MG: Toni, tu segui le problematiche relative alla gestione della risorsa idrica da parecchio tempo da un punto di vista libertario. Negli ultimi anni, anche in Italia, l’acqua è sulla bocca di tutti e la risorsa idrica ha catalizzato l’attenzione della politica causando poi la reazione dei cittadini che hanno costruito comitati, cominciando ad interagire con il potere politico e le sue scelte attraverso proposte legislative d’iniziativa popolare e il recente referendum. Perché l’acqua è così importante?
AS: In effetti, non a caso si parla dell’acqua in termini di “oro blu”, perifrasi che sta entrando nel linguaggio comune e che è usata anche in diverse pubblicazioni. Perché l’acqua è, effettivamente, una cartina al tornasole delle dinamiche del capitalismo contemporaneo. Le autorità, imprenditoriali e statali, hanno capito da tempo che mettere a valore la natura, quelli che vengono chiamati “beni comuni”, è una ulteriore tappa del processo capitalista. A essere comprati (“privatizzati”) e messi a valore (“gestione dei servizi”) sono la terra, l’acqua, la stessa aria. L’acqua – evidentemente – è qualcosa di assolutamente necessario per ogni essere vivente. Senza acqua non c’è vita, va da sé. A essere messa sotto “il giogo del capitale” è quindi la possibilità stessa di vita. In altri termini il capitale colonizza i beni comuni: siamo oltre l’imperialismo, ma la logica è esattamente quella. Se l’acqua è così centrale per la vita sul pianeta si comprende quanto grande sia il business dietro a essa, ma anche quanto potenzialmente forti possano essere le resistenze a questo processo di privatizzazione. Su questo termine è bene intendersi: per privatizzazione si deve intendere “messa a valore”, mercificazione, non solo il fatto che la gestione sia affidata ai “privati” e non al “pubblico”. Privato e pubblico operano con la stessa logica di profitto: tale distinzione è quindi artificiosa e coglie solo in minima parte il nocciolo del problema.
La possibilità di accesso all’acqua potabile è uno dei tavoli su cui si gioca la partita tra le borghesie internazionali e i miliardi di poveri che popolano il pianeta. Una faglia, una frattura di classe che attraversa sia il globo, nel quale “i nord” mirano a detenere il monopolio sui beni comuni – e l’acqua in particolare – tenendo a distanza “i sud” saccheggiati e impoveriti, sia le società occidentali al loro interno. Per quanto riguarda l’accesso all’acqua, come per tutti gli altri standard di vita, le classi subalterne occidentali sono quindi tra due fuochi in un certo senso. Sfruttano, oggettivamente, i milioni di proletari dei sud, e subiscono una discriminazione a opera delle borghesie nel luogo dove risiedono. Sia detto per inciso: utilizzo le categorie di classe a ragion veduta. Nonostante ci si sforzi, anche in campo anarchico, a cercare altre categorie, sono le stesse persone a definirsi nuovamente tali, a sentirsi oggettivamente “proletari”, in un contesto di crisi economica che polarizza le differenze sociali.
MG: Stai dicendo che la risorsa idrica rientra a pieno titolo in un processo generale di privatizzazione delle risorse naturali e quindi s’innesta nel conflitto tra le élites economiche e politiche e i semplici cittadini nei paesi occidentali ma anche, a livello mondiale, tra nord e sud del mondo. D’altra parte, gioca un ruolo anche il fatto che l’acqua è in qualche modo speciale perché indispensabile alla vita e sempre più scarsa a livello globale?
