Lei è la fondatrice in Italia del Comitato
per i Diritti Civili delle Prostitute. Come nasce questo comitato,
quale percorso l’ha portata a fondarlo e quali sono
i suoi obiettivi?
Il comitato nasce nel 1993, da un piccolo gruppo di donne.
La ragione per cui lo abbiamo fondato è che non accettavamo
più la discriminazione che le donne prostitute subivano
e tutte le violenze e i soprusi da parte della polizia, e
non accettavamo più che tutta una serie di diritti
ci venissero negati in quanto facevamo questo lavoro. Bisogna
ricordare che in Italia non è proibito prostituirsi,
quindi noi partivamo da questo: se non è proibito prostituirsi,
allora perché impedire di vivere liberamente la propria
vita? Così abbiamo fondato questa associazione, questo
comitato, con l’obiettivo di far cambiare la legge che,
in Italia, regola la prostituzione. Però avevamo anche
un obiettivo molto più prestigioso che era quello appunto
di modificare l’opinione pubblica rispetto alle donne
che si prostituiscono. Speravamo che la gente, conoscendoci,
parlando con noi, cambiasse quell’atteggiamento di rifiuto
che ha rispetto a queste donne.
Dopo tutti questi anni qual è il bilancio?
Il Comitato ha ottenuto dei riconoscimenti, le vostre lotte
hanno portato dei risultati, Il vostro impegno è servito
a cambiare un po’ la mentalità comune su questo
tema?
Secondo me sì. A noi personalmente è servito
molto. È stato un lungo percorso di lavoro sia politico
che sociale. Però direi che in questo momento c’è
un approccio quanto meno diverso, quanto meno più rispettoso
delle persone, che non vanno necessariamente a indagare nella
vita delle donne che fanno questo lavoro anche se naturalmente
questo non succede in tutti gli strati della società.
La legge però non è stata ancora assolutamente
cambiata, stiamo ancora lottando perché la cambino.
Ogni tanto viene fuori qualche proposta demenziale da parte
dei governi di destra (a volte anche i governi di sinistra
non ci vanno leggeri!), però diciamo che a tutt’oggi
abbiamo ancora la legge Merlin. Che è comunque una
buona legge e che non deve assolutamente essere cancellata
per intero ma andrebbe piuttosto modificata in un paio di
punti, laddove impedisce alle donne di lavorare nelle proprie
case e nella parte dove c’è questo reato, che
è il reato di favoreggiamento, per cui chiunque favorisca
o faciliti la donna prostituta può essere denunciato.
Quest’ultima è la parte più penalizzante
della legge, perché crea tutto un cordone di diffidenza
attorno alla vita delle prostitute.
Nel libro “gli occhi della memoria”,
di Romano Giuffrida, lei ha scritto che ascoltando De André
ha sentito montare la sua dignità, dalla quale poi
sono arrivati l’orgoglio e la ribellione. Ci vuole raccontare
in che modo si è specchiata in canzoni come Via
del Campo?
Io ho sempre amato profondamente De André. Quando
ho sentito queste canzoni dove con enorme rispetto, con molta
sensibilità e con molta delicatezza si parlava di queste
donne, io mi sono sentita anzitutto, ovviamente, molto gratificata.
E poi è stato quasi come se mi infondessero coraggio:
è nato dentro di me il coraggio della ribellione, direi
proprio così. Perché ho sentito che, se un uomo
così importante, un uomo che io veramente adoravo,
diceva queste cose così belle di queste donne allora,
perché non provarci? Perché non alzare la testa
e chiedere i propri diritti? Perché non gridare a tutti:
“sono anch’io Bocca di Rosa, sono anch’io
una di Via del Campo e pretendo che voi mi accettiate per
quello che sono e non cerchiate di cambiarmi”. Ecco,
questo è stato per me veramente fondamentale.
Lei allora ha sentito che queste canzoni erano anche
un po’ anche le sue? Cioè che non erano state
scritte solo per gli altri ma anche proprio per lei?
