Tutta la storia in un nome: Scighera. Quella densa bruma mattutina che si alza dalle rogge milanesi, il fiato umido dei fontanili. La nebbia che modifica i contorni del reale, che penetra nel nostro immaginario. Una parola affettuosa e antica del dialetto milanese, vezzeggiativa, con un suono quasi lusitano. Un fenomeno odiato e temuto da tutti i viaggiatori del mondo che a Milano assume un significato positivo, di presenza amica. Un termine che nella sua stessa radice coglie l’essenza della nebbia: indomabile, indefinibile, sognante. Infatti, come ci raccontò un cultore di dialetto meneghino, il termine scighera – oggi considerato vetero milanese – sarebbe arrivato in città con la dominazione degli spagnoli, i quali, a loro volta, lo avrebbero appreso dagli arabi. Ecco il senso della nostra storia: radicarsi in una cultura locale guardando al mondo. La nebbia che sfalsa le distanze. Ma questa è letteratura all’ingrosso; la realtà è fatta di persone, di scelte, di intuito, di capacità di leggere il presente. Così molto più prosaicamente quattro anarchici legati anche da un forte vincolo di amicizia, diversissimi tra loro per capacità, età ed esperienza, iniziarono nel 2005 a ragionare su un’ipotesi semplice (a parole) e ambiziosa (nei fatti): creare una scatola aperta nella quale far convergere socialità, politica, cultura. Partendo da zero. Senza soldi, senza modelli di riferimento e senza specifiche esperienze di gestione.
Un’idea così generica da far sorridere alcuni, che ci spinse via via a raffinare il nostro progetto: socialità, politica, cultura dovevano essere declinate e rese compatibili tra loro in una scatola piacevole ed efficiente.
La socialità è notoriamente la merce più rara in un posto come Milano, nel quale il tuo status di persona è correlato alla tua capacità di spesa. Creando bisogni sempre più individuali e socialmente controllabili. Momenti di libera aggregazione non sono contemplati, a Milano più che in qualsiasi altra città italiana. Certo, la città non ha spiagge, ha un clima pessimo che mal s’addice a qualsiasi attività all’aperto, non ha mai avuto piazze d’incontro ma solo tristi giardinetti spartitraffico. Eppoi è vittima della sua storica maledizione: è la metropoli del lavoro e dei monolocali. Ancor oggi sedersi su una panchina a oziare in orario di ufficio vuol dire sentirsi in imbarazzo. Osservato e giudicato.
Ma è anche una città che ha saputo creare per oltre un ventennio una fitta rete di centri sociali, spazi autogestiti, che hanno garantito gli anticorpi, la concreta possibilità di recuperare il tempo rubato dall’autismo cittadino.
È proprio da queste esperienze che prendemmo spunto, sia per profonda conoscenza diretta delle migliori realtà di “movimento” sia per la presa d’atto che questa stupenda risorsa sociale andava spegnendosi tra sgomberi, esaurimento della spinta propulsiva, incapacità a radicarsi realmente nei quartieri e, in alcuni casi, per un eccesso di settarismo propenso ad escludere piuttosto che a includere.
Proprio in questo delicato passaggio cittadino si innestò la nostra proposta: cercare di ripensare le forme di aggregazione, imparando dagli errori commessi e, possibilmente, uscendo da una logica di scontro frontale. Due sono le precondizioni per scommettere sulla riemersione dello spirito sociale: garantire un luogo accogliente e creare un terreno partecipativo reale, nella conduzione e nelle scelte di fondo della Scighera.
Per formazione culturale ci parve che l’archetipo gioioso di riferimento non potesse che essere l’osteria. Non il bar, proprio l’osteria. Una tipologia di locale oramai estinta, almeno a Milano. Naturalmente in forma aggiornata e corretta. Uno spazio nel quale non ci sono clienti ma avventori e chi sta dietro al banco fa l’oste, una figura burbera ma amica, capace di ascoltare ma anche di dire la sua e senza tanti fronzoli per giunta, perché alla Scighera nessuno è obbligato a consumare e tanto meno a servire. Ci si viene alla pari.
