Qualche tempo fa, gironzolando in Internet, mi sono imbattuta nel sito di una giovane scrittrice, interessante. L’autrice ingaggiava una furibonda battaglia contro gli editori a pagamento stilandone addirittura una lista nera, con tanto di nome e cognome.
Apprezzo gli autori che si rifiutano di pagare un editore per farsi pubblicare, perciò ho pensato di scriverle. Nella mail le magnificavo le virtù dell’autoeditoria. Anziché delegare a un editore il compito di traghettarci al pubblico, le dicevo, noi autori e autrici faremmo bene a diventare editori di noi stessi, ciascuno creando la propria piccola casa editrice. Dobbiamo appropriarci, per così dire, dei mezzi di produzione, autogestirci.
La replica è stata una doccia fredda. Una casa editrice è una perdita di tempo, rispondeva lapidaria la ragazza. Sosteneva che bisogna fare come lei, che ha pubblicato attraverso un sito, Lulu.com, senza editore.
Cos’è Lulu? Dietro il nomignolo da ninfetta c’è un uomo, Bob Young. Canadese, è stato co-fondatore della Red Hat, società leader nel software open-source. Lulu è la sua creatura, una società privata fondata in America nel 2002.
Il sito è stato lanciato in Italia nell’ottobre del 2006. A differenza di altri, punta esclusivamente sull’autopubblicazione in web. Abile imprenditore, Young ha intravisto le possibilità di un affare planetario grazie a questo principio ispiratore: “Per noi il successo non è fatto da 100 libri che vendono 100 mila copie, ma da 100 mila libri che vendono 100 copie ognuno”.
I centomila titoli, stampati in cento copie ciascuno, corrispondono a centomila autori, ciascuno con cento copie del proprio libro autopubblicato con Lulu.
Dunque è uno dei tanti siti, il più aggressivo, che da qualche anno si moltiplicano nel web offrendo agli autori vari servizi editoriali, primo fra tutti l’autopubblicazione, o self-publishing.
C’è una concordanza universale fra questi siti sul modo di intendere l’autopubblicazione: è una soluzione per pubblicare e distribuire i propri libri effettuata direttamente dall’autore, senza l’intermediazione dell’editore. L’assenza di un filtro tra l’autore e il pubblico viene presentata come una conquista del progresso tecnologico, una vera e propria alternativa all’editoria tradizionale.
Per il resto, la competizione è fortissima e riguarda soprattutto la gamma dei servizi offerti. La progettazione grafica è il comune denominatore. Ma si propongono anche l’editing, la correzione di bozze, siti personalizzati, pubblicità in Internet, promozione di eventi, ufficio stampa, vendita on-line eccetera. In sostanza, tutte le attività connesse al lavoro editoriale vengono sottratte all’editoria tradizionale, parcellizzate e messe a disposizione degli autori in differenti combinazioni, con relativo tariffario.
Protagoniste di questa “editoria di servizio” sono le agenzie di servizi editoriali. Non si presentano con il volto dell’editore (il loro nome infatti non risulterà in copertina), perché non scelgono gli autori, pubblicano qualsiasi cosa. Non hanno l’ambizione di lasciare una traccia memorabile di sé, non gli importa di emulare un Feltrinelli, un Laterza o Einaudi. Ciò nonostante le agenzie pubblicano, come le case editrici. Precisamente, pubblicano attraverso gli autori che si autopubblicano. Il bisticcio di parole dipende dalla realtà dei fatti, ambigua. Nel lessico di queste agenzie i vocaboli “pubblicare” e “editare” cambiano di senso. Tradizionalmente, pubblicare e editare sono sinonimi: un libro si considera pubblicato quando esce da una casa editrice, che, acquisendolo, gli riconosce le qualità per meritare di essere proposto al pubblico. Ciò non è più vero invece con le agenzie.
Che cosa fanno le agenzie?
Le agenzie lavorano esclusivamente con il web. Il sito è il fulcro di questa editoria, allestito in modo da imitare quello di una casa editrice, con diverse collane, proposte di lettura, schede editoriali, eventi, novità, forum. Immancabile la community, luogo d’incontro virtuale per gli affiliati al sito dove scambiare opinioni.
Nel caso si sia interessati ad acquistare un libro, compare un carrellino da riempire come nelle case editrici vere. Il sito contiene dunque, virtualmente, un pubblico di lettori e un mercato, o almeno così si lascia intendere. La messa in scena è perfetta.
