riflessioni
Il diritto delle comunità
Quando una comunità, in equilibrio con i luoghi in cui è insediata, attua una gestione diretta delle proprie necessità e delle proprie risorse preleva quanto indispensabile e definisce modalità di sfruttamento che non ledono le potenzialità delle risorse stesse. In tale maniera non inibisce il futuro sostentamento e, con comportamenti adeguati, tende a ridurre al minimo gli effetti negativi connessi al prelievo di materia e alla trasformazione del territorio. Quando il prelievo e la trasformazione non dipendono da una comunità ma da soggetti che operano sulla base di valori prettamente economici assumono dimensioni motivate esclusivamente dall’inalienabilità, propria del vigente modello economico e sociale, dell’aumento della quantità dei prodotti e dei connessi profitti. Questa condizione comporta che la produzione, una volta accontentate le reali necessità dei fruitori, si fondi su bisogni indotti, su di una distribuzione iniqua, su enormi inefficienze produttive, sulla sottoutilizzazione e sugli sprechi. Così facendo si altera profondamente il paesaggio, si distruggono habitat, si degrada l’ambiente, si lede la salute degli abitanti in misura incommensurabilmente superiore a quelle scaturenti dalle reali necessità. Oggi le comunità in gran parte subiscono l’azione propositiva esterna, non possono, o non hanno la capacità, di prelevare direttamente le risorse e sono escluse dalla effettiva gestione del proprio territorio. Quando una comunità si rifiuta di sopportare le ingombranti e nocive trasformazioni, i promotori ne richiamano l’indispensabilità, anche nel caso di una domanda artatamente incrementata, ed in ciò spesso si alleano interessi economici, governi e amministrazioni. Anche gli utilizzatori finali frequentemente percepiscono acriticamente l’ineludibilità della merce o della trasformazione e non maturano richieste di alternative non esclusivamente localizzative (si fa qui o si fa li), ma strutturali (si fa o non si fa) e di sistema (modificazioni mercato, modificazioni modalità di trasporto, etc.) delle scelte attuate. La comunità che si oppone è esclusa, derisa, marginalizzata; diviene “egoista”, “non lungimirante”, “senza alcuna visione complessiva”, “retrogada”, “sostenuta da piccoli interessi”, “non attenta al benessere sociale diffuso”. In molti casi la conflittualità con la popolazione locale viene superata utilizzando il miraggio occupazionale, la creazione di posti di lavoro temporanei connessi alla realizzazione o al funzionamento dell’attività; altre volte si procede con misure mitigative o compensative, con investimenti in scuole, strade, servizi pubblici. Ma solitamente il prezzo ambientale e sociale delle comunità è incommensurabilmente maggiore del valore di questi interventi. Queste forme di compromesso offendono i diritti delle comunità e degli individui. Le comunità hanno tutto il diritto di conservare e migliorare la qualità ambientale del proprio territorio ed il benessere degli individui che la compongono. Tale diritto è una priorità assoluta, indiscutibile, non eludibile da nessun altro tipo di interesse. Non vi sono valori superiori al diritto di vivere bene in un luogo e di gestire la propria esistenza in un qualificato rapporto con il sistema naturale e sociale in cui si svolge. È un diritto che travalica l’economia e l’ “interesse nazionale” e non può essere riequilibrato attraverso il denaro. Quindi, quando il prelievo di una risorsa, la trasformazione di un’area, la costruzione di una infrastruttura danneggia l’equilibrio di un territorio, peggiora le condizione dell’esistenza degli individui e delle comunità esso non va attuato. Vi sono due semplici verifiche che si potrebbero fare per verificare la congruità e l’indispensabilità di una trasformazione. La prima: se si può fare nel “giardino” di ciascuno vuol dire che non dà fastidio a nessuno. “Non nel mio giardino” non è una forma di egoismo se accompagnata dalla consapevolezza dei giardini degli altri. La seconda: i profitti scaturenti dall’uso delle risorse e dalle trasformazioni sono di proprietà delle comunità. La comunità non concede concessioni, non pretende compensazioni, non cerca posti di lavoro o altre elemosine: è proprietaria e acquisisce la totalità dei profitti prodotti. In questa maniera, riponendo il benessere diretto dell’individuo e delle comunità al centro delle scelte e riducendo sostanzialmente gli interessi economici che sostengono le inutili trasformazioni generatrici esclusivamente di profitto, si potrebbe avere un quadro meno nebuloso delle reali necessità sulla base del quale si potrebbero operare scelte in cui la comunità ha un ruolo attivo ed è in condizione di gestire il proprio ambiente ed il proprio futuro.