“L'anarchia si vede dalla pulizia dei cessi”
Ci piaceva pensare che fosse possibile rinverdire questa tradizione da sempre caratteristica delle Case del Popolo o dei circoli ARCI, uscendo dagli stereotipi degli anziani giocatori di bocce e bevitori di bianchini ma puntando su una fascia nuova che poi è diventata lo zoccolo duro dei frequentanti: i trentenni. Una categoria di persone che hanno una formazione politica alle spalle, vogliono sapere che vino bevono e cosa c’è nel piatto, si attendono iniziative di un certo livello intellettuale, magari vengono con i figli per passare una serata e quindi pretendono standard di vivibilità elevati. Insomma: “L’Anarchia si vede dalla pulizia dei cessi”. Ma, sopra ogni altra valutazione, una fascia di persone ancora disposte a farsi coinvolgere in una scommessa, in una sfida partecipativa per nulla paludata e dagli esiti imprevedibili. In sostanza quella profonda richiesta di sano protagonismo per alcuni, di militanza per altri. “Di vivere quel tanto di anarchia possibile” per altri ancora. Quella casa comune che lascia la possibilità ai suoi abitanti di decidere quale grado di relazione vogliono/possono intrattenere con gli altri.
Per garantire questa apertura, necessitava stabilità, ragionevole durevolezza che un’occupazione non avrebbe garantito, oltre ad aver spostato infinite energie nella difesa “militare” degli spazi. Ci piaceva confrontarci con le Case del Popolo: anche noi volevamo iniziare una storia che non si esaurisse con i fondatori ma che fosse capace di trasmettersi per generazioni (si sa, quando si parte con un’utopia, bisogna essere velleitari e un po’ arroganti: qualità che certo non ci mancavano). Di più: innestarci in una grande tradizione popolare per portare il nostro contributo libertario dialogante con altre tradizioni politiche ma anche essere una risorsa creativa che genera conflitti.
Però la storia ha un suo peso, attuare questi intendimenti voleva dire fare scelte precise che ci portarono subito a due conseguenze pratiche: costituire un’associazione legale e relazionarci con il mondo ARCI che è a tutt’oggi l’unica organizzazione popolare non confessionale rimasta in campo.
Se sulla questione di creare un’associazione non si crearono particolari discussioni dato che già da tempo eravamo orientati verso un anarchismo che si innervava nella società, usando tutti gli strumenti a disposizione, cercando di creare continue pratiche di libertà nelle zone grigie della società, non propagandando la palingenesi sociale ma rendendo appetibile ai più l’idea che la democrazia diretta conviene a tutti, qui e ora.
Se per arrivare a questo obiettivo la strada più agevole era quella di andare da un notaio a depositare uno statuto, era un passo che non ci spaventava. E avevamo ragione, perché sino ad oggi, l’unico mandato inderogabile assembleare che ha il nostro Presidente e tutti gli organi direttivi previsti dalla legge è quello di NON operare. Credo sia abbastanza curioso che i soci eleggano delle persone con il compito di non fare nulla, pena l’immediato decadimento. Eravamo e siamo convinti che la democrazia passa per l’informale, per la reale partecipazione delle persone e non per maggioranze ad alzata di tessere, ma su questo punto essenziale avrò modo di parlarne diffusamente oltre.
