Andrea Perin
Una sfida quotidiana
Faccio fatica, talvolta, a vivere da anarchico.
Non parlo delle situazioni organizzate dove l’attività si svolge tra persone che condividono ideali e passioni, dove l’azione è di frequente accompagnata da una riflessione sul significato: in questi momenti la innegabile fatica della continua attenzione è coniugata con la consapevolezza della costruzione di un percorso di crescita assai gratificante. Spesso sono contesti che si pongono come antagonisti alla società capitalista, si differenziano e si contrappongono come modello sociale e organizzativo; non di rado rischiano di isolarsi, talvolta lo scelgono, a volte corrono il pericolo di diventare autoreferenziali.
La mia fatica si materializza quando sono “solo”, in mezzo alla vita quotidiana del lavoro e delle relazioni, a contatto con persone di diverse sensibilità, in situazioni dove spesso il pensiero libertario non si è mai esercitato. In questi casi ho le mie difficoltà. Il senso della mia fatica si lega alla ricerca, spesso individuale, di un comportamento che sappia esercitare comunque le pratiche condivise nei contesti anarchici.
Mi rifiuto di poter essere anarchico solo dentro il recinto dei miei simili, di fare una vita nel rifugio della condivisione stretta. Voglio infilarmi nel confronto quotidiano di chi è diverso da me, nelle situazioni in cui il pensiero anarchico (non di rado fermo a una realtà diversa da quella attuale) non si è mai espresso o confrontato, nella palude dei rapporti dove la gerarchia è data per scontata. Vorrei anche in questi casi riuscire a mantenere una specificità autonoma e riconoscibile.
Con estrema sintesi, il fatto che io sia anarchico, che abbia valori e pratiche spesso non condivisi da questa società, in cosa mi rende differente dagli altri? Migliore? O peggiore, oppure indifferente?
È una sfida quotidiana, dove l’errore può essere uno strumento di crescita e il dubbio offrire la possibilità per una verifica e un affinamento delle certezze. Dal confronto possono uscire la contaminazione e l’ibridazione, anche con il rischio di scoprire che, magari, non tutto “funziona” come ci si aspetta, che l’anarchia non sa cosa dire. Ma anche la possibilità di far sì che le idee anarchiche, anche se non riconosciute come tali, abbiano una loro incidenza e si rivelino utili a cambiare la società anche al di fuori dei contesti protetti.
Può capitarmi nel mio lavoro, ad esempio. Io mi occupo della progettazione di mostre e musei, organismi che sono intrinsecamente autoritari, nei quali una classe di specialisti decide cosa e come mostrare il patrimonio storico e artistico al pubblico potenziale, e sceglie cosa comunicare. Dalla loro nascita i musei sono intimamente legati al tema dell’identità, altro argomento non di rado sdrucciolo. Eppure hanno un ruolo significativo perché offrono potenzialmente a chiunque il contatto e la conoscenza verso un patrimonio altrimenti al di fuori della esperienza personale, appannaggio spesso della sola classe dominante. Nelle pieghe di queste istituzioni, spesso in accordo anche con chi anarchico non è (quasi tutti per la verità) si trova spesso la possibilità di lavorare a un diverso modo di comunicare, di aumentare il ruolo del visitatore, di offrire autonomia e rispetto a chi non è uno specialista.
Un altro campo dove mi confronto, questa volta per piacere personale, è quello dell’alimentazione e cucina, materie storicamente ai margini delle riflessioni politiche, ma che sono diventate argomenti importanti e seri – o almeno sono trattati spesso in luoghi seri e con serietà – a cui vengono affidati l’espressione di valori e significati.
Mangiare è sicuramente un atto individuale, legato ai gusti e alle possibilità personali. Ma solitamente corrisponde a gusti e a scelte più ampie e condivise, che trovano spesso un preciso riscontro nell’economia e nella cultura (sapore è sapere), ed esprimono bisogni collettivi capaci di intervenire nelle dinamiche sociali.