La questione delle abitazioni
I poveri non possono comprare case, non alimentano il mercato e quindi non avranno abitazioni a meno di un intervento pubblico. Eppure il territorio del pianeta è coperto di case e nel nostro paese vi è una superficie pro capite e una quantità di abitazioni non occupate o occupate stagionalmente tale da poter farvi abitare il doppio dell’attuale popolazione. Questa condizione ha destrutturato l’ambiente degradato il paesaggio e comportato inquinamenti di ogni genere (emissioni, rifiuti, scarichi,etc). Il problema è direttamente connesso al ruolo errato che viene dato alle abitazioni che:
- sono, nella società industrializzata, dei consumi ed ora globale, uno strumento di produzione di profitti e non la risposta ad una necessità. Lo sono tanto che la costruzione diretta da parte dei cittadini è osteggiata e si preferisce lasciare le persone nelle baracche sperando che un giorno almeno una parte di esse possa costituire una domanda per il mercato piuttosto che consentire loro di costruire in autogestione la loro abitazione sobbarcandosi in questa maniera di costi molto, molto minori (si pensi alla permanenza di centinaia di migliaia di persone nelle baraccopoli romane fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso).
- danno valore ai terreni e quindi rendono possibile un profitto consistente anche solo sulla compravendita e sul passaggio da terreno agricolo a terreno edificabile; in questo i diretti interessati in un passato anche recente si sono fortemente impegnati per consolidare un diritto all’edificazione insita nella proprietà dimenticando volutamente che il terreno, proprio per essere parte di un sistema ecologico e sociale unitario ed organico, è bene comune a cui, nel caso, viene concessa dalla comunità la possibilità di edificazione sub condizione di un livello di qualità predeterminato.
- sono un investimento in quanto il loro valore aumenta sempre, ed in alcuni periodi garantisce una redditività superiore a qualsiasi altro tipo di investimento; anche senza considerare l’espansione urbana, e quindi il valore aggiunto implicito nell’“avvicinamento” o inglobamento degli edifici delle periferie, il prezzo degli edifici si è ridotto solo nel corso della seconda guerra mondiale (e dei connessi bombardamenti).
- producono un ulteriore profitto quando affittati (non si pensi solo all’affitto degli appartamenti ma a quello dei negozi nei centri storici e commerciali che garantiscono entrate, praticamente in nero, di grande entità).