I problemi invece si posero sulla nostra adesione all’ARCI: qua la storia e i percorsi politici avevano una loro indiscutibile valenza. Venivamo da una cultura politica di contrasto con il mondo comunista e con i suoi elefantiaci apparati di supporto, e consideravamo l’ARCI storicamente una cinghia di trasmissione del partito, un tassello di quella egemonia culturale che avevamo sempre combattuto. Certo, moltissima acqua era passata dal crollo dei paradisi socialisti e dalla benemerita scomparsa del PCI ma la diffidenza verso questo modo di organizzare il consenso rimaneva alta, quasi una inconscia reazione pavloviana. D’altronde sospetto che la stessa diffidenza albergasse in alcuni dirigenti dell’ARCI, abituati a temere entrismi di chissà quale natura e turbolenze anarcoidi. In realtà l’ARCI aveva da tempo intrapreso un cammino di autonomia dalle forze politiche (per sua fortuna e per sua salvezza) marcando sempre più l’aspetto associativo e diventando (in particolare a Milano) un vero punto di confluenza della sinistra diffusa, di percorsi un tempo considerati inconciliabili. Ovviamente la democrazia interna all’ARCI non si poteva certo definire come un esempio di autogestione antigerarchica ma comunque non abbastanza ferrea da non lasciare spazio a esperienze e orientamenti diversi. Da parte nostra scoprimmo una reale non ingerenza nella prospettiva politica della nostra associazione e un terreno costruttivo (anche se alle volte burrascoso) di confronto a tutto campo. Spesso ci siamo trovati in disaccordo su alcune impostazioni, alle volte nostre intuizioni sono diventate patrimonio diffuso dell’ARCI Milanese, qualcosa abbiamo imparato anche noi, comunque il bilancio rimane positivo per la nettezza delle posizioni reciproche. Se non proprio un matrimonio d’amore, nemmeno un bieco matrimonio d’interessi.
L’impalcatura legale era stata avviata, ora si trattava di trovare un posto. Da subito l’idea di pietire qualche luogo alle istituzioni pubbliche ci parve una scelta perdente. Volevamo la nostra totale libertà d’azione, non volevamo essere condizionati da ricatti politici, favori da rendere, diventare pubblico-dipendenti come altre associazioni sempre in affanno per qualche briciola, qualche convenzione. Volevamo dimostrare la nostra capacità di essere sostenibili in una città ultra capitalista come Milano, nemica del sociale e dei buoni sentimenti, con una consolidata e aggressiva amministrazione di destra.
Lanciammo la nostra sfida: troveremo le nostre fonti di avviamento del progetto nelle risorse dei privati. “Volete investire? Benissimo, noi vi promettiamo dei dividendi di libertà e di cultura”. In sostanza cercavamo gente illuminata, capace di vedere oltre e di valutare le nostre potenzialità operative. Milano non è solo l’acquario di cupi squali ma ha sempre avuto anche una borghesia aperta e attenta al nuovo.
Sembra incredibile ma trovammo veramente un mecenate che raccolse la nostra sfida e ci permise di affrontare l’affitto, l’avviamento del primo anno, senza nessuna contropartita se non quella di realizzare ciò che predicavamo.
Un saldo epicentro di socialità
Ci lanciammo nella ricerca di una sede che avesse qualità polifunzionali, quanti erano i nostri infiniti bisogni di fare cultura ma anche di stare assieme, di avere ambiti più raccolti e odorosi di storia. Finché non individuammo un capannone di circa 500 mq nel popoloso quartiere periferico della Bovisa. Era la situazione ideale: una struttura appena restaurata dei primi anni del novecento incastonata in una casa di ringhiera, in una zona di solide tradizioni operaie ma in via di radicale mutazione a causa dell’insediarsi del nuovo polo universitario. Più strati storici e sociali si sommavano in una dialettica faticosa ma intensa: l’identità operaia rossa che si confronta con le nuove immigrazioni, l’affacciarsi degli studenti e dei ceti emergenti; le vecchie fabbriche in demolizione a fianco di quelle recuperate alle nuove arti, al sapere, alle nuove produzioni. Ci piaceva entrare nel vivo di una trasformazione epocale: uno dei più connotati quartieri milanesi (il bastione della classe operaia, oramai pensionata) andava verso un rapido futuro, pieno di incognite speculative ma anche di nuove interazioni. Dopo vent’anni di disgregazione sociale.
