“La rivoluzione non si fa nelle soggettività delle coscienze illuminate, ma essa ha bisogno dell’azione collettiva, del sollevamento delle masse, dell’insurrezione. E l’insurrezione troverà sempre di fronte a se stessa la forza dell’ordine costituito che plasma la società gerarchica, la forza dello Stato.
La rivoluzione dunque non è solo un’idea è anche un fatto, un evento che si colloca nella storia. L’evento risponde alle condizioni della società che lo ha prodotto. I fatti storici non si riproducono mai in maniera identica né dalle stesse condizioni. E il fenomeno rivoluzionario è sempre molteplice,
diversi focolai di rivolta coincidono per trasformare un regime in un’immagine del passato: l’antico regime.”
Eduardo Colombo (1) |
L’anno 2011 sembra essere iniziato, tra i tanti fatti, all’insegna di un orizzonte insurrezionale che vede in prima linea il mondo mediorientale. Prima si accendono focolai di rivolta in Tunisia, poi in Egitto, senza tralasciare Algeria, Marocco, Yemen, Iran, Bahrein, e ora Libia, con le catastrofiche conseguenze repressive palesate al mondo intero e con i nuovi orizzonti di guerra che emergono proprio in questi ultimi giorni.
Le testate dei quotidiani dei primi mesi dell’anno si sono infoltite di termini come rivolta, rivoluzione, insurrezione. Utilizzati nella maggior parte dei casi l’uno per l’altro, con poca cognizione di causa, con parzialità, hanno generato notizie talvolta tendenziose, brandelli di realtà che forse poco hanno reso giustizia alla verità dei fatti, o non hanno saputo, potuto, voluto raccontare cosa davvero sia successo e stia succedendo in quella fetta di globo, ma che comunque hanno risvegliato, per qualche istante, l’attenzione dell’Europa e degli Stati Uniti dal torpore opulento e consumista.
Occhi puntati sulle rivolte nelle strade di Tunisi, in piazza Tahrir al Cairo, a Tehran come a Tripoli e Bengasi, solo per citarne alcune. Ma c’è stato come sempre, e il che fa pensare che non sia casuale, un problema di interpretazione.
«Le rivolte popolari tra Nord Africa e Medioriente sono state interpretate dagli europei con uno schema vecchio di 30 anni: la rivoluzione islamica in Iran. Ci si aspetta che i gruppi islamisti assumano il controllo delle proteste stiano lì a tramare nell’ombra, pronti a conquistare il potere. La discrezione e il pragmatismo dei Fratelli musulmani egiziani, però stupisce e preoccupa: che fine hanno fatto gli islamisti?» Sosteneva a metà febbraio in un articolo O.Roy, giornalista del quotidiano Le Monde, Francia.
Al sorgere delle prime proteste di massa, quelle dove polizia ed esercito hanno represso nel sangue orde di manifestanti ruggenti di rabbia, l’opinione pubblica occidentale ha tremato cercando dapprima rispolverare l’allarme terrorismo poi, in un tentativo di screditare le lotte che urlavano a gran voce, hanno rimpolpato il mostro degli attentati nutrito dalla paura dell’odio islamico verso l’occidente.
Ma la farsa non ha retto, e nemmeno la storiella a lieto fine del cattivo dittatore scacciato e del “vissero tutti felici e contenti”.
Osservando meglio i manifestanti, infatti, è evidente che abbiamo a che fare con una generazione postislamista. Per le persone coinvolte nelle proteste i grandi movimenti rivoluzionari degli anni settanta e ottanta appartengono ad un’altra storia, quella dei loro genitori. La nuova generazione sembra non essere così interessata all’ideologia: urla slogan pragmatici e concreti (tra le urla più sentite nelle strade riecheggia spesso il termine “erhal”: “via subito”) ed evita i richiami all’Islam, come invece avveniva in Algeria alla fine degli anni 80.
