Un matto dei nostri tempi
Il primo disco di Matteo Castellano
Io l’avevo visto subito che c’era del genio in quella sregolatezza, dell’armonia nelle trame dei maglioncini di lana un po’ infeltriti che a volte indossa.
Tre, quattro anni fa andavo spesso a Torino, e lì m’era capitato di vedere crescere una piccola battagliera schiera di giovani musicisti che frequentavano la canzone d’autore. Come purtroppo sappiamo, molto di quello che si sente di questi tempi, dai più e dai meno giovani cantautori, è fortemente derivativo e tendenzialmente estetizzante.
S’intenda, questa generazione di musicisti nati negli anni ’80 è preparata a livello musicale in modo ineccepibile: sanno suonare, hanno stile, hanno charmes, badano a cosa mettersi addosso.
Però è raro che escano dalla scenografia. Se queste canzoni sono film, mi capita di trovarci dentro una splendida fotografia, una grande colonna sonora… ma, quand’è finita la canzone, mi pare sempre di non aver capito dov’era la storia, né dov’era l’urgenza di raccontarla.
Matteo Castellano mi era apparso allora completamente diverso, come uno spaventapasseri impazzito in mezzo ai corvi (perché la maggior parte dei musicisti trova necessario indossare solo il nero).
Violento e allucinato come un giallo di Van Gogh, spiaccicato direttamente su una tela, Castellano è lungo di corpo e spesso di pensiero. La sua urgenza, il suo allegro malessere ti arriva in faccia come l’onda lunga dell’oceano, che non riesci a calcolare dove si ferma.
Bazzicando ambienti libertari e alternativi, suonando e dormendo ovunque, sui tavoli dei bar e persino per strada, in barba alla rigidità climatica e morale di Torino, Castellano ha fatto un apprendistato di vita e di canto che gli ha spezzato la voce ma non l’intenzione, che gli ha tirato fuori un’umanità che non ha paura di essere disperata e allegrissima, profonda e cialtronesca.
La voce spezzata, dicevamo. La voce ti rivela sempre se il cantante è uno vero. Un uomo che canta, appunto, e non un cantante.
Matteo ha questo timbro rotto, da bambino che ha troppo pianto o forse troppo riso, non so. So che grida spesso, quasi sempre, ma non urla mai. C’è una bella differenza, l’urlo è una cosa preparata, che s’impone e pretende attenzione. Il grido invece è l’espressione immediata, che vuole superare il fischio del treno che ti sta portando via qualcosa o qualcuno di molto amato.
La voce di Matteo non ci prova e non finge, non grida per imporsi, ma per fare domande che non possono essere sussurrate. Il ragazzo non è stato allevato nei salotti bene dove non è educato alzare la voce, ha dovuto imparare a far sentire anche le sue dichiarazioni d’amore e di tenerezza sopra i claxon, il vocio e il rumore di fondo che fa la città.
Torino è due o tre anni che non la frequento più e così non ho avuto il piacere di rivedere Matteo, che come tutti gli artisti a me fa un po’ paura. Non sai mai cosa aspettarti da queste teste matte: un bacio, una battuta sarcastica o l’indifferenza. D’altronde sono anch’io così.
Però di Matteo non mi sono scordato e ogni tanto mi facevo un giro su internet per capire come se la passava. Così qualche tempo fa scopro che finalmente ha fatto un CD, uno vero con 11 canzoni, copertina e tutto. “Ezio” è il titolo.
Ma non so proprio dove procurarmelo, si sa che la distribuzione è il dramma delle piccole etichette.
Alla fine lo chiedo con una mail direttamente a lui “così ne parlo su qualcuno dei giornali anarchici” ho detto, bluffando.
Ora voi sapete che io non scrivo recensioni. Chi segue questa rubrica ha notato che racconto la storia e le canzoni di cantautori lontani nello spazio (di preferenza francesi, ma anche russi, cechi, portoghesi, ecc.) e nel tempo. I classici del nostro genere, insomma.
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Matteo Castellano |
Spesso ottimi artisti, grandi colleghi che stimo e ammiro, mi chiedono se posso parlare del loro disco su “A rivista anarchica”… ma io declino, anche perché chi fa a sua volta il cantautore è bene che si astenga dal recensire. Sia nel caso che un disco ti piaccia, sia nel caso che non ti piaccia, sia nel caso tu non trovi nulla da dire, sarai accusato di farlo per reconditi scopi di utilità… insomma il conflitto di interesse in questo paese si prende in considerazione solo per i musicisti.
Matteo mi risponde con un’”OK”. Poi un lungo silenzio. Ogni tanto guardo la cassetta della posta. Nulla. Capisco che non avrò il maledetto CD!
Anzi no, scopro che è acquistabile in mp3 da internet. Lo acquisto e me lo sento.
Il difficile passaggio sul supporto sonoro di un personaggio come Castellano – che abbiamo visto non essere un cantante, ma un uomo, e che dunque deborda dalle sue canzoni con il corpo angoloso, con la mimica imbronciata, con la risata di cuore disarmante – è riuscito.