AS: Certo. Di fronte a questa problematica i catastrofisti si chiedono: come faremo a sopravvivere? I “furbi” rispondono: bisognerà farla pagare l’acqua e molto: solo così ne verrà usata di meno, e “ci salveremo”. Oggi un miliardo e mezzo di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile e, secondo le proiezioni, saranno almeno due miliardi nel 2020. Per provare a rimediare a ciò, e qui la malafede è evidente, gli organismi internazionali si sono prefissi, sin dal primo importante evento specifico sul tema, la Conferenza sull’acqua di Mar de la Plata del 1977, di mutare la “tendenza allo spreco insita in ogni individuo”. Ciò parte dal presupposto che siano i singoli consumatori – e tra questi in particolare gli abitanti delle grandi metropoli dei “vari sud” – i maggiori responsabili della crisi idrica attuale. Da qui prendono quindi il via i processi di mercificazione dell’acqua. Privati o pubblici che siano i gestori hanno lo stesso obiettivo: il “recupero totale dei costi” (full cost recovery), ovvero: il prezzo pagato dal consumatore deve coprire le spese della gestione complessiva del servizio. Ora, è la stessa Banca mondiale a indicare i metodi migliori per garantire ciò.
Tra questi uno davvero interessante è l’installazione di contatori prepagati nelle abitazioni, uno strumento che è il punto più avanzato della messa a valore dell’acqua. Funziona come una scheda ricaricabile di un telefonino. La si carica e inserisce nel contatore. Quando il credito termina, finisce anche l’erogazione dell’acqua. I contatori sono usati in molti paesi del Sud, in diversi continenti e in particolare nelle borgate degradate delle grandi città e hanno provocato tanti lutti e resistenze. Il contatore prepagato è uno strumento, micidiale, nella guerra globale e permanente contro i poveri. In realtà, tale politica di guerra non porta nessun beneficio alle sorti del pianeta. In Sudafrica, l’uso domestico di acqua delle comunità urbane povere costituisce il 2% del consumo totale di acqua. Commercio e industria – settori nei quali non viene applicato il full cost recovery né vengono usati i contatori prepagati – ne consumano invece più del 50%.
La retorica delle Nazioni Unite e dei vari organismi nati per “difendere l’acqua” o meglio – come dicono – “per garantire l’acqua alle generazioni successive” fornisce il substrato per il dispiegamento dell’attività del capitale in tutta la sua voracità. Viene detto che per salvaguardare l’acqua i consumi urbani vanno diminuiti, ma essi in realtà non incidono pressoché nulla sui consumi totali. La realtà è che “i venditori di acqua”, in particolare le grandi multinazionali ma anche tutti quei sistemi di “partecipazione pubblico-privato” e anche molti “pubblici”, possono così far pagare cara la loro merce, l’acqua, qualcosa che dovrebbe essere in realtà di tutti.
Ragionare con lucidità
MG: Come viene messa in pratica in Italia questa strategia di “valorizzazione” della risorsa idrica e come nasce il movimento che segue queste problematiche?
AS: Quando si fece il primo forum per l’acqua nel 2006 a Roma erano in pochi a seguire la questione. Ora è sulla bocca di molti, e questo è sicuramente un bene. Siamo chiamati tuttavia a ragionare con lucidità, provando ad andare oltre ad un’analisi superficiale.
Il settore pubblico, lo Stato e i poteri locali non hanno più il monopolio della gestione dell’acqua dalla legge Galli del 1994. Dalla Toscana alla Sicilia, dal Lazio alla Lombardia i processi di privatizzazione in atto sono frequenti, ma la maggior parte delle aziende di gestione del sistema idrico create a seguito della legge Galli sono ancora a partecipazione pubblica, in molti casi totale, in altri solo parziale. Le cosiddette “multiutility” sono quotate in Borsa e i Comuni sono ancora presenti nel capitale, come è lampante ad esempio nei casi di Iren, A2a, Acea.
Questa messa a valore – che include anche processi di privatizzazione tout court – ha portato, lì dove essa è in atto da un po’ di tempo (ad esempio in Lazio e Toscana), ad un aumento delle tariffe, un peggioramento della qualità dell’acqua e degli standard del servizio. Quindi, da una parte i gestori sommano profitto al profitto e, dall’altra, due italiani su dieci non dispongono oggi di servizio fognario e, in varie zone, da un rubinetto su due non esce acqua depurata. Inoltre il sistema degli acquedotti è ridotto in condizioni pessime, con perdite e sprechi che superano mediamente il 50% delle acque immesse, una captazione per uso industriale e agricolo che continua ad aumentare. Ora, si calcola che i lavori per risistemare le falle (vere e proprie) della rete idrica costituiscano un business da oltre 60 miliardi di euro nei prossimi trenta anni, che saranno finanziati in grandissima parte facendo pagare bollette sempre più salate.