La gran parte della popolazione italiana è integrata nel modello abitativo proposto e ne trae continui vantaggi (mentre una parte ne subisce gli svantaggi). Il tentativo di ridurre l’incertezza della vecchiaia in assenza di coperture sociali adeguate, la ricerca di stabili contributi integrativi all’economie domestiche, il desiderio di mettere in sicurezza risparmi fuori dalle oscillazioni finanziarie si concretizza con l’acquisizione di immobili. Questa situazione è un peso insostenibile non solo per l’ambiente ma anche per l’economia perché soffoca con affitti elevati le attività artigianali, produttive, commerciali, creative, blocca importi che potrebbero essere utilizzati per finanziare attività, pone un peso enorme sui giovani che per avere la certezza di una abitazione si impegnano per decine e decine di anni cosicché tutta la vita degli individui nella società italiana è dominata dalla presenza ingombrante di case, affitti, mutui. Quanto detto si mischia a forme imprenditoriali economicamente molto più consistenti; così, in una rincorsa sfrenata a garanzie economiche, i piccoli e medi redditi sostengono le grandi speculazioni. Il piccolo interesse, le cui necessità potrebbero essere ovviate in ben altra maniera, sostiene il massacro del territorio, i grandi condoni, leggi brutali e soprusi sui beni comuni, ma anche lo sfruttamento di studenti, immigrati, meno abbienti costretti a pagare affitti insostenibili. Il piccolo e diffuso interesse diviene complice di una modus operandi che destruttura l’ambiente e penalizza una parte della società. Le soluzioni a tale situazione non possono trovarsi intervenendo nel solo comparto edilizio, anche se con la richiesta di alloggi sociali. È invece indispensabile modificare il contesto in cui l’edilizia opera e i meccanismi che fanno della domanda di abitazione un investimento. Ad esempio si potrebbe:
- Rendere possibile la costruzione diretta da parte degli abitanti (i comuni infrastrutturano aree e gli abitanti le costruiscono riducendosi in questa maniera i costi e limitandosi gli interessi speculativi).
- Garantire pensioni, redditi e servizi per la vecchiaia (comunità, vicinanza).
- Ridurre il mercato e costruire solo per palesi e comuni necessità.
- Sostenere la ristrutturazione ed il recupero del patrimonio esistente (enorme e sottoutilizzato) attività questa caratterizzata tra l’altro da processi produttivi in cui non vi è una minore concentrazione dei profitti (maggiore uso di artigiani, di piccole imprese, di manodopera).
- Modificare il reddito fondiario e considerare i terreni un bene comune per cui non sussiste un diritto a costruire da parte del proprietario ma il diritto di conservare lo spazio libero (agricolo o naturale) da parte della comunità. In questa maniera la possibilità di costruzione sarebbe una eccezionalità e non una prassi diffusa.
Sono problemi difficili da risolvere in quanto posti alla base della struttura economica del Paese; per affrontarli correttamente è però necessario affrontarli con una visione complessiva, svelando la complessità delle ragioni che le hanno originate e individuando soluzioni durature e autogestite.
testimonianze
Adattare, adattarsi: aborigeni indonesiani
Nella foto si vede l’abitazione tradizionale di una popolazione indonesiana. Prima di costruire la casa la crescita dei rami della pianta viene indirizzata per permettere la presenza della piattaforma sulla quale poggerà la struttura. L’albero è adattato alla presenza dell’uomo e la casa dell’uomo si adatta alla situazione esistente. Alla base della sopravvivenza dell’abitazione vi è la sopravvivenza dell’albero alla cui morte essa non sopravvive. In questo continuo e delicato equilibrio di adattare e adattarsi dovrebbe caratterizzarsi l’azione umana.
La consapevolezza dello spazio: Inuit e !Kung
Negli anni trenta del secolo scorso un ricercatore chiese a degli Inuit (eschimesi) di disegnare il loro territorio di caccia. I disegni elaborati dai diversi individui erano tra loro simili e assomigliavano molto ai rilevamenti aerei con la solo differenza che le zone più importanti per la caccia e per la vita delle comunità erano disegnati più grandi delle altre. Per i !Kung del Sudafrica la percezione del paesaggio è limitata da definite emergenze naturali al cui interno si evidenziano i luoghi in cui si collocano le risorse incluse le aree di caccia e i percorsi per raggiungerle. Le conoscenze erano comuni e l’intera comunità era consapevole dello spazio di competenza e delle risorse che in esso erano presenti. Nella nostra società abbiamo a disposizione cartografie ed immagini satellitari di così alta definizione che ci consentono di vedere molto oltre il territorio in cui il singolo individuo si muove; questi però non conosce e non è consapevole dello spazio ed ha difficoltà a dare valore e quindi a differenziare e memorizzare lo spazio (anche in ragione dell’eccessiva mobilità). Manca la conoscenza geografica del proprio territorio e manca il rapporto tra individuo e risorse; il rapporto tra spazio e società è deficitario, superficiale ed anche per questo aberrante.