Matteo c’è. Le sue storte canzoni d’amore, la sua filosofia che si confronta col tempo e con la morte, ma poi s’arrende davanti a una battuta a un lazzo, a una pernacchia, ci sono.
C’è la leggerezza di un irresistibile brano comico su un eterno suicida, che per troppa indecisione sul come ammazzarsi, finisce per sopprimersi nel più certo dei modi, si ammazza di vecchiaia.
C’è una grandiosa satira contro la vuota arroganza dell’uomo ricco.
Hai pagato la tua Porches cento milioni
Hai pagato la tua Porches cento milioni
E l’hai comprata grigia grigia grigia
E l’hai comprata grigia… è come la tua vita.
Sta felpa costerà cent’euro buoni
Sta felpa, io lo so, son cento buoni
E l’hai comprata grigia grigia grigia
E l’hai comprata grigia… è come la tua vita.
La donna hai conquistato regalandole dei fiori
Glieli hai portati grigi… ma non conosci altri colori?
Questo mazzo m’annuncia il più triste degli amori
Ma s’intona con la Porches e mi presenti ai genitori. (…)
E c’è anche la disperata vitalità di un inno alla gioia, che come un’acqua salvifica non rispetta gli argini del quieto stare. La vita deborda, quasi oltre i confini del brano aggredendo, con un’arroganza degna di Piero Ciampi, la mia vita non vissuta.
L'acqua spacca i ponti
A valle
A monte solo un filo
Che il mare, amando il mare, vuol morire
E tu mi sembri un fiorellino sulla riva
Ahi che quando l'acqua arriva
Rizzi la tua testolina
Fiorellino sulla riva rizzi la tua testolina.
Ti rendi conto che tu sputi sul mondo
Compri una tomba di marmo e ci scrivi "ho sonno"
Cambi la foto ogni giorno e ogni giorno è un po' peggiore
Sofferente non vuoi soffrire amato che non vuoi amare.
Ridi dai che c'hai il sole in bocca
E se ti tocca l'acqua non è che morirai
Se viene l'amore ti ruba quel che hai.
Io c'ho una voce che voglio cantare
Fino a morire, fino a morire
Voglio bere, voglio fumare
Voglio farlo con chi mi pare
Quando sto bene non riesco a star male
La salute m'è salutare.
C'è n’è uno con l'aidiesse
Che balla come non ce l'avesse
C'è n’è uno che non c'ha niente
Ma che proprio non se la sente
Se l'è mai sentita tanto
ha poco riso ha poco pianto
Sta duro duro duro duro
e che s'è costruito un muro
Ma l'acqua spacca i ponti
E tu inizi a capire quanto tempo sprecato
E non vuoi più dormire, vorresti gridare
Però è l'una di notte e un vicino ti spacca di botte
E ti piace lasciarti spaccare
C’è un grande ospedale per fare l'amore.
Ridi dai che t'ha toccato l'acqua
E l'acqua ha spazzato via ogni pudore
Ed è morta la morte che avevi nel cuore.
Matteo è espressivo e le sue note sembrano buttate lì ad inseguire solo l’urgenza di dire, e anche i suoi accompagnamenti sembrano improvvisati. Ma è la proverbiale facilità difficile a farsi.
Le musiche di quest’artista sono in realtà architetture complesse, Castellano è un vero compositore di canzoni, perfettamente consapevole dei giochi di pieni e di vuoti, del valore sonoro delle parole e della capacità descrittiva della musica.
Gli obbligati melodici che intervengono a spezzare il discorso e le armonie sbilenche intrecciano con il senso e l’interpretazione una maglia comoda e necessaria, nella quale nulla è casuale, tutto è spontaneo.
Il disco è dominato, oltre che dalla voce, dalla chitarra classica strapazzata – ma con molto metodo – di Matteo. La voce è l’elemento dionisiaco, la chitarra quello apollineo, che allinea ritmi e armonie. Sotto questo dialogo si fa strada un magma sonoro che confonde strumenti elettrici e acustici, giochini musicali, trappole elettroniche e tutto un esercito di percussioni, cori e coretti di grande bellezza e modernità, che riesce perfettamente ad arricchire queste canzoni senza ingessarle.
In questo disco Matteo c’è, non c’è dubbio, anche se mi pare che abbia riservato a quest’opera prima i suoi brani che vanno più verso l’esterno, tralasciando la vena più intima e melodica. Non casuale il fatto che sia un disco dominato dalla chitarra. Matteo è anche un pianista, ma le sue canzoni pianistiche sono rivolte all’interno, più scabrose, più lancinanti, più dialoghi con sé stesso. In particolare ricordo un capolavoro dal titolo “Padre Madre”, che su questo primo disco non ha trovato posto. Ma ne verranno altri.
La settimana scorsa trovo nella cassetta postale un plico ciancicato. Dentro c’è una copia del disco di Matteo con un assurdo biglietto di accompagnamento. Il biglietto era una schedina del Totocalcio giocata, e sul retro malamente scritto “Scusa il ritardone Alessio, ma ho dovuto sposarmi.”.
Questo è proprio matto e io vado pazzo per i matti. Eccomi incastrato. Anche l’articolo è fatto.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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