Il
2012
come il 1936
Nel 1933 il presidente degli Stati Uniti d’America Theodore
Roosvelt si trovò a dover fronteggiare una crisi disastrosa,
conseguenza diretta del crollo del ’29. Furono anni difficili
per l’America e, per la prima volta, occuparsi di letteratura
implicò per molti scrittori un impegno sociale fino a
quel momento sconosciuto. A questa nuova generazione di scrittori
apparteneva Steinbeck, che in questo romanzo del 1936, narra
la storia di uno sciopero di braccianti, del suo fallimento
e di uomini che trasformano la propria disperazione in lotta
per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali. La
battaglia è un romanzo di lotte sindacali.
Potrete leggere passaggi come questi:
- V’è capitato mai di lavorare (…) dove
tutti parlano di lealtà verso la propria azienda, e
lealtà vuol dire spionaggio dei propri dipendenti?
- Niente come la lotta unisce gli uomini tra loro.
- Gli imbecilli credono che si possono domare gli scioperi
coi soldati.
- Non fatene una regola, perché spesso crolla,
ma di solito quando qualcuno cerca di spaventarvi è segno
che ha paura.
- Non c’è altro mezzo per fare che gli uomini
aderiscano a un movimento, se non quello di ottenere che ognuno
vi porti qualcosa di sé.
- Non potete svegliare che chi vuole essere svegliato.
- Quando i sentimenti sono maturi, si può lottare
per qualunque cosa.
- Uno vede come vanno le cose, l’ingiustizia e la
miseria, e se ha un dito di cervello tira le sue conclusioni.
- Non credo nulla finché non ho visto.
- (…) tutto sembra difficile quando si è
stanchi.
- (…) gli uomini sospettano di chi non parla come
loro.
- Un uomo in gruppo non è più se stesso;
è la cellula di un organismo, che non è lui come
le cellule del vostro corpo non sono voi.
- (…) parlare rende più chiaro il proprio
pensiero anche se nessuno ascolta.
- Ho pensato di parlare a costoro e farli parlare; fargli
dire che pensano dello sciopero. Credo che la pensino come i
padroni hanno ordinato di pensare.
- Gli uomini cambiano molto dopo aver mangiato.
- Gli piace d’esser crudeli, di picchiare, e per
questi loro gusti han sempre un nome pronto, patriottismo o
difesa della costituzione.
- Quando una folla non fa rumore, quando viene avanti
come un sonnambulo allora è tempo di battersela per una
guardia.
- Qualcuno ha da schiattare se si vuole che la massa esca
una buona volta da questo scannatoio.
- Credo che a volte voi realisti siate la gente più
sentimentale di questo mondo.
- Talvolta quando la gente non ne può più,
è allora che si batte meglio.
- C’è qualcuno che spera di salvarsi da sé,
ma non è possibile se non si salvano tutti.
- Nulla da perdere all’infuori delle catene.
- (…) odiamo il capitale investito che ci tiene
schiavi.
- Si è un po’ stufi di uno che ha sempre
ragione.
- Non abbiamo armi. Se qualcosa ci capita non lo mettono
sui giornali. Ma se succede qualcosa a loro, giù fiumi
d’inchiostro. Non abbiamo né denaro né armi,
così dobbiamo servirci della nostra testa, vedete? È
come un uomo con un bastone che debba far fronte a una squadra
di fucilieri. La sola cosa che può fare è quella
di nascondersi e poi colpirli alle spalle. Forse non è
molto leale, ma (…) non siamo in una gara atletica.
- (…) un uomo affamato non è tenuto alle
regole.
- (…) la gente lavora bene insieme quando c’è
un nemico.
- Se lottiamo, altra gente nelle nostre condizioni lotterà.
- (…) per molti la proprietà è più
importante della vita stessa.
Volete capire qualcosa di più di questo libro? Allora
sappiate che nel 1936 – anno di uscita del romanzo –
l’America è ancora un paese di nomadi disoccupati;
gli uomini in cerca di lavoro si spostano da un centro all’altro
saltando in corsa da e su i treni merci per non pagare il biglietto,
sfidando i bastoni delle guardie ferroviarie; le famiglie si
muovono sui camion Ford; la crisi non frena il flusso migratorio
verso le città. A rileggere ai nostri giorni La battaglia,
ci pare difficile non ammetterne ancora una volta la forza d’urto,
la capacità di coinvolgimento e, soprattutto, l’estrema
attualità. Oggi 2012 ancor meglio dell’altrieri,
1936.
La
questione del modello
gerarchico
Il nome dell’autore del libro Il mondo degli psicoanalisti
(Liguori Editore, Napoli 2011, pagg. 257, euro 19,90) può
suscitare un certo déjà-vu ai vecchi lettori di
“A.” Infatti Giorgio Meneguz ha scritto diversi
articoli per la rivista tra il 1981 e il 1984 – quasi
tutti imperniati sul tema della psichiatria.
