Signora
Ministra della Giustizia, chi è il ladro?
“Che io possa avere la
forza di cambiare le cose,
che io possa avere la pazienza di accettare le cose
che non posso cambiare,
che io possa avere l’intelligenza
di saperle distinguere”.
(Tommaso Moro)
Sono state pubblicate dai giornali alcune denunce dei redditi
e ho pensato che molta gente che guadagna un sacco di soldi
a volte ruba, molto di più di un barbone per sfamarsi,
di un tossicodipendente per trovare i soldi per la sua dose
e di un malavitoso per cercare di cambiare il suo destino e
quello della sua famiglia.
Eppure, chissà perché, in carcere è così
difficile trovare un banchiere, un politico, un giudice, un
imprenditore, un vescovo e altri cosiddetti “colletti
bianchi”, forse perché ci sono veri delinquenti
che non entrano mai in galera, e poi ci sono ex delinquenti
che non escono mai dal carcere.
Leggendo il giornale “La Repubblica” di venerdì
24 febbraio 2012 ho scoperto che l’ex Capo Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta guadagna
543.954 euro. E mi sono domandato come fa un uomo che comanda
le carceri a non vergognarsi di guadagnare così tanti
soldi mentre un agente della Polizia Penitenziaria riesce a
malapena a sopravvivere e a mantenere i suoi familiari e i detenuti
guadagnano veri stipendi di fame. Non mi resta che sperare che
il nuovo Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria, Giovanni Tamburino, (ex Presidente del Tribunale
di Sorveglianza Roma) si diminuisca lo stipendio per proporre
di aumentarlo alle guardie carcerarie e ai detenuti che lavorano.
E per ultimo ricordo alla Ministra della Giustizia, tecnica,
ma spero volenterosa, che i fondi destinati alla retribuzione
dei detenuti-lavoratori, sono passati dai 71.400 euro del 2006
ai 49.664 euro del 2011 (- 30,5%), e che il numero degli occupati
è rimasto pressoché invariato; il risparmio è
stato ottenuto riducendo le ore d’impiego e da 18 anni
le retribuzioni dei detenuti non vengono adeguate: Il lavoro
alle dipendenze del DAP viene retribuito avendo come riferimento
economico i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di vari
settori, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento previsto
nei contratti stessi, così come indicato nell’art.
22 dell’Ordinamento penitenziario. Tuttavia l’adeguamento
ai CCNL non è stato effettuato dal 1994, per carenza
di risorse economiche. (Notizie registrate al Registro Stampa
del Tribunale di Padova n°1964).
Ricordo pure alla Ministra della Giustizia che dal mese di novembre
2011 svolgo attività lavorativa come scrivano/bibliotecario
nel carcere di Spoleto, con passione, dedizione e fantasia e
mi sono attivato, con spese personali di cartoleria e valori
bollati, e ho scritto a diverse case editrice per rinnovare
e aggiornare la biblioteca, facendo arrivare per il momento
un migliaio di libri. Eppure la mia paga media mensile è
di 26,48 ¤ e non credo proprio che questa sia una remunerazione
decorosa e rieducativa, la trovo piuttosto umiliante.
A questo punto mi chiedo: Signora Ministra della Giustizia,
chi è il ladro?
Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto (Pg)
www.carmelomusumeci.com
Proposta:
i “Comitati di liberazione dallo Stato”
Sfogliando il numero di Marzo della prima rivista italiana in
ordine alfabetico, leggo sbalordito l’articolo di Andrea
Papi, riassunto magnificamente nel titolo “Il
tributo iniquo delle tasse”. Papi in tal articolo
si sofferma su una considerazione etica e libertaria della tassazione,
il problema non è la quantità di tasse che paghiamo,
se esse siano eque o no o se i ceti medio – alti paghino
la quantità giusta di tasse, il problema è la
tassazione in sé. Ogni anarchico sa, che mettere in discussione
ogni dì lo stato è il compito principale, dobbiamo
partire dal presupposto che lo stato vive la sua coercizione
attraverso lo strumento fiscale, in poche parole, riconosciamo
lo stato moderno attraverso i tributi, quando paghiamo le tasse
diamo il nostro ok alla proliferazione dell’organismo
statuale.
Papi riflette in modo davvero intelligente tutto ciò,
senza macchia, un articolo da incorniciare per la sua precisione,
strabiliante ancor di più che anche tra gli anarchici
si avvii una discussione di tal genere, un dibattito che finalmente
guardi alle tasse come prodotto dell’imposizione del potere
statuale e dei suoi amici economici.