Ma io le ho sentite veramente per me! Le canzoni di solito
parlano di donne molto “perbene”, parlano di amore,
parlano di relazioni cosiddette “normali”. Lui
cantava veramente la diversità, cantava l’emarginazione,
raccontava la vita di tutti questi personaggi di cui nessuno
osava nemmeno pronunciare il nome.
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Carla
Corso |
Sole
contro il mondo intero
Lei ha potuto condividere questo suo sentimento con
altre? Ha incontrato altre prostitute che avrebbero volentieri
detto “Grazie Fabrizio per queste canzoni”?
Quelle della mia generazione certamente sì! Abbiamo
condiviso questo sentimento in tante. Adesso, non so, le nuove
generazioni forse non lo conoscono neanche, o comunque hanno
trovato una situazione sicuramente meno difficile e meno spinosa
di quando noi, negli anni settanta e ottanta, abbiamo cominciato
le nostre lotte e ci sentivamo veramente da sole contro il
mondo intero.
In effetti poi lei “grazie” ha voluto
dirglielo personalmente, a De André. Lo ha voluto incontrare
e lui è stato contento, compiaciuto. Le va di raccontarci
come è andato quell’incontro?
È stata una cosa davvero molto emozionante! Io conoscevo,
per questi strani motivi per cui la vita ti porta a conoscere
gente di tutti i tipi, conoscevo un musicista che suonava
con lui all’epoca, era il batterista. E allora gli chiesi
se fosse stato possibile essere ricevuta dopo il concerto.
Lui mi organizzò quest’incontro e andai. Fuori
dal camerino c’era naturalmente molta gente, tutta una
coda di gente che voleva vederlo, voleva toccarlo, voleva
parlarci. E invece fecero entrare solo me, lui chiuse la porta,
io rimasi lì sola con lui e io, veramente, ero paralizzata.
Paralizzata perché proprio lì davanti a me c’era
uno dei miei idoli, se non proprio l’unico idolo, perché
io nella vita ho avuto ben pochi personaggi di riferimento.
Lui era davvero lì davanti a me, vivo e vegeto e potevo
dirgli qualsiasi cosa, ma ero tutta rigida, avevo la bocca
impastata e non riuscivo a parlare. Era proprio una forte
emozione, per cui non riuscivo ad aprire la bocca e a dire
niente. Ma lui è stato molto cordiale, molto carino.
Ha capito del mio forte disagio, ha facilitato la cosa, mi
ha messo a mio agio e così poi l’incontro andò
molto bene e io sono riuscita a ringraziarlo, a spiegargli
quanto il suo lavoro fosse stato importante per farci alzare
la testa.
Mi viene in mente che anche De André aveva
il suo mito, il cantante francese George Brassens. Però
lui Brassens non l’aveva mai voluto incontrare perché
temeva che l’uomo poi non corrispondesse all’immagine
che lui se n’era fatta. Lei questo timore non l’ha
avuto?
No. Io ero sicura che lui non poteva tradirsi, non so come
meglio dire. Ero sicura che lui era esattamente quello che
scriveva, quello che cantava. Ero sicura che il suo stile
di vita era quello e non poteva essere diverso. Anche se è
vero che poteva anche accadere: ho conosciuto altri personaggi
dello spettacolo che poi si sono rivelati meschini o comunque
non all’altezza del personaggio che portavano in giro.
Ma lui non era uno che recitava, lui era se stesso in qualsiasi
momento. Quello che scriveva lo pensava e lo condivideva.
Non credo che frequentasse i salotti eleganti anche se era
di estrazione borghese. Non credo che frequentasse la gente
“bene” e lo dimostra il fatto che con me si sia
sentito subito a suo agio e io lo stesso con lui. Io credo
che veramente frequentasse le persone di cui raccontava, altrimenti
non avrebbe potuto conoscerle così bene. Perché
lui, scrivendo e cantando, ha fatto veramente molto per la
nostra categoria e non solo per la nostra, anche per le altre
categorie di emarginati. Penso ai Rom, ai tossicodipendenti
e ad altri. Ha scritto e cantato cose bellissime per loro.
Ne: “La Città Vecchia” De André
dipinge un affresco dell’umanità varia che affolla
i vicoli di Genova, parlando in fondo proprio delle persone
che lei ha appena citato. Lì c’è una condanna
cristallina dell’ipocrisia benpensante, nella figura
del vecchio professore che di giorno chiama la prostituta:
“pubblica moglie” ma di notte la va a cercare.