Sgomberato il campo dal concetto di gastronomia come atto edonista riservato a una classe senza preoccupazioni, l’alimentazione è ormai riconosciuta come un atto potenzialmente etico. Temi come l’auto-produzione, l’agricoltura biologica e a chilometro zero, il boicottaggio alle produzioni industriali sono diventate azioni consapevolmente politiche; la scelta dell’alimentazione vegetariana e vegana, contiene un concetto di tolleranza, di non violenza e non sfruttamento di altre vite, che viene da molti sempre più esplicitamente coniugato con il pensiero libertario. Esistono produzioni alimentari dichiaratamente anarchiche (ad esempio i vini di Urupia) e Gruppi di Acquisto Solidale che si riconoscono nel movimento; i menù delle feste sono ormai preparati dai circoli con attenzione alla provenienza e alla gastronomia.
Senza dimenticare, nella pratica, che dove la cucina “tradizionale” sta diventando una scorciatoia per un discorso politico identitario, localista e conservatore, un approccio disincantato nei riguardi delle ricette codificate (spesso depositate presso i notai) e un occhio di rispetto verso le tradizioni dei nuovi cittadini da tutto il mondo, costituiscono sicuramente un approccio libertario disponibile al cambiamento e alla condivisione e costruzione dei sapori e dei saperi.
Andrea Perin
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Andrea Staid
Leggere gli anarchismi
“Uri Gordon ci ha fatto guardare il movimento anarchico con occhi nuovi. Egli illumina e ci fa mettere in discussione le nostre convinzioni di base, mette il dito dritto sui nostri dilemmi più dolorosi, e apre nuove prospettive di scelta e di comprensione’’.
Starhawk
autore di “Truth or Dare e “reti di potere”
Il libro consigliato (Anarchy Alive!, Anti-authoritarian Politics from Practice to Theory, Pluto Press, 2008) su questo numero purtroppo non è ancora uscito in italiano, ma per chi legge l’inglese è facilmente recuperabile su internet. Per Uri Gordon anarchismo e politica sono al centro dei movimenti radicali più vivaci e sociali di oggi. Dalle occupazioni dei centri sociali agli orti comunitari agli atti di sabotaggio. Tra i gruppi anarchici e le reti libertarie si sta diffondendo sempre più un ethos di azione diretta e organizzazione non gerarchica.
Anarchy Alive! è un affascinante sguardo in profondità sulla pratica e la teoria dell’anarchismo contemporaneo. Uri Gordon si basa su sette anni di esperienza di attivista e su interviste, dibattiti e una vasta selezione di letteratura recente per esplorare le culture, le attività e i programmi di formazione esplosivi del movimento anti-autoritario di oggi.
Anarchy Alive! affronta anche alcuni dei dibattiti caldi del movimento contemporaneo, utilizzando una teoria basata sulla pratica di rimodellare provocatoriamente discussioni anarchiche sulla leadership, la violenza, la tecnologia e il nazionalismo. Questo è un buon testo che consiglio a chi ricerca uno sguardo informato e critico sull’anarchismo, visto come una forza matura e dinamica e non dogmatica nell’era della globalizzazione.
Indice dei contenuti:
Introduzione
Cap.1 – Che cosa muove il movimento?
L’anarchismo come una cultura politica
Cap.2 – Reloaded Anarchismo:
convergenza delle reti e contenuti politici
Cap.3 – Potere e anarchia
Cap.4 – Bombe Pace, Amore e benzina:
Anarchismo e violenza Revisited
Cap.5 – luddisti, hacker e giardinieri:
l’anarchismo e la politica della tecnologia
Cap.6 – Patria: Anarchia e lotta unitaria in Israele / Palestina
Per comprare il testo
http://anarchyalive.com.
Andrea Staid
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Davide Pisani
Non denigriamo
la nostra natura!
Vi mando un commento al pezzo “Pensieri aperti ed ibridi” pubblicato su “A” 359 (febbraio 2011). Un po’ fuori tema ma spero possa esservi comunque utile.
Dire che l’uomo è un animale “biologicamente carente” non ha alcun senso. Mi piacerebbe sapere chi è questo Remotti e come quantifica l’insufficienza biologica umana.
Il fatto stesso che ognuno di noi è vivo indica che non siamo “biologicamente insufficienti”. Infatti, le nostre capacità biologiche ci permettono di sopravvivere benissimo, da Papua a NY alla Groenlandia.
Un po’ di sano materialismo sarebbe utile.