Il luogo determinò le direttive fondamentali del nostro agire: un punto di riferimento cittadino (con proiezione internazionale) ma legato ad un circoscritto ambito territoriale, volevamo tutti ma in particolar modo gli abitanti del quartiere. Essere per la zona un saldo epicentro di socialità ma anche di protagonismo politico, un luogo dove le diverse anime del quartiere potessero parlarsi, condividere obiettivi mirati al risveglio partecipativo degli abitanti.
Oltre all’attenzione verso le associazioni esistenti, i comitati di quartiere, la partecipazione alle iniziative pubbliche, alcuni membri della Scighera iniziarono un percorso autonomo che negli anni ha consolidato pratiche di riconquista del territorio, organizzando vere e proprie occupazioni non autorizzate delle desolanti piazze del quartiere, organizzando aperitivi autogestiti, giochi per bambini, canti e balli. È una modalità di messaggio che punta al cuore del problema senza tanti documenti di analisi: gli abitanti possono vedere direttamente come uno spazio amorfo può diventare una risorsa comunitaria, riscoprendo il significato di piazza come luogo d’incontro; prima osservando a lato, poi pian piano portando cibo, figli e voglia di conoscersi, rompendo la rigida divisione per gruppi etnici. Senza dover chiedere chissà quali autorizzazioni.
La propensione verso la zona non ci faceva però perdere di vista il nostro obiettivo primario: fare politica a mezzo cultura di alta qualità. Per questo, da subito, abbiamo avuto bisogno delle migliori teste in circolazione, diverse per interessi culturali, per inclinazioni. Unite da un afflato libertario e dall’antidogmatismo. Non volevamo spiegare al mondo che avevamo sempre avuto ragione noi, magari rispiegandolo ai duri di comprendonio con un po’ di grandi nomi e ammiccamenti. Volevamo invece che la Scighera diventasse un crocevia del dubbio, della ricerca, del confronto tra pari. Abbiamo sempre considerato l’anarchismo come un un progetto in eterna costruzione, vitale perché incapace di chiudersi in certezze claustrofobiche, dialogante e pronto a carpire i pezzetti di verità che portano altre impostazioni politico-culturali. Non abbiamo mai temuto di perdere qualche cosa ascoltando chi ci contraddice e, a distanza di anni, questa impostazione è stata largamente riconosciuta: oggi la Scighera è considerata come un naturale laboratorio cittadino di riflessione critica, nessuno la avverte come un luogo ostile al confronto, men che meno una sorta di scuola di partito. Per sapere le iniziative della nostra associazione non serve andare su qualche sito rivoluzionario, basta aprire il borghesissimo Corriere della Sera. Gli ospiti sanno che non saranno mai zittiti ma che potranno essere duramente ma civilmente contrastati.
D’accordo, detta così può significare tante cose, ma chi ha deciso gli oltre 1.500 (cifra per difetto) eventi tra grandi e piccoli che si sono prodotti in questi primi cinque anni? Chi ha mantenuto con accortezza la barra del libertarismo non invadente? È stata la struttura non legale che ci siamo dati, un corpo magmatico in continua evoluzione, saggiamente incapace di ridursi ad uno statico organigramma. Ci si attenderebbe un’efficienza piramidale dietro l’immensa capacità propositiva del nostro circolo, magari con a capo l’immancabile assemblea. Invece l’assemblea c’è ma è uno dei tanti organismi orizzontali che si pone in modo dialettico (e non di rado conflittuale) con altre strutture decisionali. Modificandosi in base alle necessità e purtroppo, a volte, in base ai rapporti di forza. Nello specifico l’assemblea è nata come gruppo di cooptati che aveva il compito di “Gran Consiglio” sulle politiche culturali: sostanzialmente un ruolo di supporto ai fondatori.