Lei come l’ha vista questa figura del vecchio professore
proposta da De André?
Io il vecchio professore l’ho incontrato tutti i giorni
della mia vita e continuo a incontrarlo! Lui, certo, l’ha
descritto molto bene, ma questi personaggi sono attorno a
noi tutti i giorni, con quella ipocrisia. Ho anche l’impressione
che in questo momento sia sempre più forte questa doppia
morale. Questa morale di giorno che poi di notte cambia. Tutti
questi personaggi che io personalmente chiamo “Dottor
Jekyll e Mister Hide”, che poi sono gli uomini, l’uomo
di tutti i giorni, quello che di giorno porta la cravatta
e di notte va sulle strade a comprare le piccole albanesi
o le donne che arrivano dall’est (adesso io sto parlando
proprio dell’Italia), donne sempre più piccole,
sempre più giovani, sempre più sfruttate. Quindi
il vecchio professore non è un vecchio personaggio:
è un personaggio che continua a vivere purtroppo, anche
perché ho come l’impressione che l’uomo
non si metta mai in discussione e sia sempre pronto a giustificare
tutte le proprie debolezze senza mai un’autocritica.
Il prete genovese Don Andrea Gallo ha “confessato”,
proprio da questi microfoni, che sono state le canzoni di
Fabrizio De André a farlo avvicinare alle prostitute,
ai drogati, agli “ultimi”, come lui li definisce.
Conosco molto bene Don Andrea Gallo ed è un personaggio
che adoro. Ci vorrebbero tanti sacerdoti come lui ma purtroppo,
in questo momento penso che quelli come lui siano veramente
rari e in via di estinzione. Mi auguro che lui possa vivere
a lungo per continuare a fare quello che fa, e a rompere tutti
i giorni, solo per il fatto di esserci, gli schemi precostituiti,
e tutti i preconcetti e tutti i pregiudizi che la gente ha
e continua ad avere.
Proprio accennando a “La città vecchia”
Don Andrea ha detto che Fabrizio De André è
grande perché con lui: “le prostitute insegnano
e i professori vanno a scuola”. Lei si rispecchia in
questa affermazione?
(ridendo) Ma, io non sono molto scolarizzata, però
mi piacerebbe molto! Per la verità io credo qualche
volta di aver fatto scuola anche a dei grandi professori,
scuola di vita intendo. E continuerò a farla, se mi
sarà data la possibilità.
La
categoria delle puttane
Da Via del Campo a Princesa, il
tema della prostituzione, sotto varie forme, ritorna spesso
nella poetica di De André. Di tutta quest’opera
che ha come filo rosso l’attenzione agli emarginati,
che restituisce, come ha scritto lei stessa: “volto
e voce ai dannati”, quali canzoni ha sentito più
vicine nella sua vita come donna, come prostituta e poi anche
come attivista del movimento per i diritti civili delle Prostitute?
Non credo che vorrei sceglierne una in particolare, però
c’è una raccolta che amo molto ed è “Storia
di un impiegato”. Lì dentro ci sono, davvero,
più di dieci anni di storia italiana, importante, nostra,
fondamentale. E lui ne ha trattato in modo così delicato,
pur trattando temi così drammatici. E comunque io le
ho amate tutte le sue canzoni, anche ad esempio l’album
che ha pubblicato dopo il rapimento, quello con l’indiano
in copertina: bellissimo! Direi che non ho un brano che prediligo.
Magari potrei dire che uno lo prediligo meno degli altri ed
è la “Canzone di Marinella”, forse perché
è stata cantata troppo, ecco direi che questa è
forse quella che amo di meno.
Riferendosi forse alla produzione di Fabrizio degli
anni sessanta-settanta lei ha anche scritto “nell’Italia
‘cattocomunista’ di quegli anni lontani essere
prostituta, drogato o carcerato significava non esistere,
non solo come persona ma anche come categoria sociologica”.
Secondo lei le cose sono cambiate? Adesso queste categorie
sono più riconosciute?