Dopo aver lavorato per dieci anni in fabbrica come operaio e
dieci in un servizio pubblico di psichiatria, si occupa ora,
da oltre vent’anni, di psicoterapia e, più recentemente,
anche di insegnamento post-universitario. Il suo primo libro
Psicoanalisi ed etica indagava – tenendo il passo
di una critica storico-sociale – le dimensioni del potere,
del denaro, dei valori e della coscienza morale all’interno
della psicoanalisi.
Nell’articolo “La psicoanalisi dello Zeitgeist
aderente alla prospettiva postmoderna” (2003), pubblicato
su Psicoterapia e scienze umane, Meneguz scrive: «La
tentazione [di alcuni psicoanalisti] di identificare la posizione
anti-autoritaria postmoderna con l’anarchismo teorico
(alcuni accostano Rorty a Castoriadis) si scontra col fatto
che neppure gli anarchici più refrattari, come per esempio
Proudhon, Bakunin, Reclus, Kropotkin rifiutavano l’autorità
in sé e per sé e neppure rifiutavano l’organizzazione
(es. Bakunin, 1882, Dio e lo Stato, p. 52). Distinguendo
l’autorità “naturale” dall’autorità
“artificiale”, gli anarchici criticano il modello
gerarchico di organizzazione delle relazioni umane, ma non concordano
con l’idea secondo cui una società non debba darsi
una organizzazione e delle leggi». La questione del modello
gerarchico di organizzazione viene ora criticamente indagata
da Meneguz nel libro Il mondo degli psicoanalisti,
soprattutto in merito alle ricadute della formazione professionale
sulla qualità dei rapporti tra colleghi.
Utilizzando molti racconti presi dalla storia della psicoanalisi,
l’autore problematizza le insidie autoritarie e mistiche
presenti nella dimensione maestro/allievo e il ruolo distruttivo
dell’istituzione gerarchica sulla creatività e
sulla crescita professionale degli apprendisti. E critica con
fermezza l’idealizzazione (della psicoanalisi, dei padri
costituenti della psicoanalisi, dei maestri attuali, ecc.),
processo psicologico e interpersonale che porta alla dipendenza
infantile. È importante che un “maestro”
(in psicoanalisi, “maestro” in relazione all’allievo
significa: “il proprio analista”, “il supervisore”
o “il docente”) sia consapevole che i ruoli reciproci,
di maestro e allievo, dipendono da una semplice coincidenza,
perché se nello studio di psicoanalisi o nella scuola
di formazione alla psicoterapia quelli sono i ruoli, in un altro
contesto il “maestro” sarà allievo di un
maestro e, in un altro ancora, l’allievo, il paziente,
potrà essere maestro del suo “maestro”.
La questione è complicata e nel libro Il mondo degli
psicoanalisti qualche piega viene spianata, a partire da
riflessioni sul ruolo che svolgono il contesto storico e socioeconomico,
la “vocazione” professionale, il talento, il training
per diventare psicoanalista, i rapporti tra colleghi sia a livello
orizzontale che verticale. Il libro esplora i modi in cui un’istituzione
amministra e trasmette l’eredità dei padri fondatori
e gestisce il bisogno di sapere e di appartenenza degli studenti.
Queste modalità sembrano a me – operatore in psichiatria
– cruciali affinché uno psicoterapeuta, grazie
a una buona formazione professionale, sappia gestire i rischi
di derive autoritarie e patologiche nello svolgimento del suo
lavoro con i suoi pazienti e nel rapporto di collaborazione
con i colleghi. Ma è anche, Il mondo degli psicoanalisti,
un libro sulla storia della psicoanalisi senz’altro utile
agli studenti e agli appassionati dell’argomento. Le molte
storielle raccontate stimolano il desiderio di approfondire
alcuni argomenti.
Il libro è di facile e piacevole lettura, anche se in
certi passaggi è forse troppo verboso per i miei gusti.
Probabilmente susciterà discussioni anche in ambiti estranei
alla psicoanalisi: fa pensare molto (anche lettori che non lavorano
come psicoterapeuti: il sottoscritto per esempio) perché
procede per problemi e non per risposte preconfezionate.
Paolo De Piccoli
Un
sindacato
orizzontale
I pirati «credono di essere paria e invece sono gli embrioni
della società a venire», del nuovo capitalismo.
Così Valerio Evangelisti nel romanzo «Tortuga»
dove un protagonista invita a evitare le ipocrisie: «Vogliamo
denaro, fuori da ogni regola. Arraffiamo di tutto e vendiamo
di tutto, uomini inclusi. Noi siamo il futuro e nessuno ci fermerà».