La cultura esiste solo come conseguenza delle eccezionali capacità di un organo (frutto dell’evoluzione biologica) che tutti gli esseri umani possiedono, anche se non tutti utilizzano. L’organo di cui sto parlando viene generalmente denominato cervello. Senza un cervello strutturato come quello degli esseri umani (e in parte come quello di altri primati – genere Pan- ) non c’è possibilità di comunicazione e non c’è cultura.
Non si può raggiungere risultati corretti se si parte da presupposti sbagliati.
All’interno della cultura libertaria si è sviluppato un pregiudizio anti-umano assolutamente anti-libertario, che sarebbe ora di sfatare. Gli esseri umani sono animali esattamente come lo sono i topi, gli scarafaggi e le spugne. E la storia della linea evolutiva umana esattamente come quella del rosmarino, del porcino, del verme solitario, dell’ameba, e di batteri unicellulari tipo Vibrio cholerae, va indietro circa 3,8 Miliardi di anni, visto che la vita compare una sola volta e siamo tutti più o meno cugini su questa roccia che chiamiamo Terra.
Questo implica che:
- La linea che ha portato all’essere umano vanta una storia lunghissima e certamente se i nostri antenati fossero stati biologicamente “inferiori” non saremmo qui oggi.
- Noi (umani) non siamo più evoluti di altri organismi
- Noi (umani) non siamo meno evoluti di altri organismi.
- Esattamente come il ratto, il verme solitario e la sequoia, noi umani siamo adattati al nostro ambiente (pianeta Terra).
- Esattamente come la formica, la sequoia, il verme solitario e la balena noi (umani) utilizziamo risorse e modifichiamo il nostro ambiente.
- Il modo in cui noi modifichiamo il nostro ambiente non è meno naturale di quelli in cui la volpe o il lupo o l’elefante o gli halobatteri utilizzano e modificano l’ambiente.
- L’evoluzione di solito agisce a “mosaico” la linea umana è sotto selezione (naturale) e per fortuna (o sfortuna – dipende dai punti di vista) nostra questo è risultato in un cervello con capacità di elaborazione superiori rispetto ad altri animali. Il camaleonte o l’erba medica si sono trovate sotto pressioni selettive diverse, e partendo da strutture organismiche diverse hanno sviluppato capacità diverse che gli consentono (esattamente come il cervello nel caso dell’uomo) di sopravvivere nel loro ambiente.
Quello che è vero è che, visto che per nostra fortuna (o sfortuna) l’azione selettiva ambientale è risultata, nel caso di noi umani, nell’origine di un cervello con capacità elaborativa elevata (maggiore che negli altri animali), piuttosto che nell’origine di una lingua lunga e collosa (come nel caso del camaleonte), noi umani abbiamo la capacità di modificare l’ambiente in maniera più drastica e queste modifiche ambientali hanno, nel corso dell’ultimo secolo, compromesso e messo a rischio gli attuali ecosistemi.
Siamo chiari, non che rischiamo di cancellare la vita dal pianeta, questo è delirio di onnipotenza visto che ci sono un sacco di organismi che tollerano condizioni per noi letali (e.g. Deinococcus radiodurans – che tollera la radioattività, o tutti quei batteri che respirano ferro – sì avete capito bene ferro –, mangiano metano – sì avete capito bene metano – etc... che non sono prodotto di folli esperimenti di genetica ma organismi che sono esistiti sul pianeta, tanto quanto noi, da 3,8 miliardi di anni circa), ma sto divagando ...
Dicevo, il cervello, questo incredibile organo che ci permette di elaborare informazione e produrre pensiero, questo fa la differenza tra noi e gli altri animali. Ma se questo non implica differenza di status (visto che siamo tutti legati, dal batterio all’uomo, da relazioni di parentela più o meno distante), implica che noi umani, con un cervello, dovremmo usarlo, e cercare di preservare il pianeta, questa per me dovrebbe essere l’Umanità Nova!
Non denigriamo la nostra natura, non denigriamo l’umanità per favore, che è cosa altamente inumana, ah come manca Camillo Berneri!
Best wishes.
