Vittorio Emiliani ha bisogno di poche presentazioni. Giornalista di razza – lo si potrebbe definire un autentico “principe” dei giornalisti italiani –, ha iniziato la sua carriera nella carta stampata collaborando con testate prestigiose come “Comunità”, “Il Mondo” di Mario Pannunzio e “L’Espresso”. Inviato del “Giorno”, nel 1974 passò a “Il Messaggero”, che diresse poi negli anni tra il 1980 e il 1987. Successivamente è stato collaboratore del supplemento culturale domenicale de “Il Sole 24 Ore” ed editorialista dello stesso “Messaggero”, del “Secolo XIX” e de “L’Unità”. Al 1989 risale la prima esperienza in televisione come conduttore di un’inchiesta “sui Beni e sui Mali culturali”. Nel febbraio del 1998 fu nominato consigliere del CdA della RAI (di cui divenne Presidente per pochi giorni nel febbraio 2002, dopo la fine della gestione di Roberto Zaccaria e prima della nomina di Antonio Baldassarre). Scrittore prolifico, ha sempre affiancato all’attività giornalistica una apprezzata attività di saggista, con la pubblicazione fino ad oggi di decine di libri suoi e di interventi in opere con altri autori, di taglio e argomento piuttosto diversi. È stato eletto alla Camera dei Deputati nel 1994, nel collegio elettorale di Pesaro, nelle liste dei Progressisti. Dopo la fine anticipata della XII legislatura, avvenuta nei primi mesi del 1996, ha scelto sempre di non ricandidarsi. Da molti anni si occupa con passione e competenza di musicologia (ha scritto anche una ampia biografia di Gioacchino Rossini) e di salvaguardia dei Beni culturali e paesaggistici.
Nel corso della sua ormai lunga vita (è nato a Predappio nel 1935), per interesse sia umano che professionale, Vittorio Emiliani ha incrociato più volte gli anarchici italiani. Da questo interesse sono nati testi di un certo rilievo che costituiscono ancora oggi la testimonianza di una simpatia, duratura e non superficiale, per le figure di alcuni grandi protagonisti dell’anarchismo e per le ragioni di fondo della protesta libertaria tra Ottocento e Novecento. Amico personale di Armando Borghi, conosciuto nei suoi ultimi anni, Emiliani nel 1966 – per l’editrice Alfa di Bologna – pubblicò a propria cura una bella antologia di suoi scritti biografici con il felice titolo Vivere da anarchici. Nel 1973 (Borghi nel frattempo era morto nel 1968) apparve presso l’editore Bompiani il libro di Emiliani Gli anarchici, che contiene le biografie di 7 esponenti di rilievo nazionale del movimento anarchico italiano (il sottotitolo recita: Vite di Cafiero, Costa, Malatesta, Cipriani, Gori, Berneri, Borghi). In seguito, Emiliani riprese e aggiornò tre di quei profili biografici, e pubblicò nel 1995, per i tipi dell’editore Longo di Ravenna, il volumetto Libertari di Romagna. Vite di Costa, Cipriani, Borghi. Si tratta di saggi divulgativi, in gran parte basati su fonti già edite (Emiliani è un giornalista e non uno storico di professione, non può permettersi di passare mesi negli archivi alla ricerca di nuove fonti e di documenti originali), ma è una divulgazione di alto livello, scritta in una prosa brillante e accattivante, tale da rendere i contenuti attraenti per un largo pubblico, che magari non leggerebbe mai i testi – talvolta pesanti – degli storici accademici e dei ricercatori di professione.
I miei rapporti con Vittorio Emiliani risalgono al 1988, allorché si tenne a Castel Bolognese il Convegno di studi su “Armando Borghi nella storia del movimento operaio italiano e internazionale”, organizzato dalla Biblioteca Libertaria “Armando Borghi”. Pur impossibilitato a essere presente al Convegno, che si svolse nella cittadina romagnola il 17 e il 18 novembre di quell’anno, Emiliani inviò un intervento scritto, dal titolo Borghi oratore e scrittore “naturale”, che venne letto durante i lavori e che fu poi inserito negli Atti, pubblicati in un numero monografico del “Bollettino del Museo del Risorgimento” di Bologna (a. XXXV, 1990). Mi permetto di segnalare qui anche un’intervista a Emiliani da me curata, pubblicata su “A rivista anarchica” n. 231 del novembre 1996, che potrebbe essere interessante rileggere ancora oggi.