Come dimenticare tutte le polemiche con quell’agenzia
di morte morale e non solo, chiamata Equitalia? Papi nell’articolo
parla di disobbedienza civile e non-violenta contro lo strumento
fiscale, aggiungo che condivido dicendo non sarebbe ora di mettere
su dei “Comitati di liberazione dallo Stato”, partendo
proprio dalla lotta fiscale, dallo sciopero contro la rapina
fiscale? Un servizio va scambiato tra gli individui, secondo
scelte non coercitive e liberamente, volontariamente tra gli
uomini, quello che fa lo stato, invece, è imporre, la
stessa logica che fa vivere tutte le organizzazioni della malavita
in teoria all’opposto dello stato, in realtà specchio
dell’altra realtà.
Siamo sottoposti alla condizione, beffarda per lo più,
di contribuire a spese che non abbiamo voluto e non possiamo
controllare, grazie alle tasse che versiamo si pagano gli aeri
militari della morte e grazie alle nostre tasse si costruiscono
le megastrutture di morte come la TAV e sempre con le tasse
si paga chi di mestiere è autorizzato a “picchiare”
chi contro queste megastrutture lotta. Il problema è
lì, nella tassazione. Disobbedienza fiscale non è
un concetto assurdo ma una vertenza autenticamente e intimamente
libertaria.
Un saluto libertario.
Domenico Letizia
(Maddaloni – Ce)
La
malattia dell’economia globale (con una proposta di risanamento)
Dom Arigipulo di
Zab (Novara) si è messo nei panni dei due noti editorialisti
economici del Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi e ha scritto
un “loro” articolo assolutamente falso ma altrettanto
assolutamente verisimile. Eccolo.
Almeno due secoli di storia economica ci hanno portato alla
situazione attuale. Pure noi, che da sempre lodiamo i pregi
del sistema capitalista mondiale, ci siamo accorti che qualcosa
non funziona a dovere.
Tranquilli, non siamo certo diventati antiliberisti: siamo sempre
convinti che proprietà privata dei mezzi di produzione
e libero mercato siano i fondamenti di ogni sistema economico
sano.
Non si può certo immaginare di creare valore in un sistema
pianificato al modo del vecchio socialismo sovietico. Anche
i cinesi l’hanno compreso nel corso degli ultimi trent’anni:
non possiamo certo definire la Cina un paese socialista nel
senso classico marxiano. Le diverse aree dell’Impero di
Mezzo nelle quali funzionano le nostre stesse regole di mercato
ormai sopravanzano i territori protetti ed i residui collettivisti
presenti nell’organizzazione del lavoro agricolo e dei
settori industriali arretrati.
Ormai tutto il mondo è capitalista. Anche chi si oppone
formalmente ha, in fondo, conservato solo una vuota denominazione:
partito comunista cinese, partiti comunisti e socialisti qua
e là nel modo, i residui di un castrismo ormai riassorbito
tra i tranquilli regimi nazional-populisti latinoamericani.
Partiamo dunque da questo dato: non esiste un’alternativa
credibile al capitalismo globalizzato.
Eppure c’è una crisi profonda che sta fiaccando
il sistema economico mondiale. Eppure dobbiamo ammettere che
qualcosa non funziona a dovere.
Dove sta il problema principale che impedisce al sistema economico
di funzionare al modo in cui classici della “triste scienza”
avevano vaticinato con tanta sicumera?
Il problema sta negli esiti imprevisti dell’Illuminismo
ideologico. A furia di considerare la libertà individuale
come fosse un valore in sé, si è esagerato non
poco. Certo i pensatori settecenteschi pensavano alla loro persona,
ai loro familiari, ai loro amici: insomma, ai membri delle classi
privilegiate. I liberi ed eguali (ma non troppo) dovevano essere
gli ottimati: gli aristocratici per famiglia e tradizione, ma
anche i nuovi arrivati in forza del loro censo (quindi uomini
d’affari, delle professioni, della neonata borghesia industriale).
Ma qualcuno ha voluto esagerare e ha esteso i cosiddetti diritti
umani fondamentali anche alle classi subalterne, ai lavoratori
tutti. Così, come per magia, ci siamo trovati in un mondo
nel quale le differenze di ceto sono sparite: un operaio di
fabbrica può vantare gli stessi diritti di un manager
per la cui istruzione sono state spese (dalla sua famiglia o
da altri) quantità enormi di denaro.