In questo quadro la strada da seguire mi sembra inevitabile: una volta che delineiamo i contorni di quella che è una rapina conclamata, o subiamo, o ci opponiamo attivamente anche attraverso azioni concrete, quali il boicottaggio dei contatori e l’autoriduzione. Altre vie efficaci, per salvare il nostro potere d’acquisto a fronte di bollette che crescono e cresceranno in maniera vertiginosa, non ne vedo.
Da un punto di vista più generale chi si oppone alla “messa a valore” dell’acqua è chiamato a ragionare sul concetto di pubblico. La resistenza contro la privatizzazione e per un recupero del concetto di “interesse pubblico” non si può limitare ad un cambiamento da una gestione privata ad una pubblica statale. La lotta contro la privatizzazione va portata avanti insieme alla definizione di un nuovo concetto di pubblico, autogestionario e non statale. Il pubblico statale del resto o gestisce il servizio idrico con lo stesso obiettivo del privato, ovvero massimizzare il profitto, oppure – e non si sa cosa sia peggio – decide deliberatamente di non investire, spianando quindi la via per un’entrata del privato, come è avvenuto in Italia dalla Legge Galli del 1994 a oggi.
MG: Al fine di definire un possibile approccio anarchico alternativo sia alla privatizzazione della gestione che alla vecchia gestione burocratica pubblica, quale ritieni potrebbe essere il nostro contributo al movimento che si è formato in Italia negli ultimi anni e che ha scelto la via del referendum e dell’iniziativa legislativa popolare?
AS: Chi si batte contro la messa a valore dell’acqua non può eludere il vero obiettivo: un controllo diretto, popolare e quindi veramente pubblico, del servizio idrico. La “partecipazione” che teorizzano alcuni esponenti del movimento per l’acqua pubblica non vuole dire altro che la presenza di qualche sindaco nelle assemblee di gestione del servizio, e la pubblicazione delle statistiche di detto servizio nel sito del comune. Ci basta? A me pare più che altro un palliativo che rischia di sviare dal problema. Non mi sembra molto differente la proposta di legge di iniziativa popolare per ri-pubblicizzare l’acqua. Essa presenta due ordini di problemi: mira ad un ritorno a un “pubblico statale” sui cui non si può logicamente fare nessun affidamento e ha la grossa pecca di delegare ancora una volta ai (finti) tecnici della politica la risoluzione di problemi complessi.
Oggi la conoscenza di tali meccanismi complessi di gestione del servizio è diffusa nella popolazione. L’autogestione e il controllo diretto sono possibili e sono del resto gli unici mezzi che potrebbero garantire il cosiddetto “uso civico” dell’acqua. Le fonti e le sorgenti sono di proprietà della collettività, ovvero di nessuno: esse sono un bene comune da cui trarre un beneficio comune. Questo è il concetto di uso civico, qualcosa di conosciuto e sempre praticato da tutte le civiltà, ma oggi rivoluzionario.
I libertari possono dare un contributo importante a una lotta per un reale cambiamento nella gestione del servizio idrico, della cosa pubblica e, in buona sostanza, della vita di ogni individuo e della comunità di cui fa parte.
MG: Sui princìpi autogestionari che hai enunciato penso nessun libertario avrà da obiettare ma una possibile strategia che realizzi questo tipo di cambiamento non è ancora stata definita con chiarezza e, quindi, lo scetticismo sulla possibilità di autogestire situazioni complesse come quelle a forte urbanizzazione ancora sembra prevalere all’interno dei movimenti per l’acqua (vedi anche intervista a Martinelli sul numero di maggio). Come pensi si possa superare questa impasse?
