Ma erano incatenati o ammanettati gli anarchici cacciati senza colpa da Lugano nel 1895?
Le due lezioni sono entrambe attestate nella tradizione orale e scritta e se la cosa, da un punto di vista pratico, fa ben poca differenza – sempre di strumenti di contenzione, in fondo, si tratta – in termini letterari il loro significato è piuttosto diverso. Le catene si collocano in un contesto piuttosto aulico, in una tradizione vagamente romantica e medioevale di oscure segrete e torrioni fortificati; le manette rimandano più prosaicamente alla cronaca criminale
e alla pratica corrente delle questure. In effetti, è molto probabile che Pietro Gori, che era uomo colto e padroneggiava il linguaggio della poesia del suo tempo (quello, più o meno, della tradizione carducciana), abbia scritto “incatenati” e che la forma, diciamo così, modernizzata sia invalsa nella pratica di quanti, meno colti di lui, hanno in seguito dato voce alla sua canzone. “Ammanettati” sarebbe così una specie di lectio facilior. Ma il problema resta aperto e richiederebbe forse una più severa analisi filologica.
D’altra parte, si sa che le canzoni popolari sono spesso di origine colta – o semicolta – e le loro parole hanno talvolta offerto qualche problema d’esegesi agli stessi destinatari. Non è il caso, naturalmente, di “Addio a Lugano”, i cui versi devono il loro successo proprio all’appassionata semplicità che li distingue, ma i pur diffusissimi “Stornelli d’esilio”, sono alquanto più ostici da masticare. Cosa fossero esattamente “dei miseri le turbe” poteva ignorarlo anche qualcuno perfettamente consapevole della realtà delle masse sfruttate. E per agitare “la face dei diritti”, naturalmente, si richiede una competenza lessicale un po’ superiore alla media.
|
Milano, Circolo ARCI “La Scighera”, 24 febbraio 2011.
In conclusione della festa per i 40 anni di “A”,
le Voci di Mezzo e gran parte dei presenti intonano
canti anarchici, antimilitaristi, anticlericali |
Il fosco fin del secolo morente
Queste e simili riflessioni mi frullavano per il capo giorni fa, mentre partecipavo, in un circolo milanese, ai festeggiamenti in onore dei quarant’anni di vita di una nota rivista anarchica. Come spesso capita in occasioni del genere, si stava cantando: nel corso della serata si erano alternati al microfono diversi collaboratori, per rispondere più o meno a tono alle domande che venivano poste loro, poi c’era stata l’esibizione dal palco di due valenti musicisti e infine qualcuno aveva inevitabilmente impugnato una chitarra, invitando i presenti a cantare in coro. E a partire, appunto, dagli “Stornelli d’esilio”, note e parole di tante vecchie e amate canzoni, addio Lugano bella, ovviamente, e le ultime ore di Sante Caserio, il fosco fin del secolo morente, il feroce monarchico Bava, l’inno della rivolta, l’inno individualista e tante altre avevano invaso il locale. Eravamo tutti, quale più quale meno, un poco bevuti – tranne il Felice Accame, dal cui labbro, di fatto, non si riusciva a strappare una nota – e ci davamo dentro con bella foga, conferendo a quelle strofe un po’ polverose quella sorta di seconda giovinezza che la facies linguistica avrebbe, in teoria, dovuto precludergli. Effetti prodigiosi della passione politica e, naturalmente, del vino.
Strano, però. Conoscevo gran parte dei presenti (quasi tutti, in effetti) e li conoscevo come gente essenzialmente pacifica, di carattere affatto mite, incapace, sia pure in nome delle più cogenti motivazioni ideologiche, di fare del male alla classica mosca e adesso erano lì che non solo si intenerivano per la sorte dei cavalieri erranti trascinati al nord dalla gendarmeria elvetica, ma celebravano l’insurrezione auspicando, in suo nome, autentici bagni di sangue. Cantavano le lodi del petrolio, non intendendo certo per tale quello che riempie i forzieri dell’emiro del Bahrein, e si entusiasmavano per lo scroscio redentore della dinamite. Quelli tra loro che si distinguevano per la religiosità dei sentimenti, erano, strano a dirsi, i primi a lanciarsi nelle più sfrenate giaculatorie anticlericali, auspicando che preti e frati fossero fatti sollecitamente a pezzi, insieme ai più alti esponenti del clero. E tutti, me compreso, sembravano stranamente entusiasti all‘idea di compensare sulle barricate piombo per piombo e di cadere, come logica conseguenza, in un fulgore di gloria, il che, se pure avrebbe aperto una novella via all’avvenire, sembrava comunque più che una manifestazione di spirito eroico, una espressione della pulsione di morte che fin dalla nascita ci accompagna.
|
Carlo Oliva |
Truci propositi
Sto scherzando, naturalmente. Se contraddizione c’era, in quell’abbandonarsi ai miti e alle immagini di un secolo ormai preterito, era una contraddizione affatto veniale. E poi lo stesso arcaismo stilistico e lessicale di quei versi contribuiva a garantirne un uso, per così dire, contestualizzato, rendeva chiaro a chiunque che nessuno intendeva far propri quei truci propositi, ma ci limitavamo a ricordare con qualche affetto la tradizione del movimento. Era anche probabile che i più anziani celebrassero, allo stesso tempo, anche il ricordo della loro giovinezza barricadiera, quando quella della rivoluzione sembrava una prospettiva meno mediata di come la si può concepire oggi, ma chi potrebbe biasimarli per questo? Le vecchie canzoni non fanno male a nessuno, ma possono anzi servire, al di là dei contenuti specifici, a riaffermare una identità. Cosa di cui, in verità, si sente piuttosto il bisogno, perché un po’ di spirito libertario nella prassi e nell’analisi della sinistra non sarebbe certo superfluo e se della sabauda marmaglia ci siano, auspicabilmente, liberati una volta per tutte, di armati caìni ce ne sono sempre in giro parecchi, anche se a nessuno verrebbe in mente di chiamarli così e lo sfruttamento delle turbe dei miseri resta sempre, ahimè, all’ordine del giorno.
Dell’identità, tuttavia, si può anche restar prigionieri. Nel qual caso il problema potrà essere quello di non prendersi troppo sul serio. Ma questa, si capisce, è tutt’altra faccenda. Auguri a tutti, per ora, e ci vediamo alla prossima festa.