In apertura del suo saggio L’etica in un mondo di consumatori (Laterza, 2010), Zygmunt Bauman racconta di un gruppo di ricercatori della Zoological Society di Londra che si reca a Panama per studiare la vita sociale delle vespe locali. Il pregiudizio che si pensava dovesse essere confermato dagli esiti della ricerca, tra l’altro, era che ciascun insetto non avesse altro limite spazio-temporale che quello del proprio alveare, nel quale ogni componente nasceva, cresceva e si votava alla funzione che gli era assegnata. Non c’era, quindi un esterno che non fosse la ricerca del polline.
Fu grande, quindi, la sorpresa quando i costosissimi sensori applicati alle vespe dimostrarono una realtà molto diversa. Esisteva un nomadismo diffuso di insetti che si trasferivano da un alveare all’altro senza che il trasferimento creasse alcun problema, né all’alveare di partenza né a quello di arrivo. Nella nuova comunità la vespa nomade si inseriva senza alcun problema, pronta a fare la sua parte a vantaggio di tutti.
Dimostrazione assai significativa di una società – quella delle vespe panamensi – mobile ed accogliente, disposta ad esplorare oltre i confini natali e ad accogliere senza preclusioni il diverso.
Mi torna in mente l’incipit di questo saggio di Bauman per rilevare come le nostre società evolvano purtroppo in senso inverso. Le nostre comunità sono sempre più chiuse: si riducono all’essenziale le relazioni, spranghiamo le porte nella convinzione di proteggere il nostro privato da un esterno percepito ostile. La società dei consumi, la globalizzazione che esalta gli egoismi ci hanno reso arcigni e diffidenti: avvertiamo il nostro prossimo come un’entità pericolosamente incline a sottrarci qualcosa, a minare la quota per quanto precaria del nostro stato.
Sono cadute le residue illusioni sulla praticabilità dei nostri sistemi giuridici e sociali: la democrazia, questo apparato di norme che avrebbe dovuto espandere progressivamente gli spazi di libertà e di giustizia per tutti gli individui dell’Occidente industrializzato, arranca da oltre due secoli, mai realmente compiuta, costantemente rivisitata da regimi politici più o meno oppressivi, le cui esigenze di sopravvivenza divergevano e divergeranno sempre più nettamente dallo spirito dei costituenti.
Il fatto è – ed è sotto gli occhi di tutti – che la deriva liberista, con la divinizzazione del mercato, la competizione senza regole, la proliferazione delle rendite parassitarie, di posizione o puramente speculative, ha esaltato tutte le forme di egoismo, individuale e collettivo, rendendo l’individuo sempre più ostile verso il prossimo, un prossimo che preme ai confini della comunità d’appartenenza o anche semplicemente alla porta di casa.
In questa condizione psicologicamente annichilente di ghettizzazione generalizzata nella quale i singoli e le collettività ai sentono costantemente sotto assedio, è inevitabile che saltino anche le più normali regole della convivenza e si frantumino i rapporti tra la base sociale e le istituzioni, senza peraltro che lo strappo sia in grado di produrre forme nuove e credibili di aggregazione.
Il triste inventario delle vittime
Ciò è tanto più vero in società bloccate come sono ormai quelle dell’intero Occidente. L’esempio paradigmatico di questo assunto è la crisi che attraversiamo e che non risparmia nessuno dei Paesi di matrice liberal-democratica.
Sul piano della gestione delle risorse il disastro non potrebbe essere maggiore. È certamente vero che una quota della popolazione del pianeta ha vissuto stagioni di apparente prosperità, ma, intanto, stiamo parlando, nel più ottimistico dei casi, solo di 800 milioni di baciati dalla fortuna sui 6 miliardi e più di abitanti che popolano il nostro mondo; poi, se si valuta con il respiro lungo della storia, si è trattato di un benessere che ha finito con l’esaltare i conflitti sociali, provocando sacche immense di povertà e danni irreversibili all’ambiente.