AS: Proporre una soluzione pratica a tale questione è molto difficile. C’è infatti un problema “logico” ed è normale che sia così. Provo a spiegarmi: evidentemente è estremamente difficile praticare un’autogestione completa del servizio idrico nel contesto attuale. Il problema non è solo culturale (la mancanza di immaginazione) né sociale (la mancanza di risorse), ma politico o, per essere più precisi, legale. Oggi infatti non è ammessa una forma societaria che non persegua il profitto; gli stessi enti pubblici hanno questo vincolo di scopo. Costituire delle cooperative, anche a proprietà indivisa, che comprino i “beni comuni” o competano nella “gestione della cosa pubblica“ può sembrare una tattica efficace, ma non è una soluzione perché i vincoli legislativi, ancor prima di quelli economici, ne rendono vano lo sforzo. La società attuale si basa sul diritto di proprietà dei beni comuni – quali acqua, aria, terra, case – e dei mezzi di produzione, alimentato dal potere legislativo e da modalità esecutive ad “unità di comando” e sbarra quindi costitutivamente il passo all’autogestione.
Dare vita a forme di autogestione complessiva delle “cose pubbliche” implica una dimensione conflittuale con il potere costituito. Eppure tutto ciò è tecnicamente e culturalmente possibile e, per gli anarchici, necessario per vivere una vita davvero degna. Ad autogestire l’acqua, l’aria, l’energia ecc. devono cioè essere gli stessi diretti interessati, cioè ognuno di noi a livello territoriale, di comunità, in forma collettiva e assembleare. Così come nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli ospedali, allo stesso modo nell’ambito di servizi come quello idrico sono i lavoratori e “gli utenti” a fare funzionare le cose, abbattendo nella pratica la divisione di ruolo tra produttore e consumatore. Ora, in una dinamica di conflitto sociale in grado di realizzare spazi di contro-potere, si possono creare precondizioni per l’autogestione che prendono la forma di “sperimentazioni prefiguranti”.
È quello che è successo a Cochabamba, in Bolivia, nel 2001. Un caso eclatante a cui se ne sono affiancati molti altri negli ultimi anni in diverse parti di quei tanti sud del mondo – dal Sudafrica all’India – dove la battaglia per l’acqua è lotta per la vita. È quello che succede nei comitati territoriali di lotta per i beni comuni, contro le nocività e le devastazioni ambientali che nel silenzio dei media ufficiali continuano da anni il proprio lavoro coinvolgendo un gran numero di persone critiche nei confronti di questo modello di sviluppo gerarchico e affamatore.
Una soluzione intermedia e assolutamente preziosa è quindi partecipare o dare vita a comitati territoriali, sperimentando in questi ambiti il nostro agire anarchico. Nonostante la vittoria referendaria di giugno, gli appetiti dei privati e dei tanti “pubblici” quotati in borsa non si sono fermati. È quindi necessario rafforzare l’opera di vigilanza e le dinamiche assembleari, allargando progressivamente l’ambito di indagine e influenza dei comitati sugli enti di gestione: per fare ciò è utile come anarchici impegnarsi ad intensificare il dialogo con tutti coloro che si oppongono alla privatizzazione dell’acqua. Dal canto nostro possiamo mostrare loro come sia possibile autogestire il servizio idrico a livello teorico e pratico, sperimentare quelle pratiche di autogestione che seppur limitate sono possibili nel contesto attuale e insieme lottare per una trasformazione radicale degli assetti decisionali nella società, demolendo con la prassi quotidiana la piramide gerarchica e la delega permanente al politico di turno.
La vittoria dei sì: un fattore positivo in sé?