osservazioni sulla contemporaneità
Fino a che punto
In alcune foto di qualche anno addietro si vedevano numerosi materiali, in gran
parte bombole di ossigeno ma anche teli di plastica, abbandonate su di un pianoro
innevato. La foto era scattata a più di 8000 metri sul livello del mare e mostrava la discarica delle attrezzature buttate dalle spedizioni degli scalatori prima dell’ultimo balzo sulle vette dell’Everest. Nei primi anni novanta una spedizione di volontari raccolse in questi luoghi circa due tonnellate di rifiuti dichiarando che erano una minima parte di un totale che per massima parte giaceva nelle profondità dei crepacci e quindi era irrecuperabile. Se le vette sono così ridotte per il divertimento di “amanti dell’avventura” perché il resto del pianeta dovrebbe trovarsi in condizioni migliori? Non è obbligatorio andare sull’Everest, non porta benefici alla comunità (a parte l’elemosina agli accompagnatori), è solo uno “sfizio”. Ma la società dei consumi si basa sull’incontenibilità dei desideri indotti dal mercato. Questa incontenibilità avvia processi che portano a strutturare le attività per renderle agevoli onde non escludere dei potenziali seppur non appassionati fruitori. Il problema è tutto qui. Riuscire a capire quando fermarsi. Le condizioni di alterazione dell’ambiente obbligherebbero l’umanità ad operare una profonda riflessione anche solo per garantire la propria sopravvivenza. La riduzione dei consumi e il controllo delle nascite appaiono non solo i sistemi più plausibili per permettere la sopravvivenza dell’umanità ma anche in grado di ridurre le tensioni scaturite dalle necessità di approvvigionamento del mercato e quindi del controllo delle risorse commerciabili. Al contrario l’economia è tutta imposta sulla continua crescita, senza fine. Quante sono le strade necessarie? Quante sono le strade necessarie nel futuro? Questa economia non può rispondere. Se rispondesse definirebbe dei limiti che, oltre a sgomentare, inibirebbero il mercato. La crescita non può che essere illimitata nel caso si opera una crescita “verde” in cui le merci pongono una maggiore attenzione alla riduzione dell’impatto ma comunque puntano ad una maggiore vendita e comunque non sostituiscono le merci esistenti ma ad esse si affiancano. Ed in questa economia, che ha garantito profitti enormi per pochi e non riesce a dare diffusa qualità della vita, se non c’è crescita c’è recessione. Eppure guardando i rifiuti a 8.000 metri un piccolo dubbio sul modello praticato e sull’importanza di limiti determinati dalla disponibilità di risorse dalla necessità del mantenimento di qualità ambientale e dalla equità dell’accesso alle risorse stesse dovrebbe venire anche ai più accesi sostenitori di un modello ingiusto.
Industrializzazione e rifiuti
Sono i processi industriali che generano rifiuti: sotto forma di scarti di produzione, di imballaggi (che debbono essere di maggiore consistenza di quelle delle produzioni artigianale per garantire la non alterazione delle merci nei percorsi più lunghi, nella grande distribuzione che non vuole prodotti sfusi), di produzione in eccesso rispetto alle necessità (per superare la concorrenza, per ridurre i costi, per occupare nuove aree di mercato), di “innovazioni” atte a dismettere merci di medesima efficacia per sostenere la produzione, di prodotti “monouso” (che se ambientalmente aberranti sono la merce perfetta per questo tipo di modello produttivo). Ma i processi industriali producono rifiuti con la limitazione di durata delle merci (in particolare quelle alimentari) e con la produzione di merci di bassa qualità (ed in questo la produzione cinese è maestra) che avendo la forma di oggetti funzionanti sono in realtà già rifiuti al momento della vendita. Ora se si pensa che lo smaltimento è effettuato a carico della collettività sia sotto forme di tasse dirette, sia come aggravio del prezzo di vendita delle merci, e che la filiera dello smaltimento è un’attività industrializzata anche i rifiuti in questo modello economico sono considerati merce e come tale soggiacciono ai criteri di crescita delle quantità fondamento del benessere del settore produttivo. La riduzione dei rifiuti assume quindi lo stesso valore e la stessa difficoltà dell’obiettivo della riduzione dei consumi; ma anche la stessa importanza.