In terra di Romagna
Anche l’ultimo libro di Emiliani, Il fabbro di Predappio. Vita di Alessandro Mussolini (Bologna, Il Mulino, 2010), ha non poca attinenza con la storia dell’anarchismo italiano. Il personaggio biografato, Alessandro Mussolini, noto soprattutto per essere stato il padre del Duce, fu infatti anarchico all’epoca della Prima internazionale antiautoritaria, seguendo poi Andrea Costa nella sua “svolta” e divenendo quindi un attivo militante prima del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna e in seguito del PSI. Non è la prima volta che Emiliani si confronta con questo personaggio. Già ne aveva parlato nel suo libro I tre Mussolini. Luigi, Alessandro, Benito (Milano, Baldini & Castoldi, 1997), e alcuni riferimenti erano contenuti anche nel precedente volume Il paese dei Mussolini (Torino, Einaudi, 1984). Ma certo questa volta è Alessandro in primo piano, e sono presenti anche alcuni elementi nuovi rispetto ai libri precedenti, che contribuiscono a mettere meglio a fuoco le vicende biografiche, il carattere e il comportamento di un uomo che ebbe una vita piena di passioni (la politica soprattutto, ma anche le donne) e di difficoltà economiche.
Come in tutti i libri di Emiliani di ambiente romagnolo, molto curato è poi lo sfondo sociale politico culturale e comportamentale di una regione (o subregione, come la definisce lui stesso sulla scia del grande geografo Lucio Gambi) che l’autore conosce in modo approfondito per esperienza diretta e per memorie famigliari, anche se le scelte professionali lo hanno portato a vivere gran parte della sua esistenza altrove. Frequenti, e spesso interessanti e gustosi, i riferimenti presenti nel libro alla famiglia dell’autore, che del resto coi Mussolini può vantare una lontana parentela (la nonna materna di Vittorio Emiliani era cugina di Alessandro Mussolini). Grazie quindi anche alla intima frequentazione della realtà locale e famigliare, basandosi su una buona conoscenza della storia dell’anarchismo e del primo socialismo, Emiliani traccia un puntuale e sapido ritratto di Alessandro Mussolini e del suo ambiente, e così contribuisce a rendere più chiaro il contesto in cui Benito trascorse gli anni della sua formazione.
Le fonti scritte utilizzate sono diverse, a partire dagli articoli dello stesso Alessandro Mussolini apparsi su giornali forlivesi (alcuni dei quali riportati integralmente in una Appendice), e da alcuni testi di taglio biografico dei figli Benito e Edvige. Per quanto riguarda le altre fonti scritte, si può partire dal volume di Francesco Bonavita, Il padre del Duce ( 1933), che costituisce la prima biografia in assoluto di Alessandro Mussolini (un’opera in un certo senso commissionata all’autore, un avvocato forlivese socialista in gioventù e poi fascista, da Arnaldo Mussolini, il fratello minore di Benito). Tra gli altri autori utilizzati, ci limitiamo a ricordare Margherita Sarfatti, Renzo De Felice, Rino Alessi, Paolo Cortesi. Lo stesso Emiliani riconosce di avere attinto molte informazioni in particolare dalla ricerca dei predappiesi Valdes Proli e Sergio Moschi, Alessandro Mussolini. Fabbro ferraio, uomo politico (2003). Ma Emiliani, come è ovvio, ci mette anche del suo, consegnando al lettore un libro stimolante che si legge d’un fiato. Se mi è permessa una critica, stona però la presenza qua e là nel volume di errori e imprecisioni che si potevano tranquillamente evitare, dovuti forse a una mancata accurata revisione del testo. Mi limito a citare due o tre esempi, ma se ne potrebbero fare altri: a pag. 19 sono citati, in un elenco di internazionalisti romagnoli, i fratelli Caio e Bruto Zavoli “attivi…a Ravenna” (mentre è noto che erano di Rimini); nello stesso elenco compare il forlivese Temistocle Salvagni (ma nelle fonti a me note e nello stesso Dizionario biografico degli anarchici italiani il suo cognome risulta Silvagni); a pag. 105 come data del regicidio di Bresci è riportato il 21 luglio 1900 (mentre è avvenuto il 29 luglio). Certo, non si tratta di errori tali da annullare i pregi del testo, ma il lettore ne può ricavare una spiacevole sensazione di sciatteria e approssimazione che l’autore non merita, per la sua conoscenza dei temi trattati e per la notevole qualità della sua scrittura.
