Nell’intervento che ha aperto questo convegno, Salvo Vaccaro ha analizzato le rivolte maghrebine, sottolineandone il carattere prevalentemente politico; cioè, contrariamente a quanto si è verificato fino ad ora, e a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, a spingere le masse, prevalentemente giovanili, a ribellarsi e a insorgere, non è stata né la fame – il problema del sostentamento quotidiano, cioè la povertà – né è stata la religione, la spinta islamista. Si è trattato di sommosse per la dignità, che ponevano al centro la richiesta di libertà; si è trattato di rivolte politiche. Mi viene da pensare come questo tema della dignità qui in Italia, e specie nel Sud, continui a rimanere secondario, ininfluente; qui la pentola, benché abbia raggiunto da tempo la pressione giusta, non scoppia, e compito dei rivoluzionari è quello di individuare i motivi che frenano l’esplosione sociale, per poi stimolare la sua realizzazione piena nel segno di una contestazione generale al sistema, per un cambiamento vero. Si è detto del grande ruolo che hanno svolto i media e internet in particolare, nel coordinamento e nella comunicazione che ha favorito lo sviluppo delle parole d’ordine e ha accompagnato le rivolte nel mondo arabo. Forse una riflessione va fatta sul ruolo che gli stessi strumenti rivestono nella nostra società. A parte certi settori minoritari, che se ne servono bene per promuovere iniziative di lotta, vedo che dalle nostre parti le masse giovanili usano facebok o internet come sostitutivo delle relazioni, come luogo del loro sfogo, insomma come elemento alienante. Può darsi che fra qualche anno anche in Nord Africa ne faranno lo stesso uso, chissà. Intanto adesso se ne sono serviti per alzare la testa. Prima dello scoppio delle rivolte arabe, si sapeva che in Egitto, per esempio, avevano assunto un grande potere persuasivo alcuni telepredicatori islamici, i quali, in perfetto stile americano, erano riusciti a catturare milioni di spettatori con i loro sermoni religiosi, tutti comunque dichiaratamente filogovernativi, incitanti alla rassegnazione e all’obbedienza. Se pochi mesi dopo la società egiziana è riuscita a ribellarsi nella maniera che conosciamo, dobbiamo dedurne che è riuscita, almeno in una sua parte, a scrollarsi di dosso anche i condizionamenti religiosi, e questo fa assumere un carattere più profondamente politico (e laico) agli avvenimenti. Mentre eravamo in viaggio verso Palermo, ci ha telefonato un compagno cileno esule da anni in Italia, e saputo che andavano ad un’iniziativa sull’11 settembre, ci ha chiesto: quale? Infatti, ricordiamo che c’è l’11 settembre cileno, quello del golpe di Pinochet, che non va oscurato dall’altro per cui siamo qui oggi. Francesco Lo Cascio nel suo intervento ha contestato il sindacalismo che affronta le contraddizioni guerra-posti di lavoro, ambiente/tossicità-lavoro, difendendo il lavoro; io non so se esiste il sindacato di base nelle fabbriche di armi; so per certo che una frattura autentica si è verificata diversi anni fa fra varie espressioni del sindacalismo di base sul tesseramento delle guardie giurate, e questo credo sia stato un elemento di chiarezza. Posso dire, per esservi coinvolto direttamente, che da molti anni le piattaforme degli scioperi generali contengono sempre punti contro le spese militari, contro le missioni militari e contro le guerre. Certamente la contraddizione lavoro/inquinamento si presenta spesso, ma il sindacato di base, e la CUB, di cui io faccio parte, ha sempre condotto aspre battaglie contro la tossicità di certe produzioni, lottando per la riconversione e per il rispetto dell’ambiente. Un sindacalismo dalle idee chiare su questi punti, è un buon compagno di viaggio dei movimenti antimilitaristi e contro la guerra.
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Palermo, Salone Valdese –10 settembre 2011 – Convegno
"Tempi di guerra. Dall’11 settembre ai giorni nostri".