Questa “editoria di servizio” ha ricevuto uno slancio straordinario dall’evoluzione tecnologica degli ultimi anni, su questo non c’è dubbio. La stampa digitale è l’ideale per una clientela di autori che si accontenta di poche decine di copie e che non è in grado di spendere cifre da capogiro. Inoltre la possibilità di stampare on demand, cioè soltanto le copie richieste, libera chiunque dal rischio delle rese.
Ma è soprattutto l’avvento del web e del libro elettronico a segnare la svolta decisiva. Come è noto, una quantità illimitata di informazioni è accessibile in web a un numero vastissimo di utenti. E ogni utente di Internet può rendere pubblici i suoi contenuti a una platea sterminata di lettori.
Il libro elettronico, comparso dopo il 2000, ha fatto il resto. Esso conferisce ai contenuti in formato digitale una veste simile a quella del libro in cartaceo, ma ha il vantaggio che non richiede di essere stampato, l’ebook è immateriale.
Le potenzialità offerte dalla sinergia fra web, stampa on demand e libro elettronico sono state subito colte dalle agenzie di servizi editoriali che enfatizzano le qualità “democratiche” e “libere” del web, in contrapposizione alla rigidità monolitica dell’editoria tradizionale. Esse abbagliano gli autori, insofferenti verso l’editoria tradizionale, esaltando l’orizzontalità e la circolarità insite nella comunicazione in web. L’assenza di una struttura gerarchica viene spacciata per libertà. L’immediatezza del rapporto fra autore e pubblico, consentita dal web, viene sfruttata per far credere che un libro in Internet equivalga a un libro veramente pubblicato. Attraverso queste agenzie si diffonde, purtroppo, l’immagine di un’editoria che sembra libertaria e liberatoria, avvolta nell’allure del progressismo tecnologico. Si contrappone come “laica”, non-ideologica, ai dinosauri dell’editoria tradizionale. Fa strage di cuori fra i giovani combattendo al loro fianco contro il nemico comune, l’editore. Cavalca le battaglie contro il copyright. Rimette in circolo slogan della controcultura.
Le agenzie lasciano volentieri agli autori la patente di editori perché, tanto, essere editori non conta nulla.
La divisione del lavoro al loro interno è consona alla tecnologia del web, da cui peraltro sono generate, ed è molto diversa da quella dell’editoria tradizionale. Quest’ultima, legata alla stampa in cartaceo, ha il suo baricentro nella produzione industriale, dove il libro è un prodotto materiale. Tipografia, stoccaggio, trasporto, collocazione dei libri nei punti vendita, sono aspetti imprescindibili dell’editoria tradizionale, mentre mancano del tutto nelle agenzie, che volano leggere sulle ali dei software. Con i software di grafica si ottengono gli ebook; altri software vengono utilizzati per gestire la promozione, la vendita on-line, la stampa on demand presso qualche terminale.
Per queste sue caratteristiche l’editoria di servizio si colloca nel settore terziario. Le agenzie editoriali sono la variante terziarizzata dell’editoria a pagamento perché puntano sulla stessa clientela, cioè gli autori desiderosi di pubblicare. Ma, a differenza di quella, non hanno bisogno di nascondere la compravendita, perché non sono editori.
L’assalto alla diligenza
Il successo commerciale dell’editoria di servizio provoca un effetto-traino sull’editoria tradizionale, che teme di essere scavalcata e ne emula le strategie (1). È di pochi anni fa un libretto scritto da Sara Lloyd, dirigente della casa editrice inglese Pan Macmillan. Si intitola “Manifesto dell’Editore del XXI secolo”. Si rivolge agli editori per sollecitarli a ri-progettare la propria funzione alla luce delle trasformazioni che stanno sconvolgendo l’editoria. Pragmatica, operativa, l’autrice spiega come conservare il potere editoriale nella bufera tecnologica. Ne cito qualche passo.
L’avvento del web e del digitale, dice Sara Lloyd, vanifica il ruolo dell’editore quale “arbitro, filtro, custode, mercante e distributore” dei contenuti, in quanto spezza la linearità del processo (dall’autore al punto vendita) sostituendola con la circolarità propria della rete; impedisce di pensare al libro come a un prodotto finito (un “oggetto ben determinato all’interno di una copertina”) e lo impone piuttosto come luogo di una permanente trasformazione multimediale operata dai lettori-consumatori; disarticola la lettura come continuum, sostituendola con il search, cioè la ricerca. Ma soprattutto genera un nuovo tipo di consumatore, il prosumer.
