1.
Per quindici anni ho fatto l’allenatore di calcio. Non
sono un ex calciatore, ma il calcio è sempre stato oggetto
del mio interesse di spettatore – spesso anche per motivi
strettamente scientifici, considerando il fatto che, negli anni,
ho scritto sull’argomento quattro libri che, pur basati
su modelli linguistici, andrebbero classificati come di ordine
tecnico. Il ruolo dell’allenatore l’ho ricoperto
una prima volta – si era sul finire degli anni Sessanta
del secolo scorso – allorché un gruppo di miei
ex allievi mi chiese di prepararli alla partecipazione di un
torneo guidandoli durante le partite. Fu al termine di questo
torneo che mi si presentò una figura ieratica dal naso
all’aria, tutta compunta e compiaciuta di sé, che,
lodando quanto di mio lavoro si era visto in campo, mi chiese
se io avessi voluto continuare a fare l’allenatore per
la sua società sportiva di cui, per l’appunto,
lui era il “Presidente”. Scoprii ben presto che
la società in questione era una delle più scalcinate
del quartiere milanese di San Siro e che il signore in questione
– per quanto Presidente – si occupava direttamente
di lavare le maglie, rattoppare i calzettoni, gonfiare alla
meno peggio i pochi e pesantissimi palloni, pulire una “sede”
sita nella cantina della casa popolare che gli era stata assegnata,
dirigere gli allenamenti e, soprattutto, cercare di mettere
assieme qualcosa per cena per sé e per la sua mamma ultraottuagenaria
che – un po’ come il Tony Perkins di Psycho
– diceva di avere. Ciò nonostante – anzi,
ovviamente – gli dissi di sì. Avevo un mestiere
– un mestiere che rendeva pochino – e questo sì
mi rese subito leggermente più povero.
Dopo aver fatto pratica, studiato ulteriormente il gioco e aver
conseguito il patentino di allenatore mi capitò di passare
ad una sorta di professionismo e, conseguentemente, di presidenti
ne conobbi altri. All’unico che mi parve un brav’uomo
– entro i limiti in cui poteva esserlo “un padrone
all’antica” – venne un coccolone dopo pochi
mesi che mi ebbe assunto. Di un altro – dell’ultimo
– ricordo la vicenda che si sviluppò nei modi canonici
dei racconti calcistici: grande entusiasmo, “Accame, la
porterò in serie A”, casa e auto di lusso, ristoranti
dove non si pagava, un po’ di codazzo al seguito, però
– brutto segno – qualche domenica lo vidi arraffare
e mettersi via i pochi spiccioli degli incassi. A suo onore
– anche se in serie A non ci portò nessuno –,
va detto che durò sei o sette anni – un’eternità.
Eravamo a metà degli anni Ottanta. La notizia arrivò
un lunedì mattina: il Presidente era scappato, le sue
due fabbriche nell’hinterland milanese erano chiuse, gli
operai erano col sedere per terra, la società di calcio
si avviava verso l’inevitabile sparizione e, per quanto
riguardava i contratti in essere, bisognava aspettare cosa avrebbero
deciso di fare gli esecutori fallimentari. Tuttavia –
devo dire la verità –, qualcosa di quegli anni
lo rimpiango: l’allenare una squadra, far crescere le
capacità del singolo e quella specie di modello sociale
particolarissimo che esige una consapevolezza collettiva per
ottenere il risultato. Non rimpiango il sistema del calcio –
un sistema malato e infettivo, nei suoi meccanismi, a prescindere
dal volume dei quattrini, tale e quale quello di oggi –
e non rimpiango i Presidenti.
2. In Fuori gioco
(Chiarelettere, Milano 2012), Gianfrancesco Turano guarda al
mondo del calcio focalizzando l’attenzione sulla figura
e sulla storia dei Presidenti. Tra “ufficialmente”
Presidenti e Presidenti in pectore, ne sceglie dieci di grande
rappresentatività: il neo proprietario della Roma, Thomas
Di Benedetto, quello della Lazio, Claudio Lotito, quello del
Napoli, Aurelio De Laurentis, quello della Fiorentina, Andrea
Della Valle, quello dell?udinese, Giampaolo Pozzo, quello della
Juventus, Andrea Agnelli, quello dell’Inter, Massimo Moratti,
quello del Palermo, Maurizio Zamparini, quello del Genoa, Enrico
Preziosi e, dulcis in fundo, quello del Milan, il momentaneamente
deprivato del titolo di “Premier” Silvio Berlusconi.
Turano prova a ricostruirne la storia e non sempre trova tutto
facile, perché di qualcuno, per quanto si faccia, andando
all’indietro, sembra esserci un punto che sembrerebbe
insuperabile. Come spesso capita con i potenti in genere, anche
con certi potenti del calcio occorre accontentarsi – nutrendo
il sospetto che la biografia ufficiale, con tutte le sue palesi
lacune, nasconda zone d’ombra che qualcuno si è
dato da fare perché in ombra ci rimanessero. Il fatidico
momento di quando, da dove e perché, sono arrivati i
soldi – tanti, tanti da comprarsi una società di
calcio di quel livello –, insomma, rimane ben occultato,
in conoscibile ed ineffabile. Ciò non ostante, direi
che la fatica di Turano valeva la pena di esser portata a termine:
certi assunti ipocriti – come quelli relativi alla cosiddetta
“autonomia dello sport” – vengono dissolti
e, del calcio, si comprende l’interdipendenza ineludibile
– con ragioni di ordine politico ed economico, con ragioni
di ordine antropologico, con quelle logiche locali che caratterizzano
il nostro Paese e che ne fanno un cardine dell’ideologia
dominante.
3. Mi è mancato qualcosa sul piano strettamente psicologico.
Al di là delle diverse ragioni che hanno spinto ciascuno
dei dieci protagonisti del libro di Turano – ragioni più
intime e personali di quanto possano essere rappresentate dai
quattrini –, c’è qualcosa di comune non solo
tra tutti loro, ma anche tra tutti loro e i Presidenti con cui
ho avuto direttamente a che fare io nella mia breve carriera
di allenatore – anche con quello scalcinatissimo che svolgeva
tutte ma proprio tutte le funzioni di un intero organico societario.
Mi piacerebbe scavare nei processi relativi alla formazione
della loro identità culturale e possedere così
le chiavi per comprendere le modalità con cui, pubblicamente,
esprimono il loro potere – le forme dissuasorie o persuasive
nei confronti dei loro sottoposti, le minacce e la rabbia delle
sconfitte sportive o la gioia paternalistica delle vittorie,
le interviste sfuggenti e le interviste sfuggite, le autorevolezze
e le inermità del più semplice dei tifosi. Perché
non credo sia facile capire – come nella pratica del gioco
giocato – chi è davvero “fuori gioco”
e chi non lo è, chi muove fili con calcolo e chi, nel
tentativo di farlo, s’irretisce da solo e, come qualsiasi
ingenuo di noi, più che muovere, è mosso.
Felice Accame
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