Da sinistra, Francesco lo Cascio (del MIR), Alberto La Via
(della Federazione Anarchica Siciliana), Salvo Vaccaro,
Pippo Gurrieri e Antonio Mazzeo |
La crisi come alibi
Dall’11 settembre 2001, per essere più precisi, dal 2003, il tema della guerra ha perso la sua centralità per i popoli occidentali e per i movimenti di questi paesi; ha smesso di essere una priorità. Le cause di tale mutamento strategico, culturale, psicologico, sono diverse. Una può essere rintracciata nell’assuefazione alle guerre: praticamente in questi dieci anni non v’è stato periodo senza guerre, sono stati dieci lunghi anni di un’unica guerra combattuta su più fronti. Questo ha progressivamente spento i movimenti che prima si sono spesi per impedire gli interventi in Iraq o in Afghanistan; ricordate le migliaia di bandiere della pace appese ai balconi ovunque? Diciamo che la maggior parte dei protagonisti di quella stagione di lotta è rimasta colpita da rassegnazione e da senso d’impotenza. Questo discorso sul senso d’impotenza lo tirò fuori per la prima volta Franco Leggio a Comiso, alla fine del 1983, dopo che iniziarono i lavori per la costruzione della base missilistica. Noi anarchici uscimmo fuori con diversi volantini e giornali in cui facevamo appello a superare il senso di impotenza che si era impadronito del movimento e della popolazione stessa, producendo fatalismo e rassegnazione. La storia si ripete. Tornando all’oggi, siccome questi movimenti erano composti in maniera sostanziosa da elementi e militanti della sinistra istituzionale anche “estrema”, ha influito sullo scemare delle mobilitazioni anche la politica di questi partiti che hanno votato le missioni militari all’estero, barattandole, ai tempi dell’ultimo governo Prodi, con le poltrone governative; scelte che hanno disorientato la massa di elettori e iscritti di sinistra, facendola allontanare dall’impegno. Certamente un grande ruolo sta avendo la crisi economica in atto, che ha spostato il baricentro politico sui temi dell’economia, del reddito, del lavoro, costringendo milioni di lavoratori e non, a preoccuparsi del proprio quotidiano, e a vedere, semmai, e più di prima, nelle forze armate, un’opportunità occupazionale. La crisi è servita da alibi ai signori della guerra e ai potenti per distrarre le popolazioni dalle loro imprese militari e dalle loro rapine delle risorse dei paesi aggrediti. Qui possiamo registrare una delle nostre maggiori difficoltà: il non essere riusciti a collegare la crisi economica, e quindi le manovre governative tutte lacrime e sangue, allo stato di guerra permanente, che ci fa investire 12 milioni di euro negli F35 o ci fa spendere 3.600 euro al minuto,da anni, nelle missioni militari. E così, mentre il popolo “pacifista”, antimilitarista, antiguerra, abbassava la guardia, aumentavano le iniziative di propaganda militarista, dai funerali agli “eroi” uccisi nelle missioni di guerra, e relativa retorica patriottarda; alla presenza dei militari nelle scuole e nella società; all’incremento della pressione mediatica per far percepire le guerre in atto come “giuste”, se non addirittura per renderne invisibili gli aspetti più tragici e deleteri. Ma s’incrementava anche la militarizzazione del territorio, da Vicenza a Sigonella, fino a Niscemi, con la costruzione del MUOS, una delle centrali di controllo delle comunicazioni planetarie della Nato. E così, quando iniziava l’intervento militare in Libia, con tutta la solita retorica umanitaria e le falsità mediatiche, ecco che ci siamo trovati di fronte ad un senso di smarrimento ormai in stato avanzato, ad una passività radicata, con il risultato che l’obiettivo di liberare il popolo libico dal regime di Gheddafi è stato delegato ai governi. Sicuramente, in questi ultimi anni sono caduti alcuni capisaldi dell’inganno guerrafondaio, quale il ruolo super partes dell’ONU, che con le sue risoluzioni ha dato copertura alle guerra e fornito deleghe alla Nato o ad altre coalizioni militari; come pure è venuto a cadere l’imbroglio delle missioni civilizzatrici (basti osservare l’Afghanisan odierno, integralista e corrotto; o i contratti petroliferi in Iraq, ecc.). Ma queste chiarezze non hanno prodotto una reazione più diretta e dura, perché si sono affermate in maniera inversamente proporzionale alla capacità di tenuta del movimento. Così quando la guerra è arrivata direttamente a casa nostra, con lo sbarco di decine di migliaia delle sue vittime in fuga dal Sud del Mondo, questo è stato visto come un problema umanitario, un problema di diritti da affermare, un problema di razzismo, e poi come un problema interno di accoglienza, di reclusione nei CIE e nei CARA, tutti aspetti importanti e sacrosanti, ma isolati dal contesto da cui scaturiscono: questo decennio infame di guerra permanente. Senza dimenticare che, a sua volta, la guerra non è un problema a se stante, ma l’espressione del capitalismo e del dominio delle classi superricche sul mondo; ed è quindi collegata a tutti i temi che caratterizzano lo sfruttamento umano.