Il termine prosumer, coniato nel 1980 da Alvin Toffler mescolando le parole inglesi producer e consumer, identifica la tendenza del consumatore a trasformarsi in produttore, sollecitato in questo da un sistema produttivo che, avendo ormai soddisfatto i bisogni fondamentali con prodotti standard, punta ora a vendere servizi sempre più personalizzati.
Attorno al prosumer si dipana la strategia propugnata da Sara Lloyd. Il prosumer infatti non si accontenta di essere soltanto lettore, vuole interagire. “Se c’è una cosa nel mondo del Web 2.0 che ha scioccato più di ogni altra le società dei media tradizionali, è il desiderio dei consumatori di produrre in proprio e condividere contenuti multimediali, piuttosto che (o in aggiunta al) restare passivi consumatori dei media governati dalle corporations (…), tutto testimonia del forte desiderio da parte degli individui di esprimere se stessi e la propria creatività e di condividere i propri prodotti col mondo intero attraverso il web”.
In questo mondo dove “i lettori sono anche scrittori e opinionisti che operano on-line all’interno di una rete e attraverso esse” diventa cruciale il controllo delle connessioni. Gli editori dovranno conquistare una posizione strategica per controllare e gestire le connessioni fra libro e fruitore, tra libro e libro, tra fruitore e fruitore. “Gli editori,” dice Sara Lloyd “se vogliono avere ancora un ruolo, devono collocarsi nel mezzo di queste conversazioni digitali, guidandone lo sviluppo”, devono “attivarsi nei luoghi digitali in cui i lettori possono discutere e interagire coi loro propri contenuti”; in altre parole, devono immergersi nella comunicazione web per dominarla (2).
Le community, i social network, sono il caposaldo di questo dominio. Gli autori desiderosi di autopubblicarsi sono i prosumers ideali.
La ragnatela di Lulu
Vale la pena allora di entrare nel sito di Lulu per sperimentare sulla propria pelle la condizione di prosumer. Con Lulu infatti l’autore può godere l’ebbrezza del “fai-da-te”. Guidato dal software, egli progetta il suo libro in un dialogo continuo con il sito. È un modello della relazione pervasiva fra l’autore e l’editore-che-non-c’è.
Nella Homepage si viene assaliti dai messaggi rivolti agli autori frustrati dalla vana ricerca di un editore che li pubblichi: “Fai emergere il tuo talento. Non dovrai più fare i salti mortali per trovare una casa editrice! Lulu elimina le barriere tradizionali della pubblicazione. Approfitta del mercato globale Lulu!”.
Nella stessa pagina c’è il pulsante “Inizia il tuo libro”, bello grande e a portata di mouse. Cliccandolo ci si trova subito a progettare il libro, titolo compreso. Ho scritto il primo titolo che mi è venuto in mente, Bizzarro Infernale, e sono andata avanti. Opzione dopo opzione ho selezionato la copertina (morbida o rigida), la rilegatura, la carta, il formato e così via fino al momento di caricare il file con il testo. Ho inserito un file con una sola parola e ho dato l’ok. È comparsa la scritta “Congratulazioni! ora sei un autore pubblicato!”.
Catapultati nel fare subito, facilmente si tralascia di cercare le informazioni necessarie per capire cosa si sta facendo. Queste informazioni sono contenute nei link. In controtendenza con il linguaggio laconico della progettazione, le spiegazioni nei link sono esageratamente lunghe. Ma non è detto che contengano l’informazione che cerchiamo. Così il link intitolato “Ulteriori informazioni sui numeri ISBN e la distribuzione” non dice la cosa più importante e cioè che il codice ISBN identifica l’editore e perciò, se si accetta il codice di Lulu, l’editore risulta essere Lulu, non l’autore. Dice invece che per vendere il libro “pubblicato” bisogna comprare un “pacchetto di distribuzione”.
In un altro link si apprende che il “pacchetto” serve per inserire il libro “pubblicato” nel data-base di Lulu, così diventa “disponibile” per le librerie on-line che ne facciano richiesta. Le librerie però non sono obbligate a richiederlo perché Lulu non ha un contratto di distribuzione con loro (di questo veniamo informati in un altro link). A questo punto sorge il dubbio che “pubblicato” non significhi “stampato” nel linguaggio di Lulu. Infatti. Saltabeccando fra i link si appura che il libro “pubblicato” viene stampato se qualcuno lo richiede. On demand vuol dire appunto questo: se nessuno lo domanda, il libro “pubblicato” rimane allo stato fetale della progettazione. Una larva, un fantasma. A meno che l’autore non ne acquisti, lui stesso, un tot di copie.