Questa generazione rifiuta la dittatura e reclama la democrazia. Questo non significa che i manifestanti siano tutti laici, o rivoluzionari, ma solo che non vedono nell’islam un’ideologia politica in grado di creare un ordine migliore. E questo già non è poco. Primo passaggio fondamentale per aprire un varco ai bacilli di mutazione culturale che gli anarchici vorrebbero innestare nei corpi, ma soprattutto nelle menti altrui.
Altra cosa, ancor più stupefacente, sembrano abbandonate le teorie “complottiste” che vedevano nei paesi come Francia, Stati Uniti tutte le cause dei mali del mondo arabo. Il panarabismo sembra essere sparito dagli slogan, nonostante sia innegabile uno spirito emulativo da parte di egiziani e yemeniti nelle piazze a seguito delle rivolte dei fratelli tunisini; ma questo è stato solo un bene, stimolo e scintilla per alzare la testa.
Il soggetto “rivoluzionario”
Abbiamo a che fare con una generazione pluralista, in cui le persone sono anche più individualiste, hanno avuto modo di costruirsi un’identità più complessa ed articolata rispetto a quella che potevano essersi creata i loro padri. Sono persone che hanno maggior livello di istruzione rispetto ai genitori, sono più informate e spesso hanno accesso ai mezzi di comunicazione moderni che permettono loro di entrare in contatto direttamente con altri individui senza dover passare attraverso i partiti politici. La storia ha insegnato a questi giovani che i regimi islamisti si sono trasformati in dittature e per questo forse non subiscono il fascino dell’Iran o dell’Arabia Saudita. Quelli che sono scesi in piazza in Egitto sono gli stessi che manifestano in Iran contro Ahmadinejad. Probabilmente sono credenti ma questo non ha nulla a che vedere con le loro rivendicazioni politiche. Manifestano in nome della dignità e del rispetto, richiamando uno slogan nato in Algeria alla fine degli anni 90 e ricordando guarda caso le parole d’ordine dei movimenti indigenisti rivoluzionari del centro-America, per esempio. Fanno appello a valori universali e chiedono una democrazia che non ha nulla a che vedere con quella promossa dall’amministrazione Bush per giustificare l’invasione dell’Iraq del 2003.
È sbagliato perciò mettere in relazione il revival islamico degli ultimi 30 anni con un processo di radicalizzazione politica. Se oggi le società arabe sembrano rispettare il Corano più di quanto facessero trenta anni fa, come si spiega l’assenza di slogan islamici nelle manifestazione di questi mesi? Paradossalmente, la reislamizzazione sociale e culturale (uso del velo, proliferare di moschee, diffusione delle tv religiose etc.) ha finito per depoliticizzare l’islam. I simboli religiosi si sono svuotati di ogni valore politico. Nasce anche qui il mercato religioso. Tutto diventa islamico, dal fast food alla moda femminile, e quando tutto è religioso niente lo è davvero.
Nel contempo e di conseguenza i giovani hanno cominciato a costruirsi un proprio percorso individuale, religioso o laico, dove ognuno si costruisce la propria fede, le proprie credenze, le proprie idee, perché l’utopia dello stato islamico non interessa più a nessuno, fra la gente comune.
In ogni caso, una rivolta non basta a fare la rivoluzione; coerentemente con la propria natura, il movimento popolare non ha leader né strutture politiche e questo pone il problema dell’istituzionalizzazione della democrazia. (vedi Castoriadis in “Relativismo e democrazia”)
Ma c’è di più, e questo è il nodo centrale su cui vorrei focalizzare l’attenzione, per poter interpretare in maniera libertaria queste proteste, iscrivendole comunque in un anelito di libertà. Come diceva Colombo : «La rivoluzione è una volontà in azione, un’idea di trasformazione sociale in atto. (...) Le idee rivoluzionarie finiscono per organizzarsi in un progetto collettivo di emancipazione, un’immagine di anticipazione che contiene le linee di forza di un cambiamento desiderato, voluto e pensato. Quando la rivoluzione arriva, il progetto sarà esso stesso trasformato e sconvolto. Per definizione appartiene alla vecchia società. Ma è necessario per qualsiasi cambiamento voluto con coscienza e orientato da dei valori e da una finalità. Le società non attendono la rivoluzione per trasformarsi, esse cambiano costantemente in funzione di una dinamica interna imposta dei differente conflitti interni che la attraversano. Tuttavia, il cambiamento rivoluzionario – anche se è il seguito di rivoluzioni abortite, uccise, schiacciate – suppone un’azione strumentale legata a dei valori, un’intenzionalità umana. Dunque, un cambiamento orientato da un progetto di liberazione, o di autonomia, spinto da un’azione volontaria, conduce a una rottura di tipo rivoluzionario».