Facciamo un salto nel tempo e nello spazio – dal 1685
al 1900, dai Caraibi agli Stati Uniti – per ascoltare
Eddie Florio, gangster italo-americano in «Noi saremo
tutto», sempre di Evangelisti: «I gangster
fanno parte del gruppo che comanda (…) Erano forti prima,
lo saranno dopo. Cambierà un poco la nomenclatura, questo
sì. Ma sono un tassello del potere».
Un piccolo salto indietro e Valerio Evangelisti ci porta, sempre
negli Usa, tra il 1877 e il 1919. Degno compare dei pirati e
dei gangster, tassello del potere, è Robert William Coates,
detto Bob: una vita da spia, da infiltrato, da provocatore con
occasionali ruoli di picchiatore e sparatore o di capoccia delle
squadracce anti-rossi. Siamo nel nuovo romanzo di Evangelisti,
il bellissimo e doloroso One Big Union (Mondadori,
Milano 2011, pagg. 440, e 18,50).
Robert William Coates inizia la carriera di “uomo ombra”
a 14 anni, facendosi reclutare per dare una lezione ai sovversivi
della Comune di Saint Louis, nel 1877, per finire – da
assassino e torturatore – nel 1919: un personaggio ricalcato
sul vero Coates come Evangelisti spiega, nelle ultime pagine.
Traditore della sua classe, essendo il figlio di un operaio
irlandese immigrato negli Usa. Non lo fa solo per denaro, a
suo modo è sincero: si crede un «soldato dell’esercito
del bene». Poche idee ma esitazioni zero: gli operai sono
fannulloni anzi «sfaticati di professione, senzadio, sovversivi,
accattoni nati» (come scrive la sorella di Coates, giornalista
filo-padroni); se si vietasse il lavoro minorile sarebbe una
tragedia nazionale; bisogna «attenersi all’ordine
cristiano del mondo, al rispetto della proprietà privata»
se occorre ingannando e violando le leggi; per la «feccia»,
la «mandria umana» (cinesi, slavi, negracci, ungheresi,
scandinavi, tedeschi e «dagos» cioè italiani,
una razza dannata) ci vogliono «legnate» o peggio;
se in acciaieria «muore in media un operaio al mese e
moltissimi restano feriti» (o si ammalano) è una
ineluttabile fatalità; e se i padroni vogliono licenziare,
abbassare i salari, fare trattenute per le parrocchie, pagare
in buoni da spendere solamente nei loro spacci, vietare le rappresentanze
dei lavoratori... sono nel loro pieno diritto.
Traditore in buona fede. Infatti quando Coates spia o bastona
è convinto di lavorare per l’America e anzitutto
per moglie e figli, da bravo cristiano. «In fondo la famiglia
era una società in formato piccolo» e se la giovane
donna che lui ha sposato si ribella va picchiata («come
spesso il pastore raccomandava ai mariti») anzi –
così riflette – «sarebbe stata un’estensione
domestica del suo mestiere quotidiano». Un tanto buon
figlio di Dio non avrà amori felici (muore la prima moglie,
scappa la seconda). Quanto ai due figli, così diversi
per carattere ed esiti, sono destinati male. Ma anche se questo
non è un giallo sarebbe scorretto rivelare troppo.
Le infamie di Coates servono a Evangelisti per raccontare dall’interno
il movimento sindacale negli Usa: dal Workingmen’s Party
ai Knights of Labo, dall’Afl (American Federation of Labor)
all’American Railway Union. Difendono sì i lavoratori
ma in un’ottica limitatissima: sindacati di mestiere,
tendenti al corporativo, attenti al dialogo con i padroni, nazionalisti
e razzisti, convinti che il modello americano dia una possibilità
a tutti e dunque sia giusta, organizzazioni burocratiche e verticali.
Nel 1905 il quadro cambia: nasce il sindacato “orizzontale”,
l’Iww (Industrial Workers of the World) che crede nella
«one big union», un solo grande sindacato senza
distinzioni di razza o mansioni, per organizzare anche le donne
e gli immigrati, i precari e i braccianti, persino la massa
di vagabondi – gli hobos – che si muovono clandestini
sui treni e vivono di espedienti.
Il romanzo racconta vittorie e sconfitte del periodo 1877-1919:
la battaglia di Homestead; lo scontro alla Pullman con il boicottaggio
e i figli degli scioperanti “adottati” temporaneamente
dai lavoratori di altre città; Spokane e la battaglia
durissima per «la libertà di parola»; Lawrence;
lo sciopero di Ludlow stroncato a colpi di mitragliatrice; il
soviet di Seattle nel 1919... Quasi sempre gli attacchi armati
di squadracce (o di “crumiri” reclutati per l’occasione
fra i peggiori criminali) contro i lavoratori servono da pretesto
per spianare la strada alle polizie, agli sceriffi o addirittura
alla Guardia nazionale invocato a gran voce dai giornali e dalle
Chiese (ma c’è anche qualche prete sovversivo e
nel romanzo ne incroceremo). E’ questa la democrazia?