Cementata da forti legami amicali e di identità politica. In seguito l’assemblea ha allargato la sua sfera di azione alla gestione delle relazioni esterne a qualsiasi grado e qualità, alla risoluzione di qualsiasi problema (dai lavandini otturati alla nostra partecipazione a qualsiasi iniziativa pubblica), a fonte di legittimità rispetto a tutto il resto del corpo scigheriano. Oggi (dopo ulteriori e importanti cambiamenti), l’assemblea è aperta a tutti i militanti che attivamente collaborano alla vita del nostro spazio e il suo compito è quello di luogo di elaborazione della strategia politica, di motore che favorisce la partecipazione dei nostri ottomila soci, di grandi decisioni economiche. Il primo cemento solidale è andato indebolendosi a favore di chi si attiva quotidianamente (passando lo straccio o proponendo una attività intellettuale) per far vivere questa piccola utopia. L’identità è diventata la casa Scighera e non le reti affettive della prima ora. E le pratiche decisionali sono state infinitamente modificate, calibrate, accantonate, ridiscusse.
Una foresta di organismi
In linea generale nessuna forma di decisione è esclusa a priori ma è pur vero che non si sono mai prese iniziative ad alzata di mano. Naturalmente questo non vuol dire che non si formino solide maggioranze o minoranze organizzate e influenti ma tendenzialmente si punta alla condivisione, alle volte attuando un passo indietro per evitare inutili spaccature, in altre cercando faticosamente di attuare pratiche del consenso, in altre ancora rallentando (quando è possibile) i meccanismi decisionali in attesa di un’ulteriore approfondimento. Mi piace ricordare che alle volte utilizziamo anche il gioco che permette di cambiare i ruoli delle persone, scompaginando le carte e attivando dinamiche creative per superare il conflitto. A tutti è garantito individualmente il diritto di veto ma non è mai stato usato (sicuramente per senso di responsabilità ma forse anche perché il peso psicologico che comporta per chi lo attua, lo rende possibile solo per situazioni veramente gravi). Facendo un bilancio a volo d’uccello di questi anni, le decisioni prese dall’assemblea si sono determinate all’interno di un vastissimo ventaglio di opzioni: molte sono state prese all’unanimità convinta, altre per lenta elaborazione consensuale, ma è anche capitato che minoranze/maggioranze decise (sebbene pudicamente mimetizzate) si imponessero (con scarso successo pratico peraltro, dato che non esiste nessuna decisione con forza di vincolo individuale ma solo decisioni per convincimento reale, sono finite tranquillamente nel dimenticatoio). È un campo misto, nel quale l’autorevolezza di chi propone ha un suo innegabile peso ma che viene moderato dal principio di eguaglianza tra i membri dell’assemblea. Con il risultato finale che sempre una proposta esce modificata dal vaglio assembleare.
A fianco dell’assemblea esiste una foresta di altri organismi che autonomamente hanno avuto una loro specifica evoluzione, particolari forme decisionali, attagliate allo scopo e ai numeri dei partecipanti. Per semplificazione possiamo raggrupparli in tre categorie: i gruppi afferenti al funzionamento della struttura (gruppo di gestione logistico, gruppo comunicazione, commissione studi economici, commissione cucina e prodotti) che sono stabili, hanno compiti ben definiti ma non sono formati solo da specialisti. Le commissioni che formano le attività pubbliche e sociali della scighera (commissione musica, teatro, bambini, presentazioni editoriali, arti visive, mostre, eventi speciali, corsi, territorio, turismo politico, gruppo di attivazione soci) esse sono formate da tutti i soci interessati ad una specifica programmazione, alcune hanno più di venti partecipanti altre un pugno di persone, alcune si riuniscono settimanalmente, altre si coordinano quasi esclusivamente via mail. La terza categoria è formata dalle commissioni volanti, che nascono per un delimitato compito e si dissolvono a obiettivo raggiunto (ad esempio l’organizzazione delle iniziative esterne estive, l’organizzazione dei pranzi sociali, specifiche iniziative politiche), normalmente necessitano di diverse competenze e la loro natura è trasversale.