Sul piano delle dinamiche economiche, il mondo occidentale si è avvitato in una spirale nella quale le crisi cicliche, inevitabili, producono tentativi di arginamento che, nel medio periodo, peggiorano progressivamente le condizioni complessive del sistema: dalla crisi petrolifera del 1973 sino all’ultima, finanziaria, del 2007 è stato un costante deteriorarsi delle condizioni economiche e sociali dei Paesi del Vecchio e del Nuovo mondo capitalistico. I circa 70 milioni di disoccupati che lamentano l’America e l’Europa producono una crisi dei consumi che deprime gli apparati produttivi e innesca processi recessivi che si mordono la coda. D’altra parte, il tentativo di invertire la tendenza con l’immissione di risorse finanziarie di riserva (accumulate, cioè, per arginare eventuali emergenze regionali) rischia di produrre derive inflattive non controllate che, a loro volta, sono destinate a deprimere ulteriormente il contesto. Il criterio di soccorrere le banche per consolidare il loro stato patrimoniale e metterle in condizione di esercitare correttamente il credito, avrebbe senso se gli apparati produttivi richiedessero in questa fase risorse per moltiplicare le loro produzioni con aggiornamenti tecnologici e con politiche di ampliamento del mercato. Ma, intanto, i tassi ai quali le banche offrono credito sono dovunque esorbitanti e poi – fattori determinanti – i mercati interni dei singoli Paesi a regime capitalistico non sono più in grado di assorbire le produzioni già esistenti e i mercati esteri sono sempre meno accessibili per il rapido adeguamento della produzione autoctona di beni e servizi per sopperire alle esigenze delle singole popolazioni.
È possibile che anche questa volta – è difficile pronosticare il quando – si riesca ad arginare la crisi e ad evitare il collasso dell’intero sistema, ma, intanto, ci tocca tenere aggiornato il triste inventario delle vittime e – quel che è peggio – valutare i debiti, in termini di sostenibilità del sistema, ma, soprattutto, di degrado morale e sociale, che lasciamo in eredità alle nuove, prossime generazioni. I guasti che in questi ultimi cento anni abbiamo provocato col nostro modo, perverso, di stare al mondo, sono difficilmente quantificabili e, quindi, è impossibile determinare in quanto tempo una prossima generazione virtuosa – ammesso che sorga e che ponga mano immediatamente ad invertire le nostre tendenze – riuscirà ad avviare il percorso per modelli di aggregazione diversi e sperabilmente migliori degli attuali.
Certo, se pensiamo alle scorie e ai livelli di inquinamento prodotti nell’ambiente che abbiamo abitato, le previsioni, stando allo stato attuale della ricerca scientifica e tecnologica, non possono che essere annichilenti. Pensiamo soltanto ai secoli che occorrono per esaurire le emanazioni mortali dei residui delle fusioni nucleari, della desertificazione di intere aree del pianeta, della deforestazione selvaggia, dell’inquinamento degli oceani e della scomparsa di intere specie animali dovute all’opera dell’uomo, pensiamo a tutto questo e vediamo se riusciamo a guardare i nostri figli senza essere costretti ad abbassare gli occhi per un irrefrenabile senso di colpa.
Il ‘68 occasione perduta
Da anarchico, mi sento più in colpa del resto del mondo, perché molti dei guasti che sono sotto gli occhi di tutti erano stati previsti dai nostri Maestri, la cui lotta contro ogni forma di potere includeva la necessità di realizzare forme di solidarietà che impedissero i conflitti per la sopravvivenza e il proliferare perverso delle ideologie, laiche e religiose, principali responsabili di un mondo che esclude qualunque forma di diversità ed esalta presunte supremazie razziali e identitarie.