Sì, «in sostanza una catena di interessi»
enuncia candidamente Burns allo “scolaretto” Coates.
«Al momento decisivo lo Stato è sempre dall’altra
parte», con i padroni che – spiegano gli Iww –
si comprano quasi tutti i giornali e i giudici.
Nel suo lungo viaggio lo spione Coates incontra Joseph Gould
(celebre la sua frase: «Io posso assoldare metà
della classe operaia perché faccia fuori l’altra
metà»), Joseph Buchanan, Eugene Debs, Daniel De
Leon, Bertha Thompson, gli sbirri di Pinkerton (fra loro il
giovane Dashiell Hammett che diventerà un grande scrittore
e un “rosso”), l’anarchica Emma Goldman, Ben
Reitman, Alice Freeman Palmer («fautrice dell’accesso
femminile agli studi»), John Reed ma soprattutto Mamma
Jones, «Big Bill» Haywood, la nera Lucy Parsons,
Charles Moyer, George Pettibone, il boscaiolo Frank Little,
Vincent Saint John, Elizabeth Gurley Flynn, l’italiano
Joseph Ettor, Walter Nef... insomma l’anima degli Iww.
E alcuni compagni di strada come Upton Sinclair o Jack London.
Come resistere alla violenza del capitale? Si può distruggere
quel che c’è senza un chiaro programma politico
per il futuro? I nodi che gli Iww tentano di sciogliere sono
antichi (e moderni). Meglio leggere Marx o addestrarsi con la
dinamite? Si punta sul voto o sullo sciopero generale? Ci vogliono
militanti professionali o semplici ribelli? Se le canzoni di
Joe Hill invitano al sabotaggio poi va bene anche «il
gallo rosso» cioè la violenza incendiaria? E’
utile che gli immigrati si organizzino per gruppi nazionali
o devono riconoscersi come senza patria? E ancora: per opporsi
agli assalti armati bisogna non essere inermi ma questa auto-difesa
facilita e moltiplica le provocazioni?
Non bisogna esagerare nel trovare le similitudini fra vicende
di 100 anni fa e quelle di oggi. Certo il giochino dell’unità
nazionale davanti alla “crisi” o le comode definizioni
di guerra «umanitaria» somigliano moltissimo alla
cronaca. «Il padrone peggiore è quello che si dice
vostro amico. E’ chi parla di comune interesse, di crescita
collettiva, di collaborazione per il bene nazionale»:
questa la convinzione dei wobblies, cioè degli Iww. Dar
loro torto è impossibile. E’ evidente la simpatia
di Evangelisti, anche se non ne nasconde le divisioni e gli
errori.
Sconfitte durissime ma anche vittorie storiche (le 8 ore). C’è
molto da imparare. E qualcosa insegnano anche gli eroi negativi
come Coates. Chi ai giorni nostri continua il lavoro di pirati,
gangster e spioni è salito di rango, spesso si arrampica
ai vertici del potere. Mentre oggi è in crisi la convinzione
che «un torto fatto a uno è un torto fatto a tutti»
come l’idea che chi lavora ha interessi comuni opposti
a quelli di chi lo sfrutta. Ed è anche per questo che
conoscere queste vicende storiche è importante quanto
saper leggere, scrivere e far di conto.
Daniele Barbieri
La
persecuzione nazista
dei testimoni di Geova
Oggetto di alcune importanti ricerche monografiche in lingua
inglese e tedesca, la persecuzione dei testimoni di Geova da
parte dello Stato nazista ha incontrato, in Italia, scarso interesse
tra gli storici.
A colmare questa lacuna viene ora l’ottimo lavoro di Claudio
Vercelli, autore di un testo interessante non solo per le informazioni
che contiene, ma anche per gli interrogativi che pone: Triangoli
Viola. La persecuzione e la deportazione dei testimoni di Geova
nei Lager nazisti, Roma, Carocci, 2011, pp. 181, 19
euro.
Benché il protagonista, per così dire, di questo
studio sia un gruppo religioso di impostazione teocratica che
applica in maniera rigida, in alcuni casi al limite del fanatismo,
insegnamenti che ritiene discendere da Dio – quanto di
più lontano si possa pensare, va da sé, da una
visione anarchica del mondo – in realtà quello
di Vercelli è un libro che dovrebbe quantomeno incuriosire
un libertario: riguarda, infatti, tra le altre cose, l’eterno
rapporto dell’uomo con il potere, e in particolare dell’individuo
moderno con Stato, per di più nella sua versione più
cruda, criminale e liberticida, quella totalitaria. Più
ancora, questa ricerca ha a che fare con la disobbedienza nei
confronti di un potere che si reputa emanare delle norme ingiuste,
e di essere anzi, costitutivamente, ingiusto in se stesso, letteralmente
una manifestazione luciferina. Una disobbedienza condotta controcorrente,
in mezzo a una società in larga parte convertita alla
“religione” omicida di un moderno sciamano dotato
di un irresistibile e sinistro fascino. Una resistenza non-violenta,
quella dei testimoni, fortificata solo dalla propria coscienza
e dalla solidarietà dei propri correligionari.
