storia
Italiani brutta gente
di Antonio Senta
È ora di farla finita
con la retorica e l’ipocrisia del mito degli italiani
brava gente.
“Italiani brutta gente. I crimini di guerra nei Balcani
1940-1943” è il titolo di uno degli interventi
al Circolo Berneri di Reggio Emilia, per la Giornata della
memoria, 27 gennaio 2012. Eccolo.
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Era l’alba
di un calda giornata d’estate del 1942 a Podhum, villaggio
nell’entroterra del comune di Jelenje a non troppi chilometri
da Rijeka. Fiume, non Rijeka, bisognerebbe dire, perché
la città era italiana; per la precisione capoluogo
della provincia del Quarnaro, governata dal prefetto Temistocle
Testa, camicia nera fra le più convinte. E sanguinarie.
Quel giorno l’esercito italiano, i carabinieri e gli
“squadristi emiliani” di Jelenje circondarono
il villaggio: tutti insieme formavano la seconda armata, guidata
dalla “bestia nera”, il generale Mario Roatta.
Alle otto in punto fece irruzione la fanteria motorizzata
supportata dai carri armati.
Mentre alcuni soldati affiggevano sui muri manifesti firmati
da Testa che vietavano alla gente di uscire di casa fino alle
dieci della sera, altri soldati e carabinieri penetravano
nelle case prelevando tutti, senza distinzione. Zeljac Matejk,
una vecchia di sessantasette anni gravemente malata capì
subito quel che sarebbe successo quando sentì calciare
la porta: fu percossa e trascinata fuori da casa a forza,
poi costretta a camminare verso la campagna. Insieme a lei
c’erano altri vecchi, donne e bambini: non avevano nulla
con loro, se non l’immagine della truppa che saccheggiava
i loro averi, se non la faccia di quei soldati che con i lanciafiamme
in spalla davano fuoco alle loro case. Zeljac sentiva i pianti
e le imprecazioni sommesse, sovrastate dalle urla dei militari
italiani, sentiva soprattutto il terrore aleggiare nell’aria.
In serata furono fatti salire sugli autocarri in direzione
di Fiume. Da lì furono deportati nei campi di concentramento
italiani che facevano del Bel Paese una prigione a cielo aperto.
Ma una sorte ancora peggiore aspettava gli uomini. Furono
condotti all’aerodromo militare e venne loro ordinato
di sedere per terra. Poi tutt’intorno furono piazzate
le mitragliatrici e in quel momento il silenzio si fece totale.
Lo ruppe un ufficiale d’aviazione che chiese ad alta
voce ai superiori se dovessero essere fucilati anche gli operai
impiegati all’aeroporto. Il maggiore Mario Rampioni
rispose con tono perentorio: “in seguito ad ordine del
prefetto: tutti”! Fu allora un carabiniere a chiamare
ad alta voce i primi nomi. Quattro. Si alzarono in piedi e
furono portati duecento metri più in là, ai
piedi di un monte. Furono massacrati dalle mitragliatrici
di due carri armati. Poi fu la volta di altri quindici nomi.
Nomi a cui corrispondevano uomini in carne e ossa. Stessa
scena: portati un po’ più in là e poi
il rumore, inconfondibile, delle mitragliatrici. Chi ci metteva
troppo a esalare l’ultimo respiro veniva finito con
i fucili. Ferdinando Barek era un ragazzo di quindici anni,
ma già un uomo per l’esercito italiano. Assistette
alla fine dei suoi compagni, poi fu la sua volta, insieme
ad altri nove. Poi quella di un altro gruppo, poi un altro
ancora, poi… C’era chi urlava, chi si agitava
in ogni modo, chi dava di matto, chi provava a scappare, ma
mai ci fu pietà. Alcuni abitanti di Podhum furono costretti
sotto la minaccia delle armi a trascinare i propri compagni
fino al luogo della fucilazione per poi essere trucidati a
loro volta.
