Etimologicamente – ma non solo – “carcere” è un luogo serrato dove si rinchiude per reprimere, imporre, costringere (affine a coerceo, coercizione). Abitualmente l’immaginazione spazia dalle buie e umide segrete viste nei film ambientati nel medioevo, fino all’architettura tecnologica per eccellenza, capace di classificare e riplasmare gli animi di individui difettosi: macchina supermoderna affine al panopticon di Jeremy Bentham, che con la sua struttura costrittiva ma trasparente, perfettamente ordinata e gerarchica (“ed organizzabile ‘ad albero’ ”, come si direbbe in scienze dell’informazione) fu per Michel Foucault metafora esemplare della modernità. L’architettura della Fortezza di Volterra, come di altre carceri italiane, combina queste due immagini in una sola impressionante. Il funzionamento effettivo di quel carcere, le forme imposte alla vita che scorreva lì dentro, furono tra le più spaventose d’Italia: nella grande inchiesta sul carcere in Italia curata da Aldo Ricci e Giulio Salierno nel 1971 esso era dipinto come un luogo di tortura non dissimile dall’immagine classica dell’inferno. Da ventitré anni quel modello è stato inesorabilmente eroso dal laboratorio di teatro all’interno della Fortezza: un lavorio che, se si guarda bene, ha iniziato a corrodere anche l’architettura, dove le sbarre sono state segate per aprire porte e portoni.
Ma quello che è stato fatto quest’anno ha ancora di più il sapore dello straordinario. Gli organizzatori di Volterrateatro, sia per rispondere a esorbitanti tagli economici, sia seguendo una precisa poetica, hanno trasportato per intero il tradizionale festival teatrale di fine luglio all’interno del carcere. Oltre all’appuntamento con la messa in scena del lavoro della Compagnia – che quest’anno si intitolava Mercuzio non vuole morire – dentro il carcere in tre giorni si sono svolte (se le ho contate tutte) 19 diverse rappresentazioni, più alcune installazioni e conferenze. Se il carcere non può aprirsi alla città dunque, qui si è riusciti a portare – letteralmente – la città in carcere. E l’ambientazione in carcere ha arricchito gli spettacoli presentati. Anziché rimanere soltanto un luogo da nascondere, da rimuovere allo sguardo, si è rivelato come tutto quel materiale umano si possa trasformare in ricchezza. Il pubblico all’esterno veniva assegnato ad un percorso, versava una quota volontaria per l’organizzazione (dentro non veniva pagato alcun biglietto), e poi davanti al portone del carcere tutto aveva inizio, col richiamo musicale e lo spettacolo della Compagnia. Dentro erano dieci spazi teatrali (tre all’interno, gli altri ricavati nelle sezioni di cortile divise da gabbie) a ospitare le rappresentazioni, alcune delle quali avvenivano in parallelo e tra le quali veniva smistato il pubblico, dalle tre alle nove di sera. Gradinate, sedie, scenografie, microfoni wireless, mixer, impianti audio, luci, accessori, voci, movimenti e musiche riempivano gli spazi.
Da anni critici, commentatori, spettatori, insieme a persone che non hanno neanche visto gli spettacoli, disputano intorno al valore, o disvalore, del lavoro di Armando Punzo e della sua compagnia. Da una parte i sostenitori, che cercano di comprendere quello spettacolo e quel teatro (insieme a quelli che comprendendo meno sostengono egualmente il lavoro). Dall’altra i detrattori, che accusano (o perlomeno sospettano) il regista di sfruttare una situazione di “comoda” (per quanto il termine sembri strano) risonanza mediatica per imporre agli altri una propria estetica e farne la chiave del proprio successo e del proprio istrionismo. Forse, a questo punto, sarebbe giusto superare le dispute limitate all’estetica, tra chi è affascinato da questi spettacoli inusuali e chi non si capacita di assistere a messe in scena spesso poco disponibili a parlar chiaro ad un pubblico occasionale, e a raccontargli una storia ordinata con un principio, un centro e una fine. Anziché giudicare uno spettacolo in base all’aderenza della sua estetica alla nostra, penso che sarebbe il momento di provare a guardare un po’ più in là, ricordando che il teatro non si limita allo spettacolo per il pubblico, e neanche (quello in carcere) può essere solo “rieducazione”.
Spettacoli difficili
Sarebbe il momento che i commentatori si chiedessero come sarebbe il carcere di Volterra se il teatro non ci fosse mai stato. La risposta parrebbe scontata: sarebbe un carcere come tutti gli altri, magari anche un po’ peggiore. E poi bisognerebbe guardarsi intorno e chiedersi com’è ora questo carcere, ora che c’è il teatro. È un carcere che, pur rimanendo carcere – e nella misura in cui rimane tale, una collezione di forme e pratiche di violenza, tese a isolare e rendere impossibile la comunicazione, e dunque la vita e il cambiamento – è riuscito a trasformarsi per tre giorni in uno spazio capace di ospitare il movimento e la libertà necessarie allo svolgersi di un festival teatrale, con circa trecento ospiti al giorno provenienti dall’esterno, oltre agli organizzatori, ai membri e ai tecnici delle altre compagnie.