Nuova reciproca cortesia
Durante i giorni della rivolta gli egiziani hanno riscoperto anche l’orgoglio della convivenza civile, citava l’occhiello di un articolo interessante intitolato “La leggerezza del Cairo”, di Amira Hass, apparso su Internazionale n. 885, anno 18. Ed è proprio dalla lettura di questo articolo che è partita la riflessione che mi ha spinto a rileggere e ripensare a quanto emerso dal seminario del 6 novembre al Centro Studi libertari intitolato “Rivoluzione?”, da cui provengono anche le citazioni di Colombo e Ibañez.
Allo scoppiare delle rivolte nord africane si è riaperto un capitolo della storia che per noi è abbastanza datato, ma che ha posto le coscienze a chiedersi se effettivamente quello che stava avvenendo avrebbe portato ad una rivoluzione. Senza entrare ora nel merito di un dibattito che potrebbe spaziare dal politico al filosofico, la mia risposta è nata proprio da questo spunto di narrazione giornalistica.
«C’era qualcosa di più leggero nell’aria del Cairo quando sono arrivata il 13 Febbraio. Mi sono chiesta se era solo la mia immaginazione, ma la sensazione che questa immensa città si fosse liberata da una pesante cappa di piombo è cresciuta giorno dopo giorno ed è stata confermata dalle persone con cui ho parlato. Perfino il Nilo è diventato più azzurro, sosteneva la gente dopo le dimissioni di Mubarak. Un azzurro virtuale, perchè questo fiume è grigio come prima, e come sempre la sua vastità fa rima con generosità. Con generosità e pazienza il fiume ha inghiottito molti candelotti di gas lacrimogeno, poiché il ponte era il posto migliore per resistere agli attacchi di polizia, ributtando i candelotti nel fiume. (...) Gli automobilisti sembrano più educati, le donne sono scese in piazza senza problemi, e sono rinate addirittura delle barzellette.»
(Amira Hass in Internazionale, num. 885, anno 18, 18/24 febbraio 2011)
Un’inaspettata buona educazione e una nuova reciproca cortesia sono nate durante le settimane di rivolta; la gente ha ricominciato a prendersi cura della propria città, ripulendola dall’immondizia, dipingendo i marciapiedi o semplicemente spazzando l’asfalto con le scope portate da casa, come per voler scandalizzare il regime, affermando platealmente con gesti pratici la sua totale colpevolezza nell’oppressione del popolo, accusandolo e relegandolo nella negligenza, nell’indifferenza, nella maleducazione, nella sporcizia, nella violenza, nella povertà. E ancora più sorprendente il fatto che migliaia e migliaia di persone si siano riversate in piazza senza problemi per le donne, in prima fila durante le proteste.
