio fronte antigovernativo, si sente il fastidio dell’interlocutrice.
Forte, insomma, è il bisogno di sognare un cambiamento che non chieda eccessivo sforzo, impegno, dolore, conflitto e la realtà effettuale, pure evidente, infastidisce.
Ogni identità troppo “forte”, con ogni evidenza non sarebbe funzionale all’unità del movimento che si può tenere solo su di una piattaforma sufficientemente generica da tenere dentro tutto ed il contrario di tutto.
Interessante è rilevare che qualche problema lo hanno anche compagne militanti a fronte della differenza, obiettivamente notevolissima in termini numerici fra le “nostre” iniziative e la piazza del 13 febbraio. Vorrebbero che “sapessimo comunicare meglio” con questa moltitudine.
Se però si segnala che le persone che questa moltitudine compongono non sono cretine e che, se non vanno oltre la critica al governo, non è per inconsapevolezza ma per scelta e, soprattutto, che noi non abbiamo i mezzi notevolissimi del cartello antiberlusconiano (Anno Zero, L’Infedele, Ma che tempo che fa, La Repubblica, Il fatto quotidiano, chi ha pagato 80.000 euro cash per l’affitto del Palasharp per citarne alcuni) e che usando volantini, e mail e poco altro non concorriamo alla pari, si rasserenano rapidamente.
Eppure la mobilitazione del 13 febbraio non può né deve essere liquidata solo come l’ennesima manifestazione dell’antiberlusconismo funzionale ad una qualche alleanza elettorale la più ampia possibile e/o a qualche candidatura femminile alle elezioni locali e nazionali.
Destrignaccolo e sinistrignaccolo
Credo, infatti, che alcuni elementi che caratterizzano l’attuale deriva vadano colti e meritino un’ulteriore riflessione:
1. In primo luogo, per l’entrata in campo del quarto stato, la nostra classe, lo scontro fra terzo stato ed oligarchia dominante è condizione favorevole come lo sono le contraddizioni interne allo stesso terzo stato fra blocco destrignaccolo dei liberi professionisti e dei caporali di ventura della piccola impresa e quello sinistrignaccolo dei professori universitari e dei medio borghesi semicolti. Mi rendo conto che il parallelo con la grande rivoluzione può parere forzato ma mi sembra di qualche utilità proprio a fronte dell’affermarsi nei tempi nostri della categoria di cittadinanza;
2. In secondo luogo, questo movimento prende anche le mosse, in maniera evidentissima, dall‘attuale difficoltà di trovare sbocchi per il conflitto sociale. Masse umane rilevanti che hanno poca o nessuna fiducia e/o possibilità di collocarsi nel conflitto sui luoghi di lavoro trovano in un movimento ampio, indifferenziato, generico, la possibilità di dare uno sbocco alle proprie tensioni e di comunicare le proprie sofferenze, speranze, aspettative.
3. D’altro canto, ed è recente lo sciopero del 28 gennaio come lo sono le mobilitazioni degli studenti, dei ricercatori, dei lavoratori della scuola, che la questione sociale sia all’ordine del giorno è evidente e, in qualche misura, si intreccia con la questione morale non foss’altro che perché i protagonisti delle diverse ondate di lotta sovente coincidono.
Non a caso i cortei erano palesemente attraversarti dalla questione sociale che, per dirsi, usava le parole della questione morale.
Le ragazze che rivendicano, sarà banale ma è importante, il diritto ad un reddito dignitoso ed ad una vita meno precaria per la loro qualità di persone e non per meriti subcintolari sono espressione di una forma specifica della contraddizione di classe, esprimono il rifiuto radicale di una nuova, e disgustosa, servitù.
Quando esponenti della destra “libertaria” ci spiegano che le donne “siedono sulla propria fortuna” riescono – almeno da questo punto di vista si rendono utili – a rendere evidente a chiunque che un limite si è superato e svelano che, dietro la narrazione democratica liberale, si cela, male, il disprezzo radicale per la dignità delle persone e, in primo luogo, per la nostra classe.
Nella mobilitazione attuale vi è certo di tutto e sarebbe ingenuo oltre misura sottovalutare che i recuperatori – sotto forma di aggregazioni “informali” – sono all’opera ma ritengo che vi sia molto che potrebbe evolvere in senso interessante.