I rifiuti di Napoli
Il caso dell’accumulo di rifiuti nelle strade che ha interessato più volte Napoli in questi anni è l’esito di un modello sbagliato la cui crisi se in quella città ha avuto una sua massima visibilità si può manifestare anche in altre situazioni. La prima condizione su cui si struttura il detto errato modello è di espropriare i cittadini di ogni possibile azione diretta nella gestione dei rifiuti. Nel caso di Napoli i cittadini si sono trovati sepolti da tonnellate di rifiuti senza potere fare direttamente nulla e si sono così dovuti fare carico di un problema dalla cui gestione erano stati consapevolmente esclusi. In questi anni cifre significative di finanziamenti sono stati impegnati per la soluzione del problema; e sempre si è proceduto a finanziare imprese e tecnici. Eppure nella città sommersa dai rifiuti di qualche mese fa vi sono stati cinque quartieri in cui attraverso la raccolta “porta a porta” si è ottenuta una raccolta differenziata dal 60% al 90% del totale (ben superiore alle richieste comunitarie) e le cui strade erano sgombre di rifiuti. Ovvero con una azione diretta da parte dei cittadini, seppure coordinata ed indirizzata, si è ridotto in maniera macroscopica le quantità di rifiuti da portare a discarica e si sono riciclati alla produzione enormi quantità di materiali. Mancando la possibilità di ciascuno di gestire completamente il ciclo dei rifiuti (riduzione, riuso, differenziata, recupero, riciclo, compostaggio) nelle aree urbane la popolazione è schiacciata dal rischio che gli attuali diffusi meccanismi della raccolta e dello smaltimento, governati per gran parte dal profitto e dalla scarsa attenzione sociale, possano incepparsi e riversarne gli esiti su di essa. L’unica garanzia è partecipare: essere a conoscenza di quello che accade, indirizzare le scelte delle amministrazioni, essere attivi nell’attuazione delle soluzioni, avere la possibilità di autogestire, almeno parte, del ciclo.
immagini dalla contemporaneità
Vicoli, bassi ed ecosistemi
Negli anni sessanta molti “benpensanti” napoletani ce vedevano nei panni stesi, nelle piccole botteghe che si espandevano sul suolo pubblico, nei densi rapporti sociali dei vicoli, tutti i segni di un degrado culturale, i segni della mancanza di decoro che inibivano il futuro della città. Su questa impostazione, unita al perseguimento di una diversa qualità edilizia, negli anni settanta e ottanta si è avviata una “bonifica” di quelle aree che seppure mirata ad un condivisibile miglioramento delle condizioni abitative, ha però portato alla costruzione di insediamenti simili, ed in alcuni casi peggiori, di quelli di tutte le aree urbanizzate del Paese.
Sulla foto si possono però fare le seguenti considerazioni: per stendere i panni da una parte all’altra del vicolo vi era bisogno di relazioni sociali tra le persone interessate e con i passanti su cui spesso pioveva l’acqua dei panni; per occupare il suolo pubblico (attività indispensabile visti gli spazi ridotti disponibili all’interno dei negozi) era necessario trovare un accordo con gli abitanti del vicolo, cercare comprensione ed essere disponibile a comprendere. Appare dall’immagine la complessità e lo spessore delle relazioni sociali oltre che la funzione, forse non consapevolmente ricercata, dei panni nel raffrescamento dell’aria estiva.