Tornando sul terreno dell’economia politica, abbiamo assistito
alla liberazione del fattore produttivo lavoro. La soggettività
dei lavoratori si è posta, nel corso degli ultimi due
secoli, su un inusuale piedistallo, pretendendo di essere coprotagonista
sulla scena del mondo della produzione e dello scambio. Il fattore
lavoro si è voluto differenziare dagli altri fattori
produttivi (risorse naturali, capitale) e ha imballato, con
tali pretese, il funzionamento corretto del sistema capitalista.
Ecco allora la nostra proposta. Proviamo, sperando che non sia
già troppo tardi, a rimediare agli eccessi ideologici
del pensiero liberale. Rimoduliamo il liberalismo, costruiamo
un pensiero ben temperato dalle prove e dalle durezze della
vita. Acquistiamo coraggio e diciamocelo con chiarezza: il sistema
capitalista può funzionare bene solo se si ricostruisce
un meccanismo di regole che riconduca il lavoro nel suo ambito
naturale.
Intendiamo dire che il lavoro deve essere servile. Deve cioè
essere di proprietà di colui che può acquistarlo
in forza dei capitali finanziari posseduti.
Il capitale umano è funzione dell’accumulazione
del capitale tecnico e di quello finanziario: è cosa
limpida e cristallina.
Se vogliamo che l’imprenditore e che l’investitore
possano essere davvero padroni del loro destino, abbiamo bisogno
che il lavoro si pieghi completamente alla loro volontà
demiurgica.
Le materie prime si ribellano forse a chi le forgia? Le macchine
ben funzionanti si ritorcono contro il loro manovratore? Le
masse di denaro flottante nei forzieri delle banche centrali
in compagnia dell’oro ivi custodito cospirano forse ai
danni dei loro padroni? E allora perché il lavoro dovrebbe
essere l’unico fattore produttivo a ribellarsi contro
i signori dell’economia globale?
Ecco il problema ed ecco la soluzione: è necessario,
al più presto, ricostruire un insieme di regole formali
(sostenute al livello gerarchico più elevato, cioè
a livello costituzionale) che riconducano il lavoro entro i
confini di un servaggio efficiente e funzionale alle esigenze
della produzione e dei consumi dei ceti privilegiati.
Solo introducendo questa innovazione giuridica (che altro non
è se non un ritorno ad un passato più felice)
possiamo sperare di annullare il conflitto di classe fondato
sull’invidia.
Solo in tal modo possiamo immaginare che l’Imprenditore
possa riacquistare la sua originaria libertà di intraprendere,
di plasmare la sua impresa a sua somiglianza, di gestire le
risorse (anche quelle umane) in vista di un vero accrescimento
del valore aggiunto.
Solo in tal modo possiamo liberare Stati ed Imprese dall’eccesso
di indebitamento che sta demolendo il sistema capitalista: il
lavoratore-servo, infatti, smetterà di pretendere tutti
quei servizi di vario genere che hanno svuotato le casse erariali
di più di una nazione.
E ci siamo limitati solo alla menzione dei vantaggi economici
di tale ristrutturazione normativa. Ognuno può vedere
da sé quali potranno essere i vantaggi morali e politici
per l’intera nostra comunità.
(testo di Dom Argiropulo di Zab)
No
Tav / Una ribellione contagiosa
Dieci giorni indimenticabili. Dieci giorni che hanno dato
una spinta all’opposizione sociale nel nostro paese. In
questi dieci giorni la scintilla partita dalla Val Susa ha infiammato
le piazze della penisola, un contagio immediato, capillare,
incontenibile, che sta mettendo in difficoltà l’esecutivo
guidato da Mario Monti.
Il governo, forte dell’appoggio bipartisan di buona parte
dell’arco parlamentare, nei suoi primi cento giorni ha
goduto di una sorta di benedizione nazionale. Destra e sinistra
hanno provato a vendere l’illusione che i tecnici prestati
alla politica potessero curarne i mali. Nei fatti sono stati
bravi nel mostrare un’asettica capacità di fare,
e in fretta, quello che Fondo Monetario, Banca Centrale Europea
pretendono dai paesi dell’Unione schiacciati dalla crisi:
eliminazione di ogni forma di tutela, disciplinamento forzato
dei lavoratori, svendita dei beni comuni.