Alla fine dello spettacolo della Compagnia, Armando fa un discorso per spiegare agli spettatori qual è il senso, la direzione, l’obiettivo di ciò che hanno appena visto. Non definisce la produzione di quest’anno uno “spettacolo”, ma la riduce a “bozzetto”. Sono tre anni che lo “spettacolo”, inteso come una narrazione lineare godibile frontalmente da un punto di vista privilegiato (proprio del tanto contestato “teatro all’italiana”), non si concede alla vista del pubblico all’interno del carcere. Non che si tratti di qualcosa di poco riflettuto o di casuale: i contenuti ci sono e sono profondi come sempre. Il Mercuzio non vuole morire reinterpreta il Romeo e Giulietta di Shakespeare concentrandosi non sull’amore dei due adolescenti, ma su un altro tipo di amore che comunemente va sotto il nome di poesia. Il primo è un amore che ottenebra la vista, e che genera morte (quella dei due protagonisti e di tanti altri malcapitati); il secondo è un’aspirazione generativa mai compiuta, che qui diventa allegoria del rapporto tra la città di Volterra e la poesia del teatro della Compagnia.
Non facile, ma meno iniziatico e più fruibile del solito per chi non è addentro, il lavoro di quest’anno mantiene la forma che aveva assunto quello dei due anni precedenti: come per l’Hamlice, il nucleo del dramma viene portato all’interno dell’edificio e frammentato in stanze in cui azioni e parole si svolgono in una contemporaneità cubista, per cui lo spettatore occasionale è costretto a scegliere un punto di vista attraverso il quale assisterà solo ad una piccola parte del totale degli eventi. Quest’anno si insiste sulla necessità di ritrovare una leggerezza: una Giulietta impersonata da una giovane ballerina che cita la Sequenza del fiore di carta di Pasolini, un detenuto-attore cinese che canta melodie orientali col viso truccato incorniciato in un balcone veronese, i palloncini colorati che prendono il volo e si allontanano sparsi sopra il cielo della Fortezza, forse anche la nave che veleggia sulle onde dipinte nel teatrino. E, più di tutti, i bambini che fuori del carcere accolgono il pubblico suonando, danzando e mettendo in moto un passaparola. Bambini la cui leggerezza viene negata in carcere, come diventa chiaro sul finale dello spettacolo quando ogni detenuto porta in scena la sagoma di cartone di un bambino che tiene per il filo un palloncino: i bambini qui non possono entrare, e tutto quello che essi sono e rappresentano, da questo mondo è escluso.
In ogni caso si tratta di spettacoli difficili, e non tutto è inscenato in modo da essere compreso da chi si limita a guardare lo spettacolo. Non si tratta di un errore, ma di una scelta. Può capire qualcosa di quello che è successo chi non sa immaginare quello che non c’è più, non riesce a vederlo se non c’è stato? La rinuncia alla narrazione, allo spettacolo frontale, è la rinuncia a ordinare le cose ad uso e consumo di chi non c’era, di chi è arrivato quando ormai (perdonate un’altra citazione dall’Hamlice) «È tardi». – Vuoi davvero ascoltare ancora la stessa vecchia storia? – (o qualcosa del genere) chiede quest’anno la voce registrata di un bambino. Quello che andava raccontato, è già stato detto. Ripeterlo, sarebbe solo un lasciarsi ingabbiare – per quanto quelle gabbie possano essere d’oro – nei ruoli costruiti affinché la struttura non possa esserne toccata. Anche se il pubblico vorrebbe un altro bello spettacolo che tranquillizzi le coscienze – sembra di sentire – noi non siamo in grado di darglielo, c’è bisogno di dirgli altro. «Non facciamo che il teatro in carcere diventi un’altra prigione», rifletteva Armando nel suo breve e denso intervento durante il convegno «A scene chiuse», svolto presso il Teatro della Pergola di Firenze nel novembre 2008. Forse il più sincero articolo critico sul fenomeno del teatro in carcere lo scrisse, avendolo vissuto anche da vicino e dall’interno, Adriano Sofri nel 1998 su “Panorama”: Questa sera si recita a soggetto. Cito un frammento, ma varrebbe la pena di rileggerlo per intero: «I prigionieri non hanno diritti e non hanno voce in nessun capitolo, per questo gridano tanto, quando sono chiusi, come gli animali di uno zoo al tramonto. In teatro possono dire tutto [...] Sovversivo è il teatro: e rassicurante, perché la sovversione dura il tempo della recita. Si chiama in scena la fiera, la si fa ruggire, poi la si rimanda in gabbia e si prendono gli applausi. [...] Gli stessi detenuti, forse, non se ne ricorderanno più, mezz’ora dopo. Non si ricorderanno più di quelle possibili vite di ricambio».