Vercelli ripercorre le tappe di questa persecuzione, che si
abbatté su un gruppo statisticamente poco significativo
– all’epoca in cui Hitler ascese al potere i testimoni
in Germania erano circa 25 mila, più o meno lo stesso
numero dei rom e dei sinti, vale a dire lo 0,05 % della popolazione
tedesca – e socialmente ed economicamente poco influente,
dal momento che gran parte degli aderenti alla Confessione appartenevano
ai ceti meno abbienti della società (operai, contadini,
piccolo-borghesi).
Perché i nazisti si accanirono contro i testimoni di
Geova? Va considerato il fatto – spiega Vercelli –
che la Confessione, in quanto manifestava una simpatia (su basi
esclusivamente religiose) per il sionismo, aveva legami con
gli Stati Uniti, dove il movimento era nato qualche decennio
prima, venne ritenuta un gruppo politico che, sotto una copertura
religiosa, appoggiava il piano con dominio del mondo degli Ebrei
e fiancheggiava il bolscevismo (pp. 21-23).
Benché i testimoni siano stati “l’unico gruppo
religioso perseguitato come tale” (p. 127), in realtà
la causa della persecuzione non fu la religione di per se stessa
– i nazisti, benché portatori di una religione
politica pagana, erano venuti facilmente a patti con i due gruppi
cristiani maggioritari, la Chiesa cattolica e le confessioni
protestanti – ma l’applicazione dei precetti religiosi
nel concreto della vita quotidiana, che finiva per assumere,
relativamente ai testimoni, un chiaro, sebbene del tutto involontario,
significato politico sovversivo. Infatti, vivere seguendo Geova,
per i testimoni, comportava, pacificamente ma altrettanto imperativamente,
rifiutare di riconoscere la “religione” nazista,
il culto idolatrico del suo sommo sacerdote, a partire da quell’atto
di proskynesis, umiliante per un non-nazista, che era l’Hitlergruß
(saluto a Hitler). Significava, poi, rifiutare di svolgere il
servizio militare, atto passibile di morte durante la guerra,
oppure di iscrivere i figli alla Hitlerjugend, la gioventù
hitleriana a cui i giovani dovevano obbligatoriamente appartenere,
oppure ancora iscriversi al sindacato di Stato.
Questo insieme di gesti, espressione di un ordine simbolico
del tutto contrario a quello nazista, e il proselitismo con
cui i testimoni, tentando di diffondere il loro culto, finivano
per incitare gli altri a commetterli, non potevano essere tollerati
nello Stato nazista. Vercelli evidenzia come la persecuzione
nazista dei testimoni possa essere suddivisa in tre fasi. In
un primo tempo, il culto dei testimoni fu bandito a livello
regionale e centrale (1933-34), e molti testimoni subirono aggressioni,
pene detentive, confische di proprietà, licenziamenti
dal lavoro. In un secondo momento, il nazismo, di fronte alla
protervia della Confessione che a dispetto di tutti i divieti
era riuscita a mantenere una struttura coesa e riusciva ancora
a fare azione di proselitismo, aumentò la repressione
negli anni 1935-37, nel “tentativo di distruggere fisicamente
il movimento” (p. 105). Il terzo periodo fu quello dell’internamento
nei campi di concentramento, dove trovarono la morte circa il
60 % degli internati appartenenti alla Confessione.
Neppure i campi di concentramento, i “laboratori”
in cui, osservava Hannah Arendt, lo Stato totalitario sperimentò
la sua capacità di “dominio assoluto sull’uomo”,
riuscirono tuttavia a spezzare la volontà dei testimoni,
che perlopiù rifiutarono, come avevano fatto precedentemente,
di ripudiare la propria fede e tradire i compagni, dimostrando
con ciò come sia possibile, sia pure pagando un prezzo
altissimo, resistere anche al più tirannico dei poteri.
Pertanto, come scrive Vercelli, quella dei testimoni di Geova,
“pur non trattandosi di una trama cospirativa, poiché
non aveva come obiettivo il sovvertimento dei poteri ma il mantenimento
dei rapporti tra correligionari, essa, per le modalità
in cui si svolse e per l’oggetto che la motivava –
testimoniare la possibilità di esistenza di un mondo
diverso da quello nazista – si inscrive nella costellazione
delle diverse forme di resistenza civile” (pp. 173-74).
Francesco Berti
Quella volta a Giffoni
con Theo Anghelopulos
Agosto 1992. Ventiduesimo Festival del Cinema dei Ragazzi di
Giffoni Valle Piana. Nonostante la calura viene giù giove
pluvio e tutti gli appuntamenti in programma vengono spostati
dagli spazi all’aperto al cinema Valle (nel piccolo centro
salernitano non era sorta ancora la cittadella del cinema).