Davide Pisani
The National University of Ireland Kildare (Irlanda)
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Andrea Guidantoni
Partire
dal singolo
Caro Andrea,
mi trovi sinceramente d’accordo con il tuo pensiero (Pensieri aperti e ibridi, in “A” 359, febbraio 2011), ma sono ancora più convinto che il progetto anarchico, rivelatosi a mio avviso un tunnel senza via d’uscita (e chiedo scusa per la mia scarsa fiducia nell’essere umano) non poggi ancora su una base certa. Per questo motivo l’anarchismo ha la necessità di essere studiato, pensato e infine applicato nelle più svariate forme, in forme infinite direi.
La base dell’anarchismo deve partire dal singolo, ancor prima che dalla collettività, visto che, così come ci troviamo d’accordo, l’anarchismo collettivo è un’utopia che probabilmente non troverà mai posto in questo mondo. E allora occorre partire da un progetto diverso, un progetto che sia sì instaurato dal singolo nella propria vita quotidiana, ma che non porti all’estraneazione dalla società. Occorre essere anarchici nella società civile, ecco tutto. Occorre giungere a un compromesso indispensabile, inevitabile anzi, per portare l’anarchismo nel mondo.
Occorre partire da un terzo tipo di anarchismo, che discende dall’anarchismo culturale e che approda a quello politico; è l’anarchismo dello spirito, quella categoria in cui è lo spirito a viaggiare libero, senza confini. Io parlo dell’anarchismo che fugge dal possibile, che non si arrende di fronte al pensabile.
Probabilmente, però, anche questa di cui parlo non rimarrà che un’utopia.
Andrea Guidantoni
Andrea Staid
Due risposte
Prima di tutto ringrazio in ordine sparso Davide Pisani, Andrea Guidantoni, Fiammetta Bonfigli, Andrea Breda e Andrea Perin per aver contribuito ad animare questa rubrica sugli anarchismi.
Vorrei puntualizzare l’affermazione non mia ma di Francesco Remotti (direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’università di Torino e presidente del Centro Studi Africani (CSA), ha guidato la Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale dal 1979 al 2004) che afferma che l’uomo è biologicamente carente.
Chiaramente concordo con Davide Pisani che la produzione di cultura, che crea l’uomo, avviene grazie al cervello, per questo penso ci sia stato un fraintendimento nell’uso dei termini. L’uomo ha necessità di definire le connessioni e le alternative che organizzano e danno un ordine alla complessità infinita del reale. Una necessità legata al fatto che l’uomo appunto è un animale biologicamente carente. “Affidato alle sue sole capacità biologiche, ben difficilmente saprebbe sopravvivere. La sua stessa sopravvivenza fisica – a quanto pare – richiede, e fin da subito, l’intervento della cultura” ( F. Remotti, Contro le identità, p.12).
La teoria dell’incompletezza biologica dell’uomo – teoria introdotta nelle scienze umane e sociali da A. Gehlen, “si traduce inevitabilmente in un carico vistoso assegnato alla cultura” (op. cit. pag. 13), ma ha un’altra implicazione non meno importante, che riguarda la “natura sociale del pensiero e delle emozioni” (op. cit. pag. 13): “buona parte dell’uomo (i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue inclinazioni) viene costruita socialmente.
Fin da subito, l’uomo va costruito; fin da subito occorre porre mano alla sua formazione a causa della “carenza” della sua natura biologica. Ma proprio perché queste costruzioni si verificano in ambienti sociali, variabili nel tempo e nello spazio, esse non possono non avere un carattere locale” (op. cit. pag. 16); “Completando culturalmente se stesso, l’essere umano non diventa un qualsiasi uomo, bensì un particolare tipo di uomo, culturalmente definito” (op. cit. pag. 17).
Queste poche righe per spiegare il perché ho usato nel mio articolo una citazione dell’antropologo Francesco Remotti.
Ci tengo a sottolineare che è lontano dal mio modo di vedere una visione anti-umana (di cui parla D. Pisani) nelle possibilità di un anarchismo contemporaneo e nelle sue pratiche di sovversione quotidiana.
Volevo affermare rubando le parole di Marshall Sahlins che “la natura umana è un grosso sbaglio occidentale”, la natura dell’homo sapiens è la sua cultura, anzi le sue culture, l’uomo si costruisce culturalmente grazie all’interazione con altri esseri umani. Ribaltando i rapporti gerarchici e autoritari tra esseri umani e non umani, agiamo su questa interazione e diamo inizio al cambiamento verso un mondo di liberi ed uguali.
Andrea Staid |