Il cortile diventa piazza
Mi pare indicativo che la più importante compagnia di teatro in carcere in Italia, negli anni in cui ormai il fenomeno teatro-carcere è esploso, non si riesca a (o si rifiuti di) confezionare un normale “spettacolo” – almeno non all’interno del carcere – dove riassumere la propria esperienza ad uso e consumo dello spettatore occasionale. Ma anziché fermarsi, arrendersi o rinunciare, riesce allo stesso tempo a continuare a rilanciare su quale sia il senso di questo fare “teatro”.
Partendo da una riflessione sul rapporto tra l’esperienza della Compagnia della Fortezza e Volterra, l’idea iniziale era stata quella di uno spettacolo che si svolgesse non solo all’interno del carcere, ma anche con gruppi di vario tipo all’esterno nella città: anziani, bambini, normali cittadini avrebbero potuto collaborare nella messa in scena dello spettacolo. Non è stato possibile, in primo luogo per questioni legate ai permessi, realizzare una visione che comportava una relazione così dinamica tra dentro e fuori. E allora è stato il carcere a diventare città. Cancelli e porte che si aprivano e chiudevano in continuazione, persone fino ad allora sconosciute che entravano ed uscivano con strumenti e materiale per tutti gli allestimenti teatrali. Una compagnia attraversa i cancelli del cortile e saluta Armando, un’altra compagnia di cinque attori congolesi passa e va a installarsi in un altro spazio del cortile, qualche detenuto li guarda stupito e poi li saluta. Ritmi di djembé e altri tamburi, voci che declamano e urlano brani. Sui camminamenti delle mura un gruppo di percussionisti (e poi di trombettisti) suona sotto lo sguardo (sospettoso? stupito? curioso?) dei sorveglianti. E di pomeriggio il pubblico, il cortile che diventa piazza, le poesie declamate di fronte alla fontana, gli spazi teatrali che si animano, i gruppi di persone che sciamano.
Nel discorso al termine del Mercuzio non vuole morire, Armando dichiara di aver bisogno di un teatro stabile proprio lì, per raccontare a tutti quest’esperienza e quello che significa. Per raccontare quello che lui e tutti gli “amici” (nell’ordine: detenuti partecipanti e non partecipanti, agenti e personale penitenziario, collaboratori, cittadini, sostenitori) hanno scoperto in questi anni di lavoro. Ricordare come sia assurdo rinunciare ai sogni, senza i quali nessuna realtà può essere trasformata. Ma forse devono dire anche qualcosa di più circostanziato, qualcosa che ha a che vedere con la struttura del carcere e la sua negazione. La chiave sta nel sottotitolo dell’Hamlice, “saggio sulla fine di una civiltà”, civiltà a cui lo spettacolo proponeva un’alternativa. Mi piace leggere questa “fine di una civiltà” come il fallimento del sogno moderno di un progresso basato su una Ragione (riduzionista) che opera escludendo ciò che è diverso (e dunque pericoloso, perché ostile al suo progetto), in modo da rendere più perfetto il mondo attraverso la sua semplificazione arbitraria. Una ragione che nel corso della storia non era adeguato al proprio funzionamento. Ma nello spettacolo non c’era alcun un tono apocalittico, perché la fine di quella ragione preludeva allo sboccio di un’altra, basata sull’accettazione della difficoltà e della complessità anziché sull’esclusione: era quella che dentro veniva chiamata «la logica del teatro».
L’idea che la Ragione abbia assunto nella modernità la forma della “disciplina”, che Foucault aveva elaborato quaranta anni fa, continua ad essere rivelatrice. La civiltà moderna, anziché cingere con le mura la propria città ed esiliare fuori i diversi (i lebbrosi scampanellanti mandati a vagabondare nel contado), ha imparato a rinchiudere gli individui pericolosi in una struttura classificatoria e rigorosa all’interno stesso della città, in modo da riuscire a gestire e controllare anche gli esclusi dal proprio interno: nell’età moderna la pazzia e la peste si combattono con l’immobilizzazione e il rigore. L’architettura della Fortezza, costruita in altri tempi per scopi in parte differenti, si è adattata a quelli della segregazione. Mura enormi che impediscono ogni orizzonte, e nascondono interni che cancellano anche il cielo, l’aria e la luce. Finestre minuscole. Un cortile diviso in gabbie da innumerevoli cancelli. E telecamere dappertutto.
Il teatro – tutto il suo fare e immaginare, e non soltanto lo spettacolo – è una pratica che può dire qualcosa, renderla visibile. E qui, che cosa dice? Che la materia di cui sono fatti i sogni (la stessa, per inciso, della fantasia e della speranza), può riuscire a scalfire e a trasformare – più dei progetti istituzionalizzati e strutturati di rieducazione – un’architettura terribile come il carcere. Un’architettura, non si stanca di ripetere Armando, che non sta solo lì fuori, ma che sta dentro l’uomo che la ha immaginata e poi costruita. Sta dentro l’“uomo” significa sta dentro noi stessi, che volenti o nolenti “uomini” lo siamo. Come dentro di noi sta tutta la possibilità del cambiamento.