E qui che mi avvicino timidamente al regista Theo Anghelopulos
e gli chiedo se può rilasciarmi un’intervista.
Tra un perfetto francese e un italiano zoppicante mi fa capire
che si può. E seduta stante ci appartiamo in un angolo
del bar del Valle per iniziare la conversazione. Allora scrivevo
di cinema già da qualche anno, e di registi, attori,
cinematografari ne avevo conosciuti pure abbastanza, ma con
Anghelopulos fu una delle prime volte che avvertii il contagio
diretto con l’anima, l’occhio di un cinema politicizzato
(ed antagonista) dei grandi circuiti che mette lo spettatore
in rapporto critico con quello che vede. Senza andare a rileggermi
l’intervista, di poche sue parole ho ancora un ricordo
lucidissimo. Con un mezzo sorriso beffardo mi confida Anghelopulos
che per lui la stragrande maggioranza degli americani made in
Usa sono degli imbecilli nel senso più pieno della parola
e il cinema degli Studios viene prodotto per un pubblico che
passivamente e sistematicamente deve immolarsi all’altare
del sollazzo. In un altro frammento dell’intervista spende
belle parole per il poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra
con cui ha girato, forse, i film più belli della sua
carriera. “Un fratello per me è Tonino, un vero
poeta solo con lui potevo fare dei film in cui la storia si
cementa così delicatamente con l’epica e la lirica”…
|
Theo
Anghelopulos |
Theo Anghelopulos, il più grande regista greco, è
morto a 76 anni lo scorso 24 gennaio investito da una moto in
una località dell’Attica, ad ovest del Pireo, mentre
stava ultimando le riprese del suo ultimo lungometraggio con
protagonista Toni Servillo. Da “Ricostruzione di un delitto”
del 1970 a “La polvere del tempo” di tre anni fa,
il regista ateniese ci ha lasciato in eredità non molti
film (appena quattordici quelli completati), ma uno più
bello e intenso dell’altro, eppure se si consultano i
saggi (e sono diversi) sui cento film più belli della
storia del cinema di tutti i tempi non si trova un solo volume
che cita un suo lavoro. Vi si può trovare in classifica
“Cabaret” di Bob Fosse o “Un tranquillo week-end
di paura” di John Boorman ma non si segnala “La
recita” (1974), un capolavoro in assoluto di quattro ore
(con degli straniamenti di natura brechtiana), oppure l’esistenziale
e metaforico “Alessandro il grande” (1980) o “
Lo sguardo di Ulisse (1991), affresco di altissima tensione
stilistica che vide, durante le prime riprese, la morte del
protagonista Gian Maria Volonté sostituito poi da Harvey
Keitel. Hanno scritto di Anghelopulos: regista isolato, intransigente,
rigorosamente artista, “lo sguardo del cinema europeo”.
E ciò è tutto vero, ma va ricordato perché,
insieme all’ungherese Miklos Jancsò, è stato
il maestro, il grande manipolatore (se così si può
definire) del “plan-séquence” (piano sequenza),
cioè della tecnica del montaggio interno durante le riprese
che sfrutta i movimenti di macchina giovandosi della profondità
di campo e della molteplicità di piani entro una singola
inquadratura…
Ritornando alla conversazione al Giffoni Film Festival salutandoci
mi domanda su quale quotidiano sarebbe uscita l’intervista.
Ribatto non su un quotidiano ma sul numero prossimo dello storico
settimanale anarchico Umanità Nova (all’epoca
redazione collegiale Spezzano Albanese). Chioserà il
regista greco: “Ho sempre avuto in grande considerazione
gli anarchici e la loro storia, spesso dolorosa e mal compresa”.
Mimmo Mastrangelo
Trasmettere
vita ed entusiasmo
Ritorna sugli scaffali delle librerie, dopo 27 anni, un piccolo
capolavoro di letteratura “proletaria”, le splendide
memorie autobiografiche che un vecchio anarchico, per il quale
qualunque definizione sarebbe riduttiva, trasmise ai due allora
giovani compagni triestini Claudio Venza e Clara Germani, attraverso
un lungo e paziente lavoro di registrazione orale (Umberto Tommasini,
Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona,
Odradek, Roma 2011, pagg. 233, euro 18,00).
Nell’ormai lontano 1972, infatti, Umberto Tommasini (1896-1980)
aderente da sempre al movimento anarchico e al gruppo Germinal
di Trieste, stimolato dai due freschi militanti del suo storico
gruppo (fondamentale nel lavoro di storia orale il rapporto
di totale fiducia fra intervistato e intervistatore), decise
che fosse venuto il momento di trasmettere e consegnare alla
storia la narrazione dei suoi ricordi e delle sue straordinarie
esperienze. Non si trattava da parte sua di una sorta di compiaciuto
orgoglio ma della convinzione che la memoria delle sue lotte,
dei suoi sogni, delle sue testimonianze sulla storia novecentesca
non dovesse andare perduta, ma potesse essere insegnamento e
stimolo per le nuove generazioni (1). E
non solo per le generazioni di anarchici ma, più in generale,
per chiunque ritenga che lottare per una trasformazione in senso
libertario della società possa e debba essere un dovere
morale gratificante e piacevole.