Esiste una forma di riconoscimento ma soprattutto come problema
sociale. Un sacco di gente si occupa di noi e di altre categorie.
È nata la filosofia della riduzione del danno, quindi
si scende in strada, si cerca di aiutare la gente in difficoltà.
Si cerca di portare soccorso ai tossici se sbagliano la dose.
Si cerca di insegnare alle prostitute a farlo bene, per non
ammalarsi. Ma ancora non si è accettati come persone,
si è ancora visti come categorie: la categoria dei
tossici, la categoria dei carcerati, la categoria delle puttane.
E adesso, qui in Italia almeno, c’è la categoria
dei migranti e delle donne migranti, che spesso sono anche
prostitute. Non sono ancora accettate come persone, sono diventate
categorie e alcune categorie in questo momento sono anche
un grande business, come l’immigrazione: si finanziano
progetti di inserimento socio educativo, progetti di rieducazione
(questa parola la trovo terribile, però adesso molti
progetti vengono finanziati per rieducare i migranti, affinché
si adattino al nostro standard culturale). Insomma non sono
ancora persone!
Nel libro in cui si racconta a Cesare Romana, Fabrizio
De André rivela anche alcuni retroscena di queste sue
canzoni. Sappiamo così che la sua conoscenza della
prostituzione, come del resto diceva anche lei prima, è
una conoscenza diretta. Via del Campo ad esempio
prende forma dal rapporto con un transessuale che “batteva”
in quella strada. De André aveva anche avuto una lunga
relazione con una prostituta, che andava a prelevare dopo
il lavoro, come lui stesso ha raccontato. Ecco secondo lei
in questo non si potrebbe intravedere una contraddizione?
Cioè il giovane De André “cliente”
di quelle prostitute non è in contraddizione quando
poi ne parla con quel rispetto che emana dalle sue canzoni?
Ma io adesso non so dire se lui avesse pagato questa donna
oppure l’avesse amata. So però per certo che
le prostitute suscitano grandi amori: donne bistrattate di
giorno ma molto amate di notte. E quindi, perché no?
Perché non concedere anche una grande storia d’amore
fra De André e la fortunata che l’ha avuto? Ma
potrebbe anche non essere stato tutto questo, potrebbe anche
essere stato solo un grande rapporto di amicizia. Genova in
fondo è una città davvero particolare e io ho
voluto andare a visitarla proprio per capire quelle canzoni,
capire perché Genova e non un’altra città.
Genova in realtà ha sempre accettato le sue prostitute.
Le prostitute lavorano all’interno della città
vecchia, nel cuore della città. Lavorano sulla porta
di casa fianco a fianco alle botteghe. Quindi non sono mai
state discriminate, emarginate, spinte ai margini della città
come è successo altrove, nelle periferie di altre città.
La prostituta era uno dei tanti soggetti che animavano i vicoli
di Genova e quindi, perché no, poteva nascere sia un
grande rapporto di amore che un grande rapporto di amicizia.
E poi io credo che il fatto di pagare una donna non debba
necessariamente portare al disprezzo verso questa donna, se
poi il rapporto che ne nasce è un rapporto ricco.
Ma
quale “ex prostituta”!
Nell’unico romanzo di De André, Un
destino ridicolo, c’è, fra i protagonisti,
Carlo, un pappone di Genova. Carlo si somma alla galleria
di personaggi di De André, senza che sul suo “lavoro”
ricada tutto sommato un giudizio negativo. Anzi, messo a paragone
con i caporali che sfruttano le lavoratrici del sud, il pappone
qui diventa quasi un benefattore. Secondo lei non si rischia
qui di esaltare una figura che in fondo è quella dello
sfruttatore?
