1. L’idea di allevare un figlio destinandolo ad una professione è malsana. L’idea di allevare un figlio destinandolo all’arte è malsana e patetica. Come ci sono i genitori che vogliono – fortissimamente vogliono – che il figlio, riscattando lo sa Dio che di se stessi e della propria storia, diventi ingegnere, così ci sono – più rari, d’accordo – i genitori che vogliono – fortissimamente vogliono – che il figlio, cui il sedere al caldo è garantito per dodici generazioni a venire, diventi artista. Si alleva un musicista, pertanto – e il pensiero corre al povero Mozart –, si alleva un pittore, si alleva uno scrittore. Con il che si contraddice ogni contenuto di libertà – non dico ancora di rivolta, dico semplicemente di libertà – dell’opera d’arte e, al contempo, si mina le fondamenta della convivenza umana con l’esplosivo sociale del privilegio.
Faccio un esempio in cui si dà il caso tutto particolare che chi ne discute – chi crede di parlare solo di altri – parla anche di se stesso.
2. La sera del 29 gennaio del 1882, lo scrittore Henry James riceve un telegramma: “Tua madre in gravissime condizioni. Vieni immediatamente”. Lui è a Washington, parte immediatamente per New York, ci arriva alle cinque del mattino.
3. Nei suoi Taccuini, Henry James annota la teoria di uno scrittore che muore proprio in quello stesso 1882, Anthony Trollope (1815-1882), “secondo la quale si potrebbe educare un ragazzo a diventare romanziere come per qualsiasi altro mestiere”. Trollope non teorizza per sentito dire, ma per esperienza personale. Lui ci ha provato: ha fatto di tutto per far diventare scrittore suo figlio, ma, a quanto consta a James, il progetto educativo, diciamo così, doveva avere qualche falla, perché il ragazzo, alla faccia del padre, era finito in Australia a fare l’allevatore di pecore.
Questo contrasto tra le ambizioni paterne e l’esito filiale a James procura un sacco di soddisfazioni, perché Trollope rappresenta per lui, al contempo, uno scrittore che detesta e uno scrittore celebre. Uno, insomma, al cui posto vorrebbe esserci lui.
4. Nei suoi Taccuini, Henry James raccoglie quello che, dal suo punto di vista di scrittore professionista, dovrebbe tornargli utile per il suo mestiere. Racconti e pettegolezzi carpiti tra una tazza di the e l’altra, non tanto episodi di vita altrui ma piuttosto episodi di vite raccontate da altri, frasi colte al volo, nomi, elenchi di nomi propri, di cognomi, nomi di località. Per lui si tratta di “germi”, “germi di storie”, “particelle nel flusso delle conversazioni”, suggerimenti accidentali, tutto ciò che raccatta è germe, da cui – invece che una malattia – potrà derivare il racconto conteso dalle riviste di mezzo mondo o il grande romanzo che lo renderà celebre e immortale. Ad una condizione, beninteso: che ad allevare il germe sia lui, perché, dice,“se l’accenno è fatto di proposito si può star certi che si è ricevuto troppo”. Il “soggetto” – il soggetto del racconto o del romanzo, l’intreccio giusto – starebbe soltanto “nel granellino infimo, nell’atomo di verità, di bellezza, di realtà”, che, ovviamente, è “quasi impercettibile all’occhio comune”. Con il che James difende il privilegio dello scrittore – non il suo conto in banca, un conto di famiglia, che gli consente di girovagare di salotto in salotto, di città in città e di Paese in Paese, di non dover far nulla per mantenersi e di dedicarsi anima e corpo alla gloria letteraria; non il conto in banca, ma una presunta capacità speciale nel saper cogliere, nel saper trovare sempre e comunque la perla da farsi propria nel letame altri.
5. Dai Taccuini di James emerge chiaramente la sua tecnica letteraria e il cinismo di cui questa tecnica è al servizio. Annota una frase, premettendogli: “In un racconto qualcuno dice”. Gli piace la frase, poi la userà da qualche parte. Gli raccontano un imbroglio umano fumettoso e melodrammatico e lui annota prontamente: “trattato con mano sicura, mi sembra che possa risultare estremamente veritiero, efficace e commovente”. Se, però, gli raccontano di una ragazza che, dopo mille traversie, sceglie di andare in convento, annota che lì sarebbe il caso di intervenire, cambiando la vicenda, perché, ormai, dice, quello del convento è “un argomento che mostra la corda”. Afferma di essere in grado di iniziare a scrivere sia partendo da una storia che da un personaggio, ma teme che, se partisse da quest’ultimo, il romanzo potrebbe risultare “troppo esclusivamente psicologico” – come se un personaggio potesse privarsi di una storia e una storia dei personaggi che l’hanno originata, come se non fossero correlati indissolubilmente.
Come spesso capita agli scrittori che non hanno nient’altro da fare, la sua attenzione, insomma, è concentrata sulla malleabilità del suo materiale in funzione del successo. I contesti di provenienza dei suoi germi, ai suoi “occhi non comuni”, non contano: nella sua concezione tutta meccanica della letteratura tutto può essere smontato e rimontato a piacere, secondo l’uzzolo del momento.
6. Arriva a New York alle cinque del mattino e il cugino gli spiega che, quando gli hanno mandato il telegramma, in realtà, sua madre era già morta.
La sua letteratura – la sua ? la letteratura in genere – è fasulla tanto quanto il telegramma che ha ricevuto. È una bugia convenzionale: sua madre è morta, ma gli si scrive che è gravissima. Si usa così nella presunzione che, vis à vis, si trovino più facilmente le parole necessarie per dirlo, pur sapendo benissimo che poi, quando ci si è, parole appropriate non ce ne sono mai. Si usa così nella presunzione di non dover mai dare origine a stati emotivi forti senza aver la garanzia di tenerli sotto il proprio controllo. Si usa così – anche – nella presunzione che, nominando esplicitamente la morte, il telegramma – un genere letterario tutto particolare ma non per questo privo delle ipocrisie specifiche del letterario – non otterrebbe il successo che merita. Un successo che, innanzitutto, viene decretato dal lettore nella misura in cui – non disturbandolo più di tanto – un po’ lo rassicura, un po’ lo consola e, soprattutto, gli lascia un po’ di speranza.
Felice Accame
Nota
Curatissimi da Ottavio Fatica, I taccuini di Henry James sono stati pubblicati
da Teoria, a Roma, nel 1996. Per la teoria di Trollope, cfr. pag. 34.
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