Ricapitolando: l’autore deve pagare per stampare il suo libro “pubblicato” e questo solo dopo aver pagato il “pacchetto” per venderlo.
Infine (ma l’elenco sarebbe lungo) l’autore non può mettere in Internet il suo libro, scaricabile gratuitamente, può solo venderlo. Lulu infatti ha diritto al 20% del guadagno su ogni libro venduto e non vuole rinunciarvi; ecco perché il prezzo di copertina viene determinato automaticamente nel corso della progettazione e non è modificabile. L’autore non può nemmeno vendere a prezzo scontato, senza il consenso di Lulu. Di fatto, l’acquisto del pacchetto equivale a un contratto. Ma questo non si capisce se ci si ferma allo slogan: “Vendi il tuo libro e ti tieni l’80% degli incassi!”.
Si sudano quattro camicie per ricomporre il puzzle (3). Mentre in un discorso, svolto da cima a fondo, incoerenze e omissioni saltano agli occhi, con i link non c’è pericolo che questo accada perché sono frammentari, privi di un filo logico comune anche se tecnicamente sono connessi. Ci si aggira fra i link senza riuscire a stabilire una gerarchia di informazioni, un ordine di importanza. Le informazioni che Lulu vuole tacere sono collocate nell’ultimo link, al quale si arriva stremati, e dove compare la scritta “Spiacenti, la pagina è in costruzione”.
Perché editare se stessi?
Ho conosciuto più di qualcuno che ha “pubblicato” con Lulu o con agenzie editoriali. Questi scrittori ritengono di essere autoeditori perché hanno deciso loro (non l’editore) la copertina, la carta, la rilegatura eccetera. Perché si sono fatti l’impaginazione da soli.
Pensano che pubblicare in questo modo sia conveniente. Se avessero pagato un editore, dicono, avrebbero speso di più. Finalmente hanno ottenuto il loro libro e sono contenti.
A me non interessa trovare un modo per risparmiare. Voglio poter decidere autonomamente ogni aspetto del processo editoriale. Ho una volontà di autodeterminazione. Perciò faccio editoria, oltre a scrivere i miei libri. Non evito gli editori: io sono l’editore.
Ma soprattutto, non identifico nell’editore in sé l’origine dei mali che affliggono gli autori, vado a cercarla invece nel rapporto fra libertà e potere: coloro che hanno il dominio sulla comunicazione hanno il potere di escludere gli autori.
Questo punto di vista mi permette di riconoscere un potere minaccioso per la mia libertà anche dove l’editore non c’è.
Con i siti come Lulu la mia libertà è ridottissima. Le decisioni che contano sono prese dall’azienda-Lulu. Il fatto stesso che tutto ruoti intorno alla vendita del libro (il libro viene pubblicato solo se è richiesto), impicca il mio libro a una logica di mercato che non condivido. È ovvio che se pubblico con Lulu, la sua logica diventa la mia.
Allo stesso modo, partecipare a una community creata da un’agenzia so che nuoce alla mia libertà: proprio nella community infatti l’orizzontalità della comunicazione del web si incrocia con la verticalità del controllo sulla comunicazione esercitata dall’agenzia stessa.
Altrettanto diffido dell’editore del futuro prefigurato da Sara Lloyd, che “interagisce” con i prosumers compenetrandosi ai loro bisogni e che parla il loro linguaggio; che si mimetizza in un contesto aggregato per “affinità elettive” e “amicali” plasmato dall’editore.
La necessità di editare di se stessi nasce dalla constatazione, ovvia, che la libertà soggettiva di esprimersi, specifica dell’autore, è in relazione con il potere di qualcun altro di impedirla o di condizionarla. Questa libertà “autoriale” è tanto più ampia, quanto minore è il condizionamento che subisce. Azzerare il condizionamento è l’obiettivo dell’autore che si appropria degli strumenti dell’editoria (4).
Il cuore pulsante dell’autoeditoria è perciò il sentimento della libertà nel suo respiro politico, non circoscritta al bisogno solo “autoriale” di esprimersi; è specificamente libertaria perché identifica nell’antagonismo tra libertà e potere il suo nucleo vitale. Perché si propone come modello (o meglio, persegue un ideale) che contenga in sé l’antidoto contro il rischio che si rigeneri, al suo interno, una nuova forma di potere.
Se l’autoeditoria non è questo, non vale la pena di farla. Qualsiasi altra soluzione è meglio.