C’è sempre qualcuno in questo paese che, quando il razzismo si manifesta in tutto il suo aspetto nefando, come nel caso del duplice omicidio del 14 dicembre scorso a Firenze, sente il bisogno di dichiarare che quanto è successo è orribile, sì, e ripugna alla coscienza di tutti, e particolarmente alla sua, ma che la sua città, la sua regione, il suo territorio in sé razzista non è né lo è mai stato e l’episodio va visto in una prospettiva di assoluta eccezionalità. Si tratta, spesso se non sempre, di dichiarazioni in buona fede di gente perbene: così, nel caso specifico, hanno ceduto alla tentazione anche il presidente della regione Toscana e il sindaco di Firenze, che pure sono stati solleciti – più di quanto non lo siano di solito, in casi simili, i politici italiani – nell’onorare le vittime e nello schierarsi al fianco della comunità aggredita, ma non hanno rinunciato a parlare di “gesto solitario e folle” e della “follia xenofoba e razzista di un gesto isolato”.
E anche se l’inadeguatezza di queste definizioni comincia a farsi strada nella coscienza dei commentatori e dei cittadini, di “pazzo isolato” e di “gesto di follia” si è continuato a sentir parlare: si sono serviti di queste e simili categorie anche commentatori che negli schieramenti politici correnti si collocano sulla sinistra e da qualsiasi sospetto di razzismo sono sicuramente esenti.
Affermazioni del genere hanno un evidente significato riduttivo, ma sono forse inevitabili, visto che a nessuno fa piacere pensare di vivere in una comunità dove sono possibili episodi del genere. Tuttavia rischiano di essere, al tempo stesso, superflue e svianti. Superflue perché ci mancherebbe altro che un duplice omicidio non sia considerato un fatto isolato ed eccezionale, svianti perché è veramente difficile attribuirne la responsabilità, in tutto o in parte, allo stato mentale di chi lo ha compiuto.
Situazione drammaticamente mutata
Parlare di “follia”, naturalmente, è in gran parte una questione di definizioni e chi vi vede soprattutto un modo di pensare irriducibile alla normale razionalità potrà sostenere a buon di diritto che vi rientrano tutte le manifestazioni di razzismo, anche le estreme, perché non c’è niente di razionale nel sostenere la superiorità o l’inferiorità a priori di certi gruppi umani rispetto ad altri. Ma il termine, nell’uso corrente, contiene una sfumatura piuttosto forte di disagio incolpevole, quasi da malattia, che complica maledettamente le cose, perché da un lato permette di usarlo come esimente, nei confronti dei singoli perpetratori e della società tutta di cui fanno parte, che non può essere considerata responsabile al cento per cento della follia dei suoi membri, e dall’altro sposta il discorso dal pericolo sociale che costoro rappresentano alla necessità di prendersi comunque cura di loro, introducendo una serie di problematiche (se di malattia si tratta, sarà lecito interrogarsi sulle possibilità di cura, sui criteri di guarigione e simili), in cui non è tanto facile muoversi neanche nel campo della medicina, figuriamoci in questo.
Forse bisognerebbe decidersi ad ammettere che il razzismo, nelle società in cui viviamo, non è affatto un episodio isolato. E non nel senso che non è riconducibile soltanto al pensiero e all’attività di singoli individui, perché costoro, di solito, fanno capo a strutture e movimenti organizzati e riconosciuti a livello pubblico, come quella “Casa Pound” cui si riferiva, sembra, l’assassino di Firenze. Questo dato è ben noto, ma anche di quei gruppi – in fondo – si potrebbe sostenere (e si è sostenuto) l’isolamento rispetto alle grandi correnti di pensiero che animano la società civile, affermandone, quindi, la sostanziale non pericolosità. Ma di questa confortante conclusione non è davvero possibile appagarsi.
Il problema, al contrario, sta nel fatto che il razzismo non è mai un fenomeno isolato: fa parte a pieno titolo della nostra realtà e ogni sua singola estrinsecazione, lungi dal rivestire un carattere di eccezionalità, ne rappresenta una manifestazione fin troppo normale. Il nostro paese si è sempre vantato di essere immune da tale vergogna solo perché, fino a una quindicina di anni fa, la presenza degli immigrati era troppo modesta per creare vere frizioni e il nostro passato coloniale, con tutti i suoi vergognosi episodi, era stato accuratamente rimosso.
Ma con il crescere della presenza di residenti allogeni, specie di quelli provenienti dal Terzo Mondo e dall’Europa orientale, la situazione è drammaticamente mutata. Le aggressioni ai singoli e alle comunità ormai sono troppo frequenti per essere considerati accidentali.
Gli omicidi di Firenze sono posteriori di due soli giorni all’assalto al campo rom di Torino – un’altra città in cui, a detta delle autorità municipali, di razzismo non dovrebbe essercene affatto – e quegli assalti sono soltanto gli ultimi di una lunga serie di veri e propri pogrom scaglionati per tutta la penisola, da Opera, subito fuori Milano, a Nord, a Ponticelli al Sud, e si sommano agli sgomberi forzosi per i quali la passata amministrazione milanese e l’attuale romana tanto si sono distinte. E più in generale un paese in cui la Lega è stata al governo per dieci anni e più, ha contribuito in modo decisivo alla legislazione sugli stranieri residenti e controlla politicamente regioni e città di grande importanza non ha titoli per considerarsi immune dalle pulsioni razziste. Non per niente il nostro ordinamento è tra i pochi in Occidente che negano la cittadinanza ai nati entro i nostri confini da genitori stranieri e, comunque, la rende burocraticamente quasi inaccessibile agli immigrati, per quanto integrati possano essere. Quanto al trattamento che agli stranieri normalmente si riserva a livello di vita metropolitana, non può certo essere considerato un modello di accoglienza e di tolleranza.
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Dalla rivista “Fuoritema”, n. 2010/0 |
Chiudere gli occhi?
Non è solo un problema nostro, s’intende. La cultura del razzismo è diffusa in tutto l’Occidente. È figlia dell’esclusivismo ideologico e della vocazione missionaria della chiesa cattolica, che si sposa perfettamente a quell’ideologia del merito fatta propria anche dallo spirito protestante, che impone di trovare una giustificazione qualsiasi allo sfruttamento del Terzo Mondo attribuendo una patente di inferiorità ai soggetti a spese dei quali si sono accumulate le proprie fortune. Nasce, insomma, dalla pratica antica della schiavitù e da quella moderna dell’imperialismo. È il retaggio avvelenato di una società fondata comunque sulla sperequazione e sulla disuguaglianza, in cui qualsiasi soggetto, per quanto debole, ha bisogno di qualcuno più debole di lui a spese del quale costruire un’accettabile immagine di sé.
A livello personale e sociale, non è tanto una follia quanto una necessità, ma una necessità distorta, che genera di continuo odi e integralismi contrapposti in un eterno circolo vizioso.
Che di fronte a questo disastro ideologico si sia tentati di chiudere gli occhi, attribuendone le manifestazioni più sconvolgenti a una qualche forma di devianza individuale, o all’attività di gruppi fortemente minoritari, è fin troppo comprensibile. Purtroppo non serve a molto.
Per sconfiggere il razzismo è necessario riconoscerlo in noi stessi e nelle pratiche della nostra vita sociale ed è ovvio che la cosa richieda qualche sforzo in più di quanto serva per parlare di “casi isolati” e di gesti di follia.
Ma non se ne può fare a meno.