Leggendo queste bellissime pagine, si capisce l’importanza
che questo lavoro si sia concretizzato, consentendo così,
anche a chi non ha avuto occasione di conoscere Umberto, di
partecipare con tanta immediatezza alla sua straordinaria esperienza
di vita. E dobbiamo esserne grati non solo a Venza, che seppe
dare organicità alla frammentata ricostruzione di Tommasini
ma anche, e non di meno, a Clara Germani, che si sobbarcò,
come ricorda tuttora Claudio, la gran parte del lavoro materiale
di trascrizione dalle cassette e di battitura. Per i più
giovani, per i quali le tecnologie di ultimissima generazione
rappresentano la normalità dell’uso quotidiano,
va segnalato come battere centinaia e centinaia di pagine trascritte
da un Phonola su una mitica Lettera 22 fosse ben più
faticoso che non lavorare su un agile programma di scrittura
(2).
Va poi detto che il lavoro sulle fonti orali, se da un lato
non poggia su una documentazione ufficiale, è altrettanto
utile perché permette di portare a conoscenza particolari
altrimenti sconosciuti, sfuggiti magari anche alle occhiute
attenzioni poliziesche o alle ricostruzioni accademiche. Inoltre,
fornendo la griglia interpretativa dell’intervistato,
tale lavoro apre a uno sguardo differente su quanto viene trasmesso.
Se poi, come in questo caso, la registrazione orale viene scrupolosamente
confrontata con le carte d’archivio conservate nel Casellario
Politico Centrale dell’Archivio di Stato, diventa perfino
possibile sfrondare di prima mano le tante inesattezze, se non
addirittura falsità, che tali carte, redatte da informatori
interessati e prezzolati, vorrebbero tramandare. Specularmente,
non va dimenticato che a volte nell’intervistato scattano,
per alcuni episodi, meccanismi di autocensura (e Venza ne ricorda
non pochi soprattutto riferiti a certi periodi della clandestinità
di Tommasini), e in questo caso il confronto con le carte di
polizia aiuta a ricostruire anche ciò su cui si potrebbe
essere reticenti. La lunga introduzione del curatore, un vero
e proprio saggio biografico, permette poi di contestualizzare
meglio il percorso cronologico di Tommasini, dato che nella
trasmissione delle sue memorie, al “fabbro anarchico”
capita di operare alcuni salti temporali dovuti alla necessaria
vivacità del racconto (3).
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Trieste
1947- da sinistra: Umberto Tommasini (Trieste 1896 - Vivaro,
Pordenone 1980) militante anarchico fondatore del giornale
Germinal, Nicola Di Domenico, Guglielmo Shefer.
(Foto centro studi libertari/archivio GP.) |
Questa nuova edizione – originariamente pubblicata nel
vivace dialetto triestino e oggi tradotta in lingua (4)
– si presenta arricchita da una bella intervista fatta
da Claudio Venza, professore di Storia della Spagna Contemporanea
all’Università di Trieste, al collega Claudio Magris,
intellettuale fra le più aperte personalità della
cultura italiana, che già aveva recensito la prima edizione
per Il Corriere della sera nel 1984, e prima sul quotidiano
locale Il Pinolo, parlandone come di “uno dei libri più
vivi degli ultimi anni”. E in effetti la vivacità
del racconto, che forse nella traslitterazione in lingua ha
perso un po’ del suo smalto, è uno dei tratti più
caratteristici di quest’opera. Una vivacità, del
resto, che non meraviglia affatto, perché chi ha conosciuto
Tommasini restava semplicemente incantato dalla sua capacità
di trasmettere vita ed entusiasmo in ogni sua parola. Vita ed
entusiasmo che, a onor del vero, erano caratteristica comune
degli anarchici della sua generazione, gente che, nonostante
le dolorose sconfitte e le tante persecuzioni subite, ha continuato
a esprimere il proprio impegno sociale con la stessa freschezza
degli anni giovanili.
In effetti la vita di Umberto Tommasini è un romanzo.