Nessuna pietà per i vivi, né per i morti. I
corpi senza vita venivano derubati degli orologi, dei portamonete,
di ogni oggetto di un qualche valore. A mezzogiorno l’artiglieria
cominciò a martellare le case del paese: la distruzione
fu sistematica. Alla fine della giornata furono almeno centoventi
i fucilati, quasi duecento le famiglie deportate, cinquecento
gli edifici dati alle fiamme, più di mille i capi di
bestiame sequestrati. Di Podhum, villaggio di millecinquecento
abitanti, non era rimasto praticamente più nulla. Perché
tutto questo? L’esercito italiano di occupazione accusava
i cittadini di Podhum di essere solidali con chi era salito
in montagna o si era dato “alla macchia”, con
i partigiani insomma e voleva quindi con il terrore della
morte soffocare all’inizio il movimento nazionale di
liberazione.
Tecniche di depistaggio
Questo del villaggio di Podhum è solo un caso tra
mille. In tutti i Balcani, in Montenegro, Slovenia, Croazia,
in Grecia e in Albania, durante i due anni di occupazione
dal 1941 al 1943 l’esercito italiano ha compiuto una
serie impressionante di crimini di guerra simili a quelli
compiuti dalle truppe tedesche in Italia: bombardamenti e
incendi di villaggi, esecuzioni indiscriminate di partigiani,
deportazione di migliaia di persone in campi di concentramento,
istituzione di tribunali speciali, torture, uccisioni di ostaggi,
rappresaglie in proporzione di “otto a uno”. Quella
nei Balcani del resto non è che una tappa in un continuo
di efferatezze sistematiche che caratterizzano la politica
di aggressione fascista. Oggi abbiamo notizia di molte delle
atrocità compiute in Etiopia a metà degli anni
Trenta, grazie al lavoro degli storici, tra i quali soprattutto
Angelo del Boca. Con la benedizione di Pio XI e de la “Civiltà
Cattolica” l’esercito italiano fa duecentomila
morti tra la popolazione etiope anche per mezzo di gas tossici.
Oggi sappiamo quale fu il ruolo dell’esercito italiano
nella guerra civile spagnola, sappiamo, tra l’altro,
che sono gli aerei italiani a bombardare ripetutamente Barcellona
nel 1938.
Un filo nero che attraversa gli anni Trenta e arriva fino
all’inizio degli anni Quaranta, con l’invasione
della Grecia e dei territori dell’ex Jugoslavia. Oggi
che abbiamo a disposizione alcune carte su questi avvenimenti
viene fuori non solo che i crimini dell’esercito italiano
nei Balcani sono del tutto simili a quelli commessi dai nazifascisti
e dalla Wermacht in Italia, ma che essi li precedono cronologicamente,
essendo cominciati già tra la fine del 1941 e l’inizio
del 1942.
Così come per l’utilizzo dei gas tossici e dei
campi di concentramento è l’esercito italiano
a compiere ancor prima di quello tedesco tutte le atrocità
possibili in guerra. È un ulteriore elemento, questo,
che smentisce il mito degli “italiani brava gente”,
mito in crisi di credibilità ormai, almeno da quando
gli storici si sono presi la briga di svelare cosa hanno fatto
i nostri connazionali nelle province del cosiddetto “Impero”.
C’è un altro interessante parallelismo con i
crimini compiuti da nazistifascisti in Italia: entrambi sono
stati negati, rimossi dalla memoria collettiva e fisicamente
occultati. È probabilmente noto a tutti cosa si intende
per armadio della vergogna. Un armadio di uno scantinato di
un tribunale militare con le ante rivolte verso il muro in
cui furono occultati per decenni i documenti comprovanti i
crimini nazifascisti in Italia.