Contro i signori della guerra
Noi siamo antimilitaristi, perché contestiamo e rifiutiamo l’esercito anche in tempo di “pace”. Credo che oggi anche il pacifismo sia un’ambiguità da superare. Molti pacifisti ci sono stati e ci sono compagni di strada, ma l’ideologia della pace ha creato confusione e smarrimento: pace, pace sociale, pace armata. Credo vada preso atto dell’insufficienza del pacifismo nell’affrontare le dinamiche odierne dei conflitti nel mondo. In questa fase va ricostruita una forte presenza antimilitarista, a partire dalla “crisi”. La crisi non è un’entità metafisica, né lo sono coloro che ne rappresentano la causa e che pilotano le sorti del mondo dall’alto dei loro imbrogli finanziari. La crisi è uno strumento delle classi che dominano il mondo per tenere assoggettate tutte le altre classi e in modo particolare coloro che potrebbero ribellarsi; partire dalla crisi vuol dire fare emergere i nessi strettissimi tra le strategie militari (guerre, fabbriche di armi, commercio di armamenti, regimi dittatoriali, conquista delle risorse energetiche) e il massacro sociale che invece si sta imponendo alle classi più deboli; queste sono i terminali fisici della crisi. Far risaltare l’importanza che questi “terminali” possano contestare le soluzioni che i governi stan prendendo contro di loro, perché la loro crisi non va pagata e occorre rifiutare anche le grandi opere (dalla TAV in Valle Susa al Ponte sullo Stretto) come frutto delle stesse strategie politiche. Ma anche lottare contro la militarizzazione del lavoro, attraverso le nuove regole che si vanno imponendo, sia a livello di agibilità sindacale che di cancellazione dei diritti. Dobbiamo riaprire livelli di conflittualità contro i signori della guerra, a partire da tutti quei momenti in cui si celebra il militarismo (scuole, piazze, ecc.). Ma soprattutto dobbiamo riposizionarci sui territori infestati dalle basi militari; qui da noi in modo particolare sono tre quelli oggi in primo piano nelle strategie di guerra: Sigonella/Lentini, al centro di programmi di ampliamento e spostamento di truppe USA-Nato dal Centro-nord Europa e base operativa dei Predator, gli aerei senza pilota usati sperimentalmente in Libia con migliaia e migliaia di ore di volo, con bombardamenti diretti e indiretti (guida dei missili lanciati da altri aerei); MUOS/Niscemi, che, dopo il consenso dato dal governatore Lombardo alla costruzione della potente stazione radar-satellitare, potrebbe decollare da un momento all’altro; Trapani Birgi, base di partenza dei cacciabombardieri della coalizione occidentale nella guerra di Libia, ma anche aeroporto civile in grande espansione, sacrificato alle esigenze di una guerra di aggressione per accaparrarsi le risorse petrolifere. In questi posti, ed anche in tutti gli altri conosciuti, pianificare interventi di medio e lungo periodo cercando di costruire comitati di base popolari, strutture di resistenza, azioni dirette che ostacolino realmente i processi di militarizzazione e i piani di guerra. L’esempio di Comiso, con tutto il lavoro svolto sul campo, anche a distanza di trent’anni, può insegnarci qualcosa.