Un romanzo che attraversa tutta la storia del Novecento e nel
quale egli non è il distaccato osservatore ma il vivo
protagonista di un periodo storico che ha visto affiancarsi
momenti di altissima e tragica drammaticità a fasi di
lotta rivoluzionaria gloriose ed entusiasmanti. Un romanzo che
mostra, nel suo procedere negli avvenimenti, la capacità
di affrontare senza tentennamenti anche i momenti più
difficili e contraddittori. E questo perché in Tommasini,
come in tanti altri anarchici, convivevano, rafforzandosi reciprocamente,
due aspetti imprescindibili della militanza: la tensione sociale
e la dimensione etica. La tensione sociale che rendeva automaticamente
chiaro dove stessero il torto e la ragione nei processi di emancipazione
dallo sfruttamento e affrancamento dall’autorità,
la dimensione etica che non faceva mai venire meno quella umana
“tenerezza” rivoluzionaria, che funzionò
da fondamentale antidoto al prevalere della “ragion di
stato” e della realpolitik.
E difatti, leggendo questo avvincente affresco storico e passando
in rassegna i momenti topici del secolo passato, la prima guerra
mondiale, il biennio rosso, l’avvento del fascismo, il
regime, l’esilio, l’antifascismo operativo, la guerra
di Spagna, la seconda guerra mondiale, la lotta al nazifascismo,
la ricostruzione, la ripresa del movimento, troviamo che la
costante presenza di questo fabbro anarchico è fatta
sia di immutabile volontà rivoluzionaria, sia della consapevolezza
di dover conservare, sempre e comunque, l’umanità
del libertario. Ne è un esempio il costante rifiuto di
Tommasini di stringere la mano al famoso Carlos, quel Vittorio
Vidali che interpretò come pochi altri, in Spagna e altrove,
lo spirito del più genuino stalinismo e che, in nome
di quella “ragion di Stato” di cui si diceva, contribuì,
tra le tante sue malefatte, a “neutralizzare” molti
degli elementi più combattivi della rivoluzione libertaria
in Spagna (5).
Tommasini non manca inoltre di rimarcare i momenti contraddittori
che talvolta segnarono le vicende di cui narra, ma a tratti
a questa sua sincerità, che può apparire venata
di ingenuità, fa da controaltare una sorta di reticenza,
volta a coprire fatti e persone che gli furono vicine. Del resto
alcuni degli episodi in cui fu coinvolto, soprattutto durante
il periodo dell’esilio e della lotta clandestina contro
il fascismo, furono talmente complessi e inevitabilmente condizionati
da fattori esterni, derivanti dal dover agire nella clandestinità,
che spiegano il suo atteggiamento. Ancora, nei primi anni ‘70,
e mutate completamente le condizioni sociali, restava sedimentata
in lui una sensibilità particolarmente attenta a salvaguardare
una memoria della quale non si sentiva unico depositario.
Ciò che ci viene trasmesso, dalla lettura di questa avvincente
autobiografia raccontata, non è solo l’avventuroso
resoconto di una esperienza esemplare, ma è anche una
lezione di vita, di una vita nella quale la coerenza tra i fini
cercati e i mezzi da utilizzare è sempre stata alla base
di tutto. Chiarendo ancora una volta che quello che si vorrebbe
il peccato capitale degli anarchici, la mancanza di una mentalità
“realista”, è invece la loro forza, quella
che consente di continuare a restare fedeli, senza indecisioni,
alle proprie convinzioni. Del resto un uomo che a settanta anni
suonati mette in fuga, da solo, un gruppo di giovani neofascisti
determinati a distruggere la sede del Germinal, è lì
a dimostrarlo!
Massimo Ortalli
Note
- Come ha ricordato Claudio Venza in una recente presentazione
del libro a Bologna, molti anarchici hanno preferito non parlare
vuoi per modestia, vuoi per non rivelare troppo su argomenti
e fatti delicati.
- Claudio Venza, Vivere da anarchici: l’autobiografia
di Umberto Tommasini in I Giorni Cantati, n. 4 del 1983:
“Si è trattato di un lungo lavoro, anzi lunghissimo.
Dalle 16 ore circa di conversazione-intervista a questo militante
anarchico sono scaturite quasi 500 cartelle per un totale
di più di 800.000 battute”.
- Claudio Venza, cit. “Si era chiesto all’intervistato
di seguire nel racconto della sua esperienza un ordine cronologico,
che è stato sostanzialmente mantenuto con l’eccezione
di alcuni fatti con una forte analogia tematica”.
- Claudio Venza, cit. “La sola trascrizione letterale
ha occupato un anno di lavoro in quanto bisognava rispettare
le regole ortografiche, spesso incerte, del dialetto triestino.
Infatti Umberto Tommasini parlava normalmente un tipo di dialetto
‘slavazà’, cioè reso simile all’italiano
da un ‘lavaggio’ di molti termini di uso locale
con la lingua nazionale”.
- Vittorio Vidali, uno degli elementi di spicco del Comintern
nel periodo compreso fra le due guerre, fu non solo uno degli
artefici della criminale repressione degli anarchici e dei
militanti del Poum in Spagna, ma fu anche sospettato (molto
probabilmente a ragione) di aver contribuito ad organizzare
l’assassinio di Trotsky in Messico.
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