L’insieme di queste strutture mobilita un centinaio di militanti che formano il nocciolo duro della Scighera che si alimenta attraverso le iniziative rivolte specificatamente ai soci (le assemblee generali semestrali, i pranzi sociali bimestrali, le feste di anniversario, o più modestamente ma efficacemente, attraverso la continua attenzione di chi sta al banco e fornisce informazioni utili alla partecipazione).
È in ultima analisi una struttura estremamente fluida e policentrica che garantisce una duttilità operativa ma anche rispettosa per la disponibilità delle singole persone, certamente chiassosa e potenzialmente conflittuale ma decisamente più efficiente del silenzio gerarchico. Andando contro i modelli di risparmio, possiamo dire che il consumo di energia smodato che richiede un sistema aperto, per noi diventa una risorsa creativa e di sperimentazione costante, la fatica è largamente compensata dalla fantasia produttiva che nasce dal coinvolgimento emotivo che molta energia produce.
Un forza che non si ferma a quel centinaio di militanti particolarmente coinvolti ma che si trasmette almeno ad un altro migliaio di nostri soci che sono sensibili alle nostre mobilitazioni. È quanto abbiamo potuto verificare nell’inevitabile scontro con le istituzioni cittadine che, nella loro eterna paura di non saper controllare/classificare l’esistente, non hanno perso tempo nella repressione. Appigliandosi a interpretazioni faziose delle norme hanno cercato di soffocarci con multe stratosferiche sino all’ingiunzione di chiusura per tre giorni della Scighera e la minaccia di ulteriori denunce penali e la chiusura definitiva della nostra sede. Non sapevano bene cosa diavolo fossimo: non un locale imprenditoriale, non un centro sociale, non una muffosa sede di qualche organizzazione politica. Non volevano accettare una verità così rivoluzionaria: che senza la paura da loro indotta e profusa a piene mani, le persone amano associarsi senza fini di lucro e magari ci prendono gusto...fino al punto di sfidare l’esistente e credere che non sono soli e che un’altra città è possibile, anzi, è già in essere.
Naturalmente la nostra risposta non tardò e fu articolata. L’ARCI milanese lanciò una campagna per il diritto all’auto organizzazione, noi non disdegnammo di perseguire le vie legali ma nel frattempo, i tre giorni di chiusura imposta, si trasformarono in una occupazione della Scighera e delle strade circostanti con una programmazione ancor più sostenuta, la bandiera nera con il nostro nome cucito in rosso fu issata sulla pubblica via, decine di artisti improvvisarono spettacoli in nostro favore ma, soprattutto, il quartiere, i nostri soci, la gente che aveva sentito parlare di noi, accorsero a nostra difesa e a difesa di un principio di libertà, uscirono di casa e si schierarono: un peggior risultato questa amministrazione non poteva ottenerlo. Pensavano di risolvere tutto con quattro vigili urbani e si trovarono a fronteggiare un problema di ordine pubblico fatto da pensionati, ragazzi, mamme; gente normalmente ossequiosa verso l’autorità costituita, persone non identificabili con un cappello politico. Volevano verificare se noi eravamo una vera associazione? Eccoli accontentati: la nuova Casa del Popolo aveva trovato il suo popolo che decise, in un’assemblea partecipata da oltre 200 persone, la conduzione della lotta.
Oggi possiamo ben dire che quel piccolo innesto libertario è cresciuto, ha dato dei frutti e gettato ulteriori semi in realtà che hanno intrapreso percorsi simili al nostro anche a livello internazionale. Ma non è una storia già finita: l’inafferrabile scighera torna a levarsi pervicace come sempre, verso nuovi orizzonti imprevedibili.