No e le dico anche perché. Molto spesso la figura
del “pappone” è una figura inventata dalla
società perché sembra che sia quasi impossibile,
per la società, accettare che un uomo “normale”,
un uomo qualunque, osi intrecciare una relazione amorosa con
una prostituta. Quindi, di fatto, quest’uomo diventa
il suo pappone, sempre, anche se questo è un uomo che
non la sfrutta, anche se questo è un uomo che non la
picchia, anche se è un uomo che non le porta via il
denaro e non la obbliga a prostituirsi, lui sarà per
forza il suo pappone. E questo, lo ripeto, molte volte è
una figura inventata: tutte le volte che una prostituta ha
una relazione con un uomo di fatto lui viene travolto e buttato
all’inferno assieme a lei nonostante faccia magari una
vita del tutto normale, del tutto regolare. Quindi non bisogna
dare per scontato che quelli che vengono chiamati papponi
siano tutti davvero papponi e che i compagni delle prostitute
siano tutti violenti, rozzi, ubriaconi che magari picchiano
la propria compagna, perché non è assolutamente
così.
A proposito di sfruttatori, c’è una
frase del “Testamento” che mi piacerebbe lei ci
commentasse. Quando De André fa dire al suo protagonista,
morente, “ai protettori delle battone, lascio un impiego
da ragioniere, perché provetti nel loro mestiere, rendano
edotta la popolazione, ad ogni fine di settimana, sopra la
rendita di una puttana”. Come la vede?
(ridendo) Molto bella, molto bene come lui l’ha
scritta! Si vede che sapeva di cosa parlava, perché
è evidente che se un uomo fosse riuscito a far quadrare
i bilanci delle prostitute avrebbe avuto un futuro come ragioniere!
Abbiamo un rapporto perverso con il denaro, le prostitute
hanno un cattivo rapporto con il denaro. Forse in generale
tutte le donne, ma le prostitute ancora di più! Perché
non hanno un datore di lavoro, un orario di lavoro. Le prostitute
possono guadagnare in qualsiasi momento: basta uscire in strada,
di giorno o di sera, e si troverà sempre qualcuno che
ti paga. Quindi far quadrare il bilancio di una prostituta
è molto complicato e molto difficile, capitalizzare
i soldi di una prostituta anche, quindi posso immaginare perché
De André abbia scritto quei versi. E poi mi fa venire
in mente che esistono davvero delle figure analoghe, vi racconto
questa cosa. C’è tutto un gruppo di prostitute
che lavora nella zona che va da Milano al laghi, sulla strada
conosciuta come la “Valassina”. E c’è
un signore, un signore piuttosto in età, che fa il
giro di notte a raccogliere i soldi di queste donne e annota
tutto quanto su un libricino: il nome della ragazza e accanto
i soldi che raccoglie. Poi, il giorno dopo, li versa in banca,
versa ad ognuna la somma che spetta sul rispettivo conto corrente.
Questo servizio serve ad evitare il rischio di essere derubate,
perché molto spesso le prostitute sono prese di mira
da rapinatori e ladruncoli da strapazzo che a metà
serata passano e le ripuliscono. Ecco questo signore mi ricorda
proprio la canzone di De André anche perché,
guarda caso, le ragazze lo chiamano proprio “il ragioniere”,
anche se non so se sia davvero un ragioniere, però
è sicuramente una persona di estrema fiducia. Ecco:
visto dal di fuori questo potrebbe sembrare un pappone, invece
non lo è. È una persona di fiducia delle ragazze
che lavorano su quella strada.
Lei ha anche scritto: “il mio riconoscimento
va al cattivo maestro, che mi ha insegnato l’innocenza
del peccato senza pentimento. Lei prima di conoscere De André
si sentiva “peccatrice”?
No, però molto spesso mi hanno fatto sentire così
gli altri. Ma più gli anni sono passati e sempre meno
mi sono sentita colpevole o peccatrice, fino ad oggi, che
ho più di cinquant’anni e posso affermare di
non essermi mai pentita. E la cosa che mi fa arrabbiare di
più è quando mi chiamano: “l’ex
prostituta”. E anche questa è una grossa lotta
che ho fatto. Perché è un marchio a vita. Qualunque
cosa tu faccia, oltre a fare o ad aver fatto la prostituta,
tu comunque resti per gli altri l’ex prostituta. E io
sostengo che o sei una prostituta o non lo sei, ma come si
fa ad essere ex prostitute? E poi questo termine: “ex”,
così negativo, viene assegnato sempre e solo alle categorie
considerate peggiori: ex carcerato, ex drogato, ex puttana.