La mia generazione ha certamente perduto un’occasione irripetibile per rivisitare criticamente l’assetto borghese della società nel corso di quello straordinario movimento di rivolta che fu il Sessantotto. A molti di noi era parso che si stesse imboccando un percorso – di pensiero e di azione – volto a scardinare principi consolidati di una società profondamente ingiusta, oppressiva, sempre più orientata a restringere gli spazi di libertà, incline a ridurre i cittadini ad una sorta di pozzo senza fondo da cui rastrellare risorse per mantenere una struttura di potere che, oltre ad essere per definizione corrotta, navigava a vista, rimodulando liturgie ormai fuori dal tempo a sostegno di dinamiche economiche capitalistiche ingiuste e contraddittorie.
In realtà, avevano sottovalutato la capacità del sistema di rigenerarsi proprio con l’apporto di frange consistenti del movimento attratte dall’idea che, occupando in qualche modo gli spazi offerti loro dalle istituzioni, potessero modificare dall’interno le strutture di potere. Che gli anarchici avessero capito il giuoco e non avessero risposto al richiamo di queste sirene, non basta a consolarci.
In quello snodo cruciale abbiamo perduto molti compagni di viaggio: molti sono stati travolti dalle esigenze del vivere quotidiano, qualcuno ha trovato rifugio nella consolatoria turris eburnea dell’elaborazione teorica, altri, i peggiori, li troviamo ancora oggi al servizio di padroni immondi.
Dobbiamo ricominciare tutto da capo nella consapevolezza che il nostro messaggio libertario se non vuole affievolirsi – deve essere affidato ai giovanissimi, a quelle donne e a quegli uomini ancora in erba non completamente corrotti da una cultura – che è anche quella delle generazioni degli ultimi decenni – incapace, nei fatti, di scrollarsi di dosso le scorie della logica del potere.
Dobbiamo individuare strade nuove, fidarci meno delle possibilità di acquisire e capitalizzare consensi frequentando esclusivamente manifestazioni, raduni, convocazioni che provengano anche da settori dell’opposizione agli attuali governi e riprendere l’abitudine ai colloqui individuali, con le persone in carne ed ossa che subiscono il disagio di vivere nel contesto politico-economico-sociale del nostro tempo. Dobbiamo ritrovare il contatto col territorio prossimo a ciascuno di noi, reinterpretandone il rapporto e utilizzandone correttamente le risorse. Dobbiamo certamente servirci dei più moderni mezzi di comunicazione senza credere però che possano sostituire l’incontro fisico, diretto, che rimane il più completo e riconduce al tempo umano. Le cadenze di un colloquio tra esseri umani fisicamente presenti, le pause, gli ammiccamenti, i sottintesi, gli sguardi sono tutti componenti essenziali perché ci si intenda compiutamente. Le convocazioni, gli appelli, le solidarietà possono benissimo utilizzare l’etere o il filo, ma poi c’è la piazza che ci attende, come ancora una volta hanno dimostrato i giovani del Cairo, di Tunisi e di Damasco. Ed è in quel luogo che bisogna riconoscersi immediatamente, scambiare segnali collaudati, sibilare parole d’ordine che non hanno bisogno di interpretazioni.
Confrontarsi senza pregiuizi
E ritorno così alle vespe panamensi, di cui vi ho parlato all’inizio di questo mio contributo. Mai come in questa temperie italiana si avverte, urgente, il bisogno di un altrove, in qualche misura ripulito dal degrado con il quale siamo costretti a convivere. Un altrove difficile da definire perché è percepibile ovunque, nel mondo Occidentale, ma non soltanto, una diffidenza, se non addirittura il rifiuto verso chi non fa parte della propria comunità, un estraneo avvertito quasi sempre come fonte di pericolo. E tuttavia il nomadismo, l’attitudine a confrontarci senza pregiudizi con realtà diverse, anche lontane da noi, è l’unica strada per costruire un’umanità meno precaria, più solidale di quella in cui la sorte ci ha ridotti a vivere. Anche noi dobbiamo cercare altri alveari.