Qualcosa di molto simile è avvenuto per i crimini dell’esercito
italiano e delle camicie nere in Jugoslavia: i governi dal
dopoguerra a oggi hanno messo in atto tecniche di depistaggio
e insabbiamento che si sono servite di fini strategie diplomatiche
e di una sorta di cortina culturale che ha creato e rafforzato
ad arte il mito del bravo italiano. Nell’immediato dopoguerra
circa 750 militari italiani sono richiesti dalla Jugoslavia,
circa 180 dalla Grecia e 140 dall’Albania, perché
siano processati per crimini di guerra. Sono tutti accusati
di crimini simili a quelli avvenuti nel villaggio di Podhum.
Ma fin dall’8 settembre 1943 una delle preoccupazioni
principali degli organi di governo è impedire l’estradizione,
rinviando sine die qualsiasi procedimento giudiziario contro
i propri soldati. Nel 1948 il governo De Gasperi fa definitivamente
propria questa posizione, fino a che nel 1951 la magistratura
militare chiude con un nulla di fatto tutte le istruttorie.
Una riflessione critica sul nostro passato
Non a caso alcuni storici evidenziano come sia stata proprio
la mancanza di una “Norimberga Italiana” a contribuire
a perpetuare il mito del bravo italiano, secondo cui l’italiano
è sempre vittima e mai agente di violenza. Anche grazie
a questa memoria falsata, le classi dirigenti del nostro Paese
si sono scrollate di dosso troppo velocemente il proprio passato
fascista. Nel secondo dopoguerra i vertici politici, e ancor
più quelli militari e giudiziari, si sono ripuliti
dagli orrori del passato per presentarsi come ceto dirigente
della nascente democrazia, dichiarandosi d’un tratto
antifascisti, anche grazie alla compiacenza dei vertici del
Partito Comunista, Togliatti su tutti.?Questi nodi insoluti
riemergono in maniera più o meno carsica lungo la storia
del dopoguerra fino a oggi, quando ancora una volta il razzismo
di stato si è fatto legge: la Turco-Napolitano prima
e la Bossi-Fini poi hanno istituzionalizzato le prigioni per
migranti, i cosiddetti Centri di Identificazione ed Espulsione,
veri e propri lager. Essere clandestino è un reato:
gli stranieri sono oggi discriminati forse come mai prima
in Italia. Costretti a varcare i confini di notte, e poi a
nascondersi di giorno, su di loro il governo fa scatenare
le pulsioni xenofobe e le speculazioni economiche di una popolazione
sempre più impoverita e, forse, incattivita. Stranieri,
rom, poveri: contro queste “categorie” di persone
i governi scatenano le proprie crociate in perfetta continuità
con il ventennio e con quelle istituzioni e quella cultura
fascista che è presente nell’Italia del dopoguerra,
decennio dopo decennio in un continuum scalfito solo dai movimenti
di liberazione collettiva del lungo ’68, una sorta di
parentesi gioiosa in un quadro dalle tinte fosche. È
anche per questo che le forze di polizia e l’esercito
italiano sono a tutt’oggi pervase di una cultura sostanzialmente
fascista. Gli stessi poliziotti che erano nelle strade di
Napoli e di Genova a reprimere le manifestazioni di dieci
anni fa sono nelle strade e nelle caserme: e hanno spesso
e volentieri una qualche croce celtica, o al collo, o tatuata,
o attaccata al muro. Dicono di curare l’ordine pubblico,
ma sappiamo che sono solo una minaccia per tutti noi; non
passa settimana senza che qualcuno muoia in carcere, in questura,
o per un banale controllo stradale.
Smarcherare le menzogne
E così l’esercito: gli stessi che attaccavano
gli elettrodi ai testicoli dei prigionieri somali nel 1992
sono oggi in Afghanistan, le loro azioni di guerra sono circondate
da silenzio e omertà: quando filtra qualche notizia
la retorica di chi esporta pace o democrazia si rivela un
bluff e stiamo a contare i morti. I soldati italiani morti
e soprattutto centinaia di civili morti ammazzati, questa
volta afghani, ancora una volta colpevoli probabilmente di
dare ospitalità o di essere solidali con chi “si
dà alla macchia”. In questo contesto bisogna
inquadrare il revisionismo, che ormai da almeno due decenni
pervade non solo la storiografia ma soprattutto il senso comune.