Non ho mai sentito dire: “ex professore di università”.
E quindi io no, non mi sono mai pentita, assolutamente, ma
sono gli altri che mi hanno fatta sentire così. Gli
altri, ma non De André.
Progetti
di accoglienza
Nel vostro sito web, si parla della libertà
di vendere e comprare sesso fra adulti consenzienti. Ma oggi
si parla sempre più spesso di schiave del sesso, di
straniere costrette a prostituirsi. Lei stessa accennava prima
a ragazze sempre più giovani e sempre più sfruttate.
Quanto è diverso il quadro della prostituzione oggi,
rispetto all’epoca in cui De André scriveva Via
del Campo?
È cambiato radicalmente, perché le prostitute
delle canzoni di De André, della sua epoca, erano donne
italiane, perlopiù adulte, qualche volta anche in età,
comunque molto consapevoli di quello che stavano facendo.
In questo momento invece abbiamo, in tutta Europa, non solo
in Italia, migliaia di donne spinte dalle guerre, dalla fame,
dal desiderio proprio di cambiare il loro destino, e assieme
al loro quello della loro famiglia, che emigrano. Però
qui io farei una scelta ben precisa: molte di queste donne
non vogliono fare le prostitute, non vengono in Europa per
vendere sesso o per prostituirsi. Vengono con la speranza
di trovare un lavoro. Però entrare in Europa è
così difficile, così impossibile, che l’unica
possibilità che resta per venire qui è quella
di affidarsi ai trafficanti. E quindi di fatto queste donne
diventano merce, da importare, da trafficare, da mettere sui
nuovi mercati, sulle nuove frontiere del sesso. Ecco perché
prima ne parlavo in maniera critica: perché moltissime
di queste donne non sono né consapevoli di quello che
andranno a fare e neanche sono d’accordo. Però,
pur di andarsene per sfuggire al destino miserabile che hanno
nel loro paese, sono disposte ad accettare qualsiasi compromesso.
Il primo è quello di mettersi nelle mani di chi riuscirà
a far loro varcare le frontiere, questi trafficanti di vite
umane. E poi qualsiasi opportunità di lavoro è
buona, pur di non dover tornare a casa, a meno che non si
tratti di tornare da migrante che ce l’ha fatta, con
le valigie nuove e con del denaro da dividere con le proprie
famiglie.
Come Comitato voi siete in contatto con queste prostitute
che non vorrebbero fare questo lavoro? Avete la possibilità
di aiutarle a uscire dal giro o è troppo difficile
e pericoloso?
Noi abbiamo vari progetti di accoglienza per donne vittime
che decidono di uscire dal giro della prostituzione, che non
vogliono più stare in strada e vogliono fare altro.
Noi in questi casi le accogliamo in questi nostri centri di
accoglienza e facciamo assieme a loro un percorso, che molto
spesso dura anche un anno, e che è un percorso lento
ma che progressivamente le porta ad una totale emancipazione
dalla prostituzione e dal racket che le sfruttava e cominciano
una vita diversa, andando a lavorare, ecc. Noi le aiutiamo
a ricostruirsi una vita, a cominciare dai documenti che molto
spesso vengono sottratti dai trafficanti. Le mandiamo a scuola
di italiano, perché senza parlare la nostra lingua
non avrebbero nessuna possibilità; poi facciamo formazione
professionale e inserimento lavorativo. Alla fine le aiutiamo
a trovare una propria abitazione e a quel punto sono, si spera,
libere di vivere nel nostro paese, lavorando e con un dei
documenti regolari e non più clandestine in balia dei
malavitosi e del racket che le sfruttava.
Non avete mai avuto minacce dal racket? Voi non fate
certo i loro interessi!
Alcune minacce sì, ma non molto spesso. Non vorrei
neanche focalizzarmi più di tanto su questo. Comunque
poca roba. C’è anche da dire che questi trafficanti,
purtroppo, persa una donna ne recuperano altre tre. C’è
talmente tanto materiale umano, in Europa dell’Est,
in Africa, in America Latina, per cui anche se si riesce a
portar via dal giro due o tre donne, per loro non è
una grande perdita. Purtroppo le sostituiscono subito.