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Alessandro Mussolini e Rosa Maltoni, genitori di Benito Mussolini |
Un ardente socialista antiautoritario
Alessandro Mussolini nacque l’11 novembre del 1854 a Predappio, in provincia di Forlì (per la precisione in un podere in località Montemaggiore, che apparteneva alla sua famiglia dalla fine del Settecento). Il padre Luigi, personaggio bislacco e psicologicamente instabile, fu il primo dei Mussolini dopo innumerevoli generazioni a lasciare il lavoro della terra, vendendo la sua parte del podere di famiglia a un fratello. Le difficili condizioni economiche della famiglia costrinsero il primogenito Alessandro a interrompere presto gli studi e ad apprendere il mestiere di fabbro ferraio. Ancora giovanissimo, fu apprendista nelle botteghe di diversi fabbri, prima nella sua città poi a Dovadola e infine, a partire dall’agosto 1872, a Meldola. Nel 1876 tornò presso la famiglia (che si era nel frattempo trasferità a Dovìa, oggi Predappio Nuova), e aprì una officina propria. Con ogni probabilità, fu proprio durante il suo soggiorno di quattro anni a Meldola, cittadina dell’Appennino forlivese nella vallata del Bidente non molto distante da Predappio, che avvenne il suo incontro con la politica. Qui si era formato infatti uno dei primi nuclei della Internazionale antiautoritaria, a opera di un gruppo esiguo ma attivo di artigiani, operai, piccoli commercianti, gente incolta ma animata da una tenace speranza di riscatto sociale. Il giovane Alessandro aderì con entusiasmo alle nuove teorie politiche e divenne un ardente socialista antiautoritario.
Il suo ingresso nella politica militante avvenne nell’estate del 1874 quando partecipò al tentativo insurrezionale di Bologna, in cui erano coinvolti esponenti di primo piano del movimento come Bakunin e Andrea Costa. Il gruppo di cui faceva parte il ventenne Alessandro fu intercettato dalla polizia a diversi chilometri dal capoluogo emiliano, la gran parte dei compagni fu arrestata ed egli si salvò, con altri diciassette, dandosi alla fuga tra i campi. Dopo il suo ritorno a Predappio, costituitosi anche là un gruppo di socialisti, per la sua dedizione alla causa il giovane Alessandro ne fu riconosciuto rapidamente come il capo. Delegato dai compagni a rappresentarli, prese parte al Congresso delle Sezioni e Federazioni Socialiste dell’Emilia e Romagna che si tenne nel luglio del 1876 a Bologna. Nel 1878 venne prima ammonito e poi arrestato per avere organizzato una riunione di braccianti non autorizzata.
Morì orgoglioso del figlio, prima che...