Questo per ribadire che una rivoluzione parte anche da una mutazione culturale profonda, che coinvolge in primis l’aspetto quotidiano della vita, il qui ed ora, non per forza proiettatile in un futuro prossimo non ben identificato. Questo concetto emerge bene anche dalle riflessioni di Ibañez:
«Non si tratta più di organizzare i militanti, l’attività militante, per avanzare verso l’insurrezione generalizzata, ma si tratta piuttosto di ravvivare e di realizzare la Rivoluzione oggi, qui e ora, all’interno delle pratiche di lotta che vengono sviluppate collettivamente e nel quotidiano. Le lotte rivoluzionarie attuali sono dunque chiaramente presentiste, ma esse sono anche non totalizzanti. Ciò è sempre dovuto al fatto che l’accento si è spostato dal futuro verso il presente, che si è spostato a sua volta dalla globalità della società verso situazioni parziali ma concrete. Non è più l’azione orientata verso la trasformazione globale e radicale della società nel suo insieme che dirige e subordina le nuove pratiche rivoluzionarie. Quella che balza in primo piano è la volontà di rompere, oggi, i dispositivi di dominio concreti e situati, è l’azione per creare degli spazi che siano radicalmente stranieri ai valori del sistema. Si tratta di sviluppare delle pratiche che, mentre trasformano in maniera rivoluzionaria frazioni della realtà, trasformano noi stessi e cambiano le nostre relazioni con gli altri. Tutto ciò, d’altronde, va di pari passo con l’anarchismo pratico di Colin Ward, l’anarchismo creatore e costruttivo che non è tanto una visione del futuro ma piuttosto una maniera di vivere e di organizzarsi in seno alla quotidianità presente, con l’idea di espandersi a macchia d’olio e di contaminare con i propri valori settori sociali via via più ampi.».
Lotte collettive e soggettività rivoluzionarie
Un pensare globalmente ma un agire glocalmente, ognuno con le proprie specificità e le proprie caratteristiche culturali, ma cominciando fin da subito a trasformare l'esistente, anche nelle sue banalità come l'esempio che vorrei fare per chiudere.
Ho scoperto leggendo che negli ultimi quindici anni gli egiziani non avevano inventato più barzellette. Con la rivoluzione, è rinata anche questa tradizione popolare; centinaia di persone in questo periodo hanno scritto le loro battute su A4 , manifesti, cartelloni, esibiti poi ai propri compagni di lotta e alle telecamere. Sintomo di un risveglio cerebrale e un impegno nel saper sdrammatizzare ed esprimere i concetti anche più duri con un sorriso sulle labbra. Come dire “ Sarà una risata che vi seppellirà”.
Questo ovviamente non significa assolutamente che la rivoluzione sia fatta, anzi, parliamo di rivolte, di ordine sconvolto ma presto ricomposto fra cocci ed eserciti, fino ad arrivare alla guerra. C'è tuttavia la certezza che i risultati ottenuti finora e l'esperienza vissuta contribuiranno semmai a costruire un futuro degno di questo nome.
«Bisogna immaginarsi un processo storico che si svolge in lunghi anni, se non addirittura in secoli, che modifica tanto le istituzioni della società quanto il tipo d’uomo che potrà farla vivere. Ma si tratta sempre di una rottura, prodotta da un cambiamento profondo e qualitativo della società. La ghigliottina ha tranciato un legame che legava il corpo politico del re alla trascendenza divina. Questi sono i momenti insurrezionali dove il popolo fa irruzione nella storia, minando e disgregando l’immaginario stabilito che nel contraccolpo faranno apparire questa linea di cresta dove la società vacilla. Dall’altro lato è difficile immaginarsi che le potenze di questo mondo, che dispongono della proprietà del lavoro e delle armi, rinuncino spontaneamente ai loro privilegi. La rivolta delle masse, proteiforme e probabilmente iterativa, è una necessità della rivoluzione. Ma il progetto rivoluzionario, per divenire una forza sociale attiva, deve uscire dal livello utopico dell’idea per incarnarsi nelle posizioni collettive dominanti. Delle condizioni sociali che potranno permettere tale incarnazione, i rivoluzionari non ne sono certo maestri.» (2)
Si tratta dunque di produrre un soggetto politico che sia radicalmente refrattario al tipo di società all’interno della quale viviamo, ai suoi valori, ai rapporti di sfruttamento e di dominio che la costituiscono, ed è dunque anche nel soggetto che si fa la Rivoluzione. «In altri termini, la Rivoluzione è anche una trasformazione soggettiva in atto, e la Rivoluzione prende corpo quando le lotte collettive fanno nascere delle soggettività rivoluzionarie.» (3)
Ed è quello che mi auguro che succeda in Medioriente.