MG: La posizione anarchica che hai appena descritto sulla gestione idrica mi pare che soffra di una problematica che vale anche in generale: mentre noi spieghiamo che l’autogestione è il non plus ultra ma che purtroppo non può essere realizzata nel sistema attuale, il capitalismo privatizza e spoglia le risorse pubbliche in un contesto di scarsa opposizione radicale. Se e quando qualcuno cerca di reagire utilizzando gli strumenti che l’attuale sistema prevede, gli anarchici sembrano opporre la posizione di puro principio che presuppone di rivoluzionare tutta la società prima di poterne riformare un aspetto per quanto cruciale. Io trovo che questa sia la debolezza massima del nostro approccio, cosa ne pensi?
AS: L’autogestione, seppure in forme limitate e sempre sperimentali, può essere praticata. Le dinamiche di autogoverno si affermano nelle assemblee che discutono la questione idrica, nei comitati, nelle associazioni ambientaliste, nei gruppi locali ecc. Quindi è solo parzialmente vero affermare che l’autogestione non possa essere realizzata nel sistema attuale. Dobbiamo lavorare su quei frammenti, per così dire, di autogestione esistenti e possibili, approfondirne e generalizzarne le dinamiche, trasformare i frammenti in fratture e allargarle fino alla demolizione dell’edificio nel suo complesso. Questo edificio, passami la metafora, è edificato sui “soliti” due piloni: lo Stato e il capitalismo. Per quanto concerne l’argomento acqua, è evidente che la depredazione della risorsa, al fine dell’ottenimento del profitto, sia stata e sia portata avanti tanto dal pubblico quanto dal privato. Onestamente, pur apprezzando l’impegno dei comitati referendari, non ho giudicato la vittoria dei SI come fattore positivo in sé.
Mi spiego: sappiamo che da un punto di vista tecnico qualsiasi governo può scrivere una nuova legge favorevole alla privatizzazione, ed è quello su cui si sono impegnati governo e industriali fin dalla stessa domenica del referendum. L’architrave di un eventuale “nuovo” sistema di gestione varato dai governi sarà sempre il triste full cost recovery: i servizi si pagano e le tariffe devono coprire tutti i costi. Senza contare che in diverse zone le concessioni ai privati scadono tra almeno un decennio. La vittoria referendaria rischia di contare assai poco in realtà.
Bisognerebbe quindi capire come potere mettere il nemico all’angolo, come far crescere una forza popolare in grado di costringere davvero i vari Ambiti Territoriali Ottimali a recedere i contratti con i privati e ad abbandonare il full cost recovery.
Io non oppongo una posizione di “puro principio” verso chi utilizza gli strumenti previsti dal sistema. Sono convinto che nella pratica usarli sia una scelta perdente, che non giova a nessuno, e che il tavolo da gioco sia truccato. In più a me pare che nella maggior parte dei votanti subentri una questione di ordine psicologico per cui “fatto il proprio dovere” mettendo la crocetta sul SI, si è convinti di avere deciso che “l’acqua è pubblica” o addirittura che “l’acqua è un bene comune”. Siamo molto lontani da tutto ciò. Solo la mobilitazione in prima persona può farci raggiungere risultati concreti e duraturi.
MG: Ringrazio Toni per aver condiviso le sue riflessioni su questo argomento e per lo sforzo effettuato per cominciare a riempire di contenuti una possibile strategia libertaria sulla risorsa idrica che spero possa essere raccolta come spunto iniziale dalle compagne ed i compagni per ulteriori elaborazioni. Dal mio punto di vista, ho sempre ritenuto che la strategia referendaria e legislativa popolare fossero insufficienti e avevo già auspicato che dopo il referendum continuasse ad esserci un rifiuto della delega ad “esperti e politici amici” per sviluppare un approccio realmente autogestionario. Infatti, sarebbe fondamentale mantenere la pressione sull’acqua al fine di sviluppare strategie d’intervento popolare basate sull’azione diretta e ritengo che i libertari abbiano potenzialmente un ruolo fondamentale per contribuire ad un diverso immaginario collettivo (in cui l’autogestione è possibile) e ad un percorso di lotta che sappia raccordarsi alle energie mobilitatesi per la lotta referendaria.
Marco Gastoni