Dino Taddei
Case del Popolo - Case di tutti?
Case del popolo, case di tutti, è il titolo della coedizione fra due pezzi del Movimento Anarchico Fiorentino (Collettivo Libertario Fiorentino e Centro Studi Storici della Val di Pesa).
Gino Biondo, del CLF, spiega le Ragioni della ricerca che sono essenzialmente individuabili nel percorso che dalle SMS porterà alle CdP fino alla perdita dei fondamentali caratteri originari, andando ad individuare, se ci sono, possibili sviluppi o trasformazioni di quei contesti.
Alberto Ciampi, del CSSVP ne Le CdP fra globale e locale, effettua a volo d’uccello, una breve indagine che dalla maison du peuple di V. Hortà alla Casa del Popolo di Cerbaia in Val di Pesa, legge un percorso di autocostruzione e di autoformazione che ha visto la classe operaia in senso lato, protagonista e attrice principale, dove la componente anarchica è stata parte attiva. Leonardo Palli, responsabile dell’Archivio Storico ARCI di Firenze, con Le Origini. Breve storia delle SMS, delle Case del Popolo e dei Circoli dell’Arci prima dell’Arci, indaga le motivazioni e le ragioni, fra Marx e Bakunin, della nascita delle SMS e quindi degli sviluppi in alcuni specifici contesti fiorentini.
Marco Rossi, storico, particolarmente attento al primo antifascismo di matrice anarchica (Arditismo), con Le case del popolo nella tempesta fascista, esamina in maniera meticolosa l’aggressione alle SMS e CdP durante quello che un tempo veniva definito “biennio nero”. Il testo da conto in modo puntuale delle distruzioni, degli incendi, delle devastazioni.
Giorgio Sacchetti, storico dell’Univ. di Padova e Trieste con Guerra Civile e sociabilità operaia nel Valdarno minerario (1919-1921), concentra la propria analisi in un ambito specifico e locale che si riverbera e investe la società intera, in parallelo alla fascistizzazione dell’Italia. Nelle conquiste operaie e sindacali in ambito minerario, le CdP hanno un ruolo attivo, come quella di San Giovanni Valdarno che funge da quartiere generale del movimento.
Sergio Mechi del CLF, ispiratore del volume, evoca nel titolo, Sono nato alla Casa del Popolo, la propria biografia, attraverso la quale racconta stati d’animo, rapporti, problemi, all’interno di una CdP di Firenze sud.
Massimo Carrai, storico che si è più volte interessato di CdP, ha donato un suo studio, dal quale viene estratta una delle questioni cardine della fortuna e della crisi dell’associazionismo, L’egemonia del PCI, nei furibondi anni Cinquanta.
Antonio Pedone, anarchico perugino, ci introduce ad un capitolo collettaneo, inclusa una incursione nel web. Con La CdP del Diavolo e Pontevalleceppi, che del diavolo ha solo il nome derivante dal paese, e considerata l’avversione della Chiesa per le CdP, pare rispondere alla stessa, per le rime. Seguono alcuni estratti da internet che i curatori hanno ritenuto significativi: Jacopo Fo. La casa del Popolo torni al popolo e AA.VV. Altre Case, altri casi. Infine ma non ultimo, bensì come nuovo inizio, Dino Taddei con Nebbia, o scighera, in Val Padana, con passione racconta e fa intravedere una nuova vita delle CdP. Il caso milanese assurge a paradigma e diventa motivo di speranza, una sorta di atteggiamento positivista come quello che mosse le prime Società di Mutuo Soccorso che nell’associazionismo laico colsero le ragioni di emancipazione sociale, rispondendo almeno in parte alla domanda iniziale posta da questo lavoro: Le CdP hanno un futuro?
Un sintetico Inserto fotografico con tavole fuori testo, illustra il lavoro, in parte dedicato alle distruzioni fasciste. |