Si delinea un sistema sociale ed ambientale caratterizzato da disordine e diversità: un sistema in cui ciascuno riesce ad usare una parte dell’energia non utilizzata dagli altri. Sistema articolato, maturo, stabile,organico. Da questa constatazione le critiche degli anni sessanta sul degrado della città e le soluzioni praticate appaiono mosse da una volontà di ordine che avrebbe dovuto formare i comportamenti: l’ordine imposto dagli edifici uguali, dalle strade larghe, dai rapporti uniformati, dal disconoscere nella progettazione esigenze ed abitudini dei cittadini. Lo stesso ordine che ha condotto al vuoto sociale delle periferie a cui a volte si è sostituito, facilitato dal vuoto creato, l’ordine delle organizzazioni camorristiche. Forse valeva la pena conservare le abitudini “indecorose” quando esse rappresentavano una vitalità ed una capacità di comporre la propria esistenza sostenendo economicamente e operativamente coloro i quali in quel sistema lavoravano e vivevano ed intervenire per eliminare quelli che erano gli aggravi derivanti da una qualità insediativa fisicamente migliorabile ma socialmente da capire e con la quale interagire.
Trabocchi, luntri
Le due immagini raffigurano due sistemi di pesca in uso tradizionalmente rispettivamente nei litorali dell’Adriatico centrale e nello Stretto di Messina. Sono sistemi fortemente selettivi collegati alla tipologia e alla disponibilità del pescato, come l’elevatissimo numero di altre modalità di pesca specializzati, specifici, tradizionalmente utilizzati nel pianeta. La massima parte della pesca contemporanea viene attuata con un numero ridottissimo di sistemi non selettivi (né di specie, né di dimensione) che però garantiscono nel breve tempo grandi quantità di pescato, una quantità tale da mettere in crisi il sistema naturale e quindi la stessa attività produttiva. In questo sono simili a tutti i processi industrializzati: scollegati dai luoghi, e dagli equilibri che li caratterizzano, uniformati, ad alto consumo energetico, senza prospettiva temporale, ed incapace di conservare quelle risorse la cui rinnovabilità è proprio oggetto del prelievo.
Vivere nei luoghi
Vivere i luoghi implica l’adattamento degli stessi alle necessità ed al piacere di chi in essi vive. Questo è un diritto di ciascuno, un diritto che può attuarsi con una azione diretta a condizione che essa non sia di fastidio ad alcuno né in forma diretta né in forma indiretta. La foto è scattata a Reggio Calabria qualche anno fa. L’abitante ha strutturato un piccolo orto in uno spazio confinato dal marciapiede (uno spazio forse pubblico che l’abitante ha recintato e ci coltiva); è un credente e caratterizza l’ingresso della sua abitazione, posta in un condominio, con una piccola edicola votiva; vuole prendere il fresco sotto l’albero (che è nella strada pubblica) ed ha recuperato una panchina e due seggiole (poi legate con la catena per sicurezza). Da questi segni si capiscono le esigenze ed il piacere ricercato: un orto, il fresco dell’ombra, un “salotto” all’aperto per parlare con i conoscenti e guardare chi passa. Sono questi i dati su cui progettare una città come una casa. La risposta che viene dall’urbanistica e dall’edilizia corrente a questa domanda è sviluppata attraverso standard, regolamenti, servizi e non consente di affrontare la specificità di tale richiesta. In maniera molto semplificata ciò vuol dire che o la richiesta viene considerata di interesse comune ed allora gli strumenti urbanistici concedono a tutti una edicola, due poltrone di plastica bianca, una panchina verde ed un piccolo orto o la richiesta non è considerata di interesse comune e nessuno avrebbe niente né ad alcuno è consentito di concretizzare direttamente quanto desiderato. Al contrario bisognerebbe dare maggiore attenzione ad ogni richiesta individuale per quanto diversa e specifica, perché ciascuna di esse ha un valore grande tanto quanto quella comune (a condizione che non porti nocumento ad altri ed all’ambiente) ed anche attraverso di esse si strutturano i luoghi e si possono vivere piacevolmente.
Adriano Paolella
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