Lei ha anche scritto tre libri sul tema della prostituzione.
Di che si tratta?
Il primo s’intitola: “Ritratto a tinte forti”.
È una sorta di autobiografia molto ironica, ma anche
un racconto di quello che è la prostituzione vissuta
in prima persona negli anni ottanta e novanta, come donna
autonoma e consapevole e senza alcun sfruttatore dietro le
spalle. Il secondo invece, che s’intitola “Quanto
vuoi?” e a mio avviso è anche il migliore, è
una sorta di ricerca sui clienti delle prostitute. Io, prima
di lasciare l’attività volevo lasciare qualcosa
di scritto sul mondo dei clienti. Perché tutti quanti
hanno scritto delle prostitute. Tutti quanti le hanno analizzate,
tutti quanti le hanno studiate, tutti quanti hanno detto la
loro sulle prostitute. Ma nessuno aveva mai osato scrivere
niente sui clienti. Quindi io ho fatto una raccolta importante
di testimonianze. Ho raccolto 340 interviste. Alcune consapevoli,
nel senso che i clienti hanno accettato di farsi intervistare,
altre invece le ho “rubate” mettendo il registratore
in un punto strategico. Ne è venuta fuori una bella
panoramica dell’umanità maschile, anche se, devo
dire, non si rappresentano un granché bene! Il terzo
libro, “E siam partite”, è una serie di
storie di donne migranti, di donne che hanno lasciato il loro
paese e si sono affidate ai trafficanti e che raccontano il
loro progetto di vita, il loro progetto migratorio, i loro
sogni. Qualcuna ce l’ha fatta, qualcuna non ce l’ha
fatta, io ho messo nel libro le loro storie.
Che accoglienza hanno avuto i suoi libri, come ha
reagito il pubblico italiano?
Il primo ha avuto abbastanza successo, è stato anche
tradotto in Spagna e Germania. Quello sui clienti, come mi
aspettavo evidentemente, visto che l’editoria è
in mano ai maschi, non è stato molto apprezzato. Sono
stata molto criticata per aver osato svelare quelle cose.
Quanto al terzo, mi auguro proprio che la gente lo legga,
perché dietro a queste storie c’è una
grande umanità e c’è una grande speranza:
nessuna di queste donne è disperata, nessuna si è
arresa. Sono tutte donne combattive che vogliono comunque
vincere la loro sfida contro la miseria, la guerra, contro
il niente che si sono lasciate dietro nei loro paesi.
Nei messaggi che ci siamo scambiati in questi giorni,
prima di questa intervista, mi ha colpito una sua affermazione.
Lei era un po’ stupita che la contattassimo dall’Australia
per parlare di De André in questo modo, e mi ha scritto:
“lei certo farà parte di quella schiera di persone
colte e sensibili che hanno capito il grande messaggio che
ha lasciato De André”. Perché secondo
lei, per capire De André bisogna essere anche “colti”?
Ma io non volevo riferirmi alla cultura formale, scolastica.
Intendo colti in modo sensibile per poter riuscire a capire
il suo messaggio. Io francamente non credo che la massa, questo
tipo di persone che guardano la televisione e ascoltano le
canzonette siano davvero in grado di capire quel messaggio
fino in fondo. Forse voi non sapete cosa trasmette la televisione
qui in Italia ma ormai il livello è così basso
che io lo trovo quasi offensivo. Allora io non credo che questa
gente che magari passa cinque ore al giorno davanti alla TV
a vedere queste cose possa poi capire quello che ci ha lasciato
De André. Forse sono troppo presuntuosa io e sottovaluto
l’umanità, però in questo momento io trovo
che l’umanità che mi circonda sia veramente povera
e anche un po’ gretta. Non ho grandi speranze su questa
società. Sono tutti quanti uguali, si vestono tutti
nello stesso modo, la pensano tutti allo stesso modo e mangiano
tutti le stesse cose. Quindi io penso che non siano in grado
di capire cose profonde come quelle di De André.
(Intervista realizzata via telefono il 29/04/2005. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in
onda nell’ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In Direzione Ostinata e contraria”, dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).