La precarietà del lavoro, già sancita dalle leggi
Treu e Biagi, nei piani di Monti deve divenire l’unico
orizzonte possibile e desiderabile da tutti.
La retorica contro la noia del posto fisso, della vita tutta
quanta nella stessa città, dei legami con i propri cari
come catena da spezzare sta accompagnando il percorso verso
la demolizione del poco che resta. L’attacco alla tutela
contro i licenziamenti politici, alla cassa integrazione, il
lavoro interinale che esce dall’eccezione per divenire
la norma sono alcuni dei tasselli del puzzle di Monti.
Nonostante
la Grecia rivelasse, come uno specchio orientato nel prossimo
futuro, l’inevitabile esito delle politiche del governo,
le lotte sono state deboli, parcellizzate, incapaci di catalizzare
il consenso popolare.
L’imponente manifestazione del 25 febbraio in Val Susa
è stato il primo segnale – forte e chiaro –
di un’inversione di tendenza. Nonostante una campagna
mediatica martellante, nonostante le dichiarazioni del capo
della polizia Manganelli, che descriveva il movimento No Tav
come nido di terroristi pronti a uccidere, decine di migliaia
di persone si sono riconosciute in un movimento capace di rappresentare
chi vuole case, ospedali, scuole, treni per i pendolari e non
è più disponibile a pagare la crisi dei padroni.
Non è più solo una questione di ambiente: oggi
più che in passato è diventata la sfida di chi
si batte per l’interesse generale contro l’arroganza
di chi vuole imporre con la forza un’opera inutile, dannosa,
costosissima.
La partita sulla linea ad alta velocità tra Torino e
Lyon è arrivata ad un punto cruciale. È in ballo
un intero sistema, un sistema elaborato e oliato per anni, per
garantire agli amici degli amici di destra e sinistra, un bottino
sicuro e legale.
Le linee ad alta velocità costruite nel nostro paese
sono state l’ossatura del dopo tangentopoli: un sistema
raffinato e semplice per dribblare tutti gli ostacoli legali.
Siti di interesse strategico, leggi obiettivo, general contractor
sono stati alcuni degli strumenti adottati per cementare un
sistema sicuro di drenaggio di denaro pubblico a fini privatissimi.
Un sistema che funziona perché va bene a tutti, per tutti
c’è una fetta di torta.
Un sistema che nessuno può permettersi di far saltare.
Un sistema che il movimento contro la Torino Lyon ha reso trasparente,
mostrandone i meccanismi, aprendo crepe, costruendo una resistenza
popolare alla quale guardano in tanti.
La strategia del governo è chiarissima: celare le ragioni
della lotta No Tav, declinando nella categoria dell’ordine
pubblico un movimento che non riescono a piegare né con
le buone né con le cattive.
In risposta alla manifestazione del 25 febbraio il governo ha
deciso di allargare il cantiere/fortino della Maddalena. Millecinquecento
uomini in armi – la forza dello Stato nel suo volto più
vero, quello della repressione violenta – sono stati dispiegati
nel catino della Clarea.
Luca Abbà, un compagno da sempre in prima linea nella
lotta, si arrampica su un traliccio dell’alta tensione
per rallentare i lavori. Con criminale determinazione gli uomini
dello Stato lo inseguono obbligandolo a salire pericolosamente
vicino ai fili. Viene folgorato e cade. Resterà per tre
quarti d’ora a terra in attesa di soccorsi, mentre le
ruspe continuano il loro lavoro.
Manganelli aveva dichiarato che gli anarchici cercavano il morto,
per un pelo gli uomini di Manganelli non hanno ucciso Luca,
anarchico e No Tav.
La risposta in Val Susa e in tutta Italia è stata forte,
immediata, corale.
Per un’intera settimana ci sono state manifestazioni,
blocchi di strade ed autostrade, cortei spontanei. La bandiera
con il treno crociato è divenuta la bandiera di un paese
che resiste, alza la testa, vuole cambiare radicalmente la rotta.
I partiti dell’esile opposizione istituzionale di sinistra,
che si illudevano di cavalcare la protesta, trasformandola in
voti e poltrone, sono rimasti ai margini di una lotta agita
in prima persona da gente che non vuole più affidare
ad altri il proprio futuro.
Gente disponibile a rischiare la vita e la libertà, gente
che ha ben compreso che solo l’azione diretta, senza deleghe
e senza tutele, può inceppare il meccanismo.