Restò in carcere alcuni mesi, e la sorveglianza speciale nei suoi confronti terminò solo nell’ottobre 1882 allorché venne prosciolto dall’ammonizione. Il legame speciale con Andrea Costa, e la venerazione che provava nei suoi confronti, lo portarono a seguire il suo leader – a partire dai primi anni Ottanta – sulla strada del socialismo legalitario. Senza dimenticare altri fronti di lotta a favore dei lavoratori, si impegnò a fondo nelle varie elezioni sia locali sia per il Parlamento nazionale. Fu per diversi anni consigliere comunale, e anche assessore. In varie circostanze, pur essendo radicale nei principi professati, si mostrò proclive a compromessi e a transazioni fin troppo disinvolte (come quando, nel 1897, fece convergere il suo pacchetto di voti sul conservatore e fervente monarchico marchese Alessandro Albicini di Forlì, che risultò poi effettivamente eletto, perché aveva promesso lavori pubblici per i numerosi disoccupati di Predappio; per inciso, va riconosciuto che il marchese mantenne poi la promessa). Nel 1902 fu incarcerato per la seconda volta, a seguito di colluttazioni fra socialisti e clericali nel corso delle quali vennero anche distrutte delle urne elettorali (restò in carcere per 167 giorni). Collaborava con articoli e corrispondenze ai giornali forlivesi “Il Risveglio” e “La Lotta” (socialisti), “Il Pensiero Romagnolo” (repubblicano), “La Rivendicazione” (diretto dall’anarchico Germanico Piselli). Acceso anticlericale e noto mangiapreti, nel 1882 si era sposato con la cattolicissima maestra Rosa Maltoni, cedendo alle sue richieste di celebrare il matrimonio in chiesa e successivamente di battezzare i 3 figli. Assorbito dalla passione per la politica, trascurò il lavoro lasciando spesso chiusa l’officina di fabbro per trascorrere le giornate coi compagni e in osteria. Le condizioni economiche della famiglia ne risentirono, e per diversi anni il reddito fu rappresentato quasi esclusivamente dal magro stipendio da maestra della moglie. Sfiancata da una vita di intenso lavoro, di ristrettezze economiche e di mortificazioni, preoccupata per come stava crescendo il suo primogenito Benito dal carattere difficile chiuso e violento, Rosa Maltoni morì a soli quarantasei anni, stroncata da una broncopolmonite nel febbraio 1905. La morte della moglie fu un colpo durissimo per Alessandro, già uscito provato dal carcere. Pur restando iscritto al Partito socialista, abbandonò la militanza e si chiuse in se stesso. Lasciato solo dai figli, andati a vivere per proprio conto, Alessandro si trasferì a Forlì, dove prese in gestione una trattoria. Convisse con una vedova, Anna Lombardi, madre della Rachele Guidi di cui si innamorò il giovane Benito e che divenne presto sua moglie. Alessandro, colpito da una emiplegia nel gennaio 1910, sembrò prima riprendersi ma poi ebbe una nuova crisi e morì il 19 novembre dello stesso anno, a cinquantasei anni di età. Il figlio Benito, che proprio all’inizio del 1910 era stato nominato segretario della Federazione Socialista forlivese e direttore del periodico “La Lotta di Classe”, lo commemorò con un articolo listato a lutto sul suo giornale (Mio padre).
Dopo la conquista del potere da parte del fascismo, i genitori del Duce furono oggetto di un vero e proprio culto, in particolare Rosa Maltoni (“la Madre”). Un po’ meno il padre, le cui concezioni politiche rigorosamente socialiste erano obiettivamente, nel nuovo clima politico, fonte di un certo imbarazzo. I biografi e gli apologeti se la cavarono come meglio poterono, cercando di idealizzare la sua figura, in un certo senso santificandolo. Ma il personaggio continuava ad essere difficile da trattare, e quindi – salvo quando non si poteva fare altrimenti – venne in un certo modo rimosso.
Alessandro Mussolini morì socialista, orgoglioso del figlio primogenito che sembrava seguire – con maggiore intelligenza e cultura – le sue orme. Non fece a tempo a vedere la parabola successiva di Benito, con i voltafaccia che lo portarono a rinnegare tutto quanto aveva sostenuto nella sua giovinezza, a perseguitare i vecchi compagni rimasti fedeli ai loro ideali, a divenire il capo di un regime dittatoriale autoritario militarista e bellicista. Non possiamo sapere come il vecchio Alessandro avrebbe reagito, se fosse vissuto più a lungo e avesse assistito a un tale stravolgimento.
Ci permettiamo di dubitare che avrebbe approvato le giravolte del figlio, perché quello di Alessandro, pur con limiti, ingenuità e contraddizioni, fu un socialismo autentico. Un socialismo che traeva la sua linfa vitale da un sentimento di solidarietà umana nei confronti degli sfruttati e degli oppressi e di ribellione di fronte alle ingiustizie. Un socialismo che mai troncò del tutto i legami con la tradizione libertaria delle sue origini, che risalivano all’epoca della Internazionale antiautoritaria.