Dall’abbraccio tra De Gasperi e Togliatti a quello tra
Fini e Violante, sino alle opere di disinformazione di massa
degli pseudo storici alla Giampaolo Pansa tirate in centinaia
di migliaia di copie, il cui unico scopo è ribaltare
la verità accusando i partigiani di essere loro i criminali,
e non gli aguzzini di Salò, c’è un unico
obiettivo: rimuovere le verità scomode, scrivere una
storia a uso e consumo delle classi dirigenti, spalancare
le porte al pensiero unico.
Oggi è sempre più necessaria una riflessione
critica sul nostro passato, sulle tante falsità su
cui si basa la cosiddetta memoria condivisa o pacificazione.
L’autoritarismo, il militarismo, l’oppressione
costante che lo Stato italiano ha dispiegato contro le classi
subalterne da 150 anni a oggi non va taciuto. Questo lavoro
culturale non può che andare di pari passo a un’opposizione
sociale intransigente nei confronti del massacro sociale cui
stiamo assistendo.
Abbiamo un estremo bisogno di smascherare le menzogne che
ogni giorno ci propinano: le menzogne dei sacrifici necessari
per pagare i costi della crisi, così come le menzogne
degli “italiani brava gente”. Il Presidente della
Repubblica Napolitano incarna alla perfezione l’inganno
attraverso cui i governi di ogni colore provano a riscrivere
il passato e a tenerci in uno stato di apatia e di obbedienza.
Lo conosciamo bene: fedele da sempre al Partito Comunista
è oggi il vero artefice del governo dell’ultraliberista
Mario Monti. Napolitano e Monti sono l’emblema di una
perfetta coincidenza di interessi che ha un unico obiettivo:
sfruttare la contingenza della crisi per farci regredire allo
status di sudditi.
Antonio Senta
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Telegramma
del prefetto della provincia del Quarnaro Temistocle Testa
al sottosegretario agli Interni Guido Buffarini del 13
luglio 1942. Dopo l’uccisione da parte dei partigiani
del fascista e maestro di scuole Giovanni Renzi e della
moglie, noti per la loro fanatica opera di fascistizzazione
della popolazione di Podhum, Testa comunica a Buffarini:
“Iersera tutto l’abitato di Podhum nessuna
casa esclusa est raso al suolo e conniventi et partecipi
bande ribelli nel numero di 108 sono stati passati per
le armi [...] Il resto della popolazione et le donne e
i bambini sono stati internati”i |
Libri
(e video) sui crimini di guerra italiani
Sul
sito web criminidiguerra.it
sono consultabili circa 170 documenti sui crimini compiuti
dall’esercito italiano nei Balcani.
Cfr. anche Filippo Focardi, Lutz Klinkhamer, La
Questione dei “criminali di guerra” italiani
e una Commissione dimenticata, “Contemporanea”,
a. IV, n. 3, Luglio 2001, pp. 497-528; Costantino Di Sante,
Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia
e i processi negati (1941-1945), Ombre Corte,
Verona, 2005 (prefazione di Filippo Focardi); Gianni Oliva,
Si ammazza troppo poco. I crimini italiani di
guerra ’40-’43, Mondadori, Milano,
2006; Alessandra Kersevan, Lager italiani,
Nutrimenti, Roma, 2008; Davide Conti, L’occupazione
italiana dei Balcani, Crimini di guerra e mito della “brava
gente”, Odradek, Roma, 2008. Cfr. anche
i video Fascist lecacy, regia di Ken
Kirby, BBC, Londra, 1990; La guerra sporca di
Mussolini, regia di Giovanni Donfrancesco, GA&A
Productions/Ert, Roma, 2008.
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