Il governo ha risposto con violenza e arroganza. Le truppe di
Cancellieri hanno spaccato braccia e gambe, hanno gasato e caricato,
si sono scatenate nel rastrellare la gente nelle case e nei
bar.
Dopo una settimana di blocchi in Val Susa e ovunque in Italia,
il governo ha deciso di andare avanti. Costi quel che costi.
La litania è quella consueta: il collegamento con l’Europa,
la piccola Italia schiacciata dietro le Alpi, il treno che in
quattro ore ti conduce a Parigi, il Tav che porta lavoro, i
manifestanti sempre violenti. Il primo ministro rivendica la
propria autonomia dai governi precedenti, ma si limita a fare
quello che gli altri non erano riusciti a realizzare fino in
fondo: gli interessi dei padroni e dei banchieri.
L’idea di sviluppo di Monti si basa sulla distruzione
delle risorse e sulla devastazione dei territori: l’unica
cosa che conta è far girare le merci, far girare i soldi,
fare grandi opere utili solo alla lobby che sostiene e finanzia
un’intera classe politica.
Dalla Val Susa viene un segnale forte e chiaro: noi non ci stiamo.
Non ci stiamo più: il mondo che vogliamo per i nostri
figli è fatto di solidarietà, di cooperazione,
di uguaglianza.
Il governo ha paura, ha paura dell’infezione valsusina,
ha paura che l’anomalia No Tav divenga una mutazione genetica
durevole e diffusa. Per questo occorre disciplinare, costi quel
che costi, chi oggi parla con la voce di tutti coloro che, nel
nostro paese, si battono contro un’idea di sviluppo che
mira al profitto di pochi contro la vita e la libertà
di tutti.
Un movimento radicato e insieme radicale, capace di autogovernarsi,
resistere, mantenendo salda negli anni la propria sfida.
Monti e Cancellieri puntano il dito sugli anarchici, preparano
nuove misure repressive. Si torna a parlare di fermo di polizia,
di arresti in differita, dell’inasprimento delle pene
per reati come l’insulto a pubblico ufficiale, i blocchi
di strade e ferrovie, sino ad un nuovo tipo di associazione
illegale che consenta di imprigionare gli anarchici.
Quello che Monti e il suo governo non capiscono è che
gli anarchici sono parte riconosciuta del movimento No Tav da
lunghi anni, che i tentativi di dividere e spaccare non hanno
mai funzionato, perché chi lotta e si confronta in modo
diretto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha costruito saldi
rapporti di fiducia e mutuo appoggio.
Quello che Monti non comprende – o forse lo comprende
sin troppo bene – è che gli anarchici sono una
minoranza, ma le idee di libertà, partecipazione, uguaglianza,
sperimentazione sociale, la pratica dell’azione diretta,
della cooperazione, dell’autogestione si stanno diffondendo
tra i tanti che hanno compreso che questo non è il migliore
dei mondi possibili.
La commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica
Italiana esprime la propria solidarietà a Luca e ai suoi
cari, auspicando che possa presto tornare alla lotta.
Esprime la propria solidarietà ed il proprio appoggio
ai compagni e alle compagne arrestate per la resistenza No Tav,
che, anche in carcere, continuano a lottare per la libertà
e sono puniti con l’isolamento.
Si stringe a Tobia, rinchiuso tra le mura di casa con il divieto
di scrivere lettere e fare telefonate, Tobia che non accetta
che gli tappino la bocca ed è in sciopero della fame
(poi sospeso al 13° giorno, n.d.r.).
Sarà sempre più dura. Per chi sfrutta ed opprime,
per chi pesta e umilia. Tra blocchi e barricate cresce la voglia
di resistere, di cambiare di senso al presente, di consegnare
un altro futuro a chi verrà dopo di noi.
La Commissione di Corrispondenza
della Federazione Anarchica Italiana
cdc@federazioneanarchica.org
tel. 3333275690
Bravo
Accame (e occhio all’ideologico)
Ritengo Felice Accame uno degli epistemologi (l’etichetta
è riduttiva, lo so, ma in qualche modo bisogna pur definire,
pena un’estensione terminologica impropria per gli spazi
di una rivista come “A”) più importanti del
panorama non solo italiano, oltre che, ovviamente, una delle
vere personalità che intervengono su”A”.
Questa premessa non è una excusatio non petita, come
dimostrerà il seguito di questa breve argomentazione.
Sono, cioè, assolutamente d’accordo anche con quanto
Accame scrive a proposito dell’“ideologia”
(in “A”
368, febbraio 2012, p.76), cioè che essa sia da intendere
quale “sistema di valori”, nonché, in virtù
di un’estensione-designa anche una “progettazione
sociale”- prima che di questa progettazione sia stata
sancita la negatività o la positività”.
D’accordo: era la classica definizione, da Destutt de
Tracy in poi, che Carlo Cattaneo estende anche all’ambito
sociale. Ma, con Karl Marx e Friedrich Engels, soprattutto nella
“Deutsche Ideologie” (Ideologia tedesca), opera
ancora “giovanile”, ideologia vuol dire “falsa
coscienza del mondo” (altrove “falsa rappresentazione”)
e allora “ideologi” diviene espressione negativa,
applicata alla concezione ancora astratta della realtà
presente (ovviamente secondo Marx ed Engels) nei “Giovani
Hegeliani” (“sinistra hegeliana”) ossia Bruno
e Edgar Bauer, Moses Hess, Arnold Ruge e Max Stirner, in parte
a chi al”movimento”afferiva, un po’ confusamente,
come Michail Bakunin, con cui, però, Marx ed Engels si
scontreranno in seguito, in sede di Prima Internazionale, per
ben altri motivi. Concezione fatta poi propria dai marxisti
(almeno qui non vale la famosa frase di Marx “Je ne suis
pas marxiste”, “non sono marxista”, non si
ha cioè uno scollamento tra Marx e i marxismi successivi,
dove rilevo, a mo’ di critica agli anarchici, ma a livello
storico-critico, che essi spesso considerano l’“universo”
marxista quasi fosse un insieme indistinto), ma anche da gran
parte del pensiero, dominante e di opposizione, se guardiamo,
definendolo, alla fattualità politica. “Ideologia”
come “falsa coscienza”, cioè lo sentiamo
dire da marxisti e iper(o meglio neo)liberisti, da politologi
e sociologi e filosofi, da giornalisti e mass-mediologi.
Sono quindi d’accordissimo con Accame quando sostiene
che “Bollare – come si fa oggi a destra e a manca
– come “ideologico” un argomento e pretendere
con ciò di aver messo a tacer l’avversario –
...è da irresponsabili – nel senso letterale del
termine” (ibidem).
Credo che sarebbe una sorta di correttezza epistemologica e
quindi linguistico-deontologica seguire qui Felice Accame, ma
anche su “A” (lascio al lettore il compito di trovare
citazioni a riguardo, cosa difficile, sfogliando l’intera
collezione dei 40 anni ormai passati o invece, cosa più
fattibile, limitandosi alla raccolta dell’ultimo anno)
troviamo spesso l’uso anzidetto, in chiave di bassa strumentalità,
perché oggi dire”argomentoideologico”significa”argomento
strumentale, al servizio di una certe classe sociale “o
anche “di alcune singole categorie”. Facit?
Accame ha ragione e senz’altro deve proseguire, su questo
terreno come su altri, per un “nuovo rasoio di Ockham”
contro le idee ricevute come contro i “concetti-zeppa”,
quelli superflui, ma sarebbe necessario, se non un “consensus
omnium”, almeno un accordo limitato (magari ad “A”,
ma potenzialmente non solo a questa rivista) per riformulare
espressioni come questa. Servirebbe anche ad evitare equivoci
comunque tuttora più che mai presenti a livello di argomentazioni
correnti, dove il codice comunicativo non è sempre condiviso
da emittente e ricevente. Servirebbe soprattutto ad obbligare
notisti politici di ogni “ispirazione ideale” a
dismettere un linguaggio comodo quanto stereotipato, spesso
non significante.
Eugen Galasso
(Firenze)
Botta...
/ Non dimentichiamo che ci sono vittime e carnefici
Carissimo Andrea,
quando sosteniamo che determinate ingiustizie come lo schiavismo,
la tortura, lo stupro... che vengono inflitte a persone umane
e non umane, sono delle azioni che consideriamo intollerabili,
non stiamo automaticamente sostenendo che occorre fare la guerra
a chi non la pensa come noi.
Non tollerare le ingiustizie, a nostro parere, non significa
per forza reprimere e combattere chi ha una diversa visione
rispetto alla nostra. Significa, invece, usare l’attivismo,
il boicottaggio, la critica, la denuncia, l’informazione,
le lettere, gli articoli, i discorsi, i libri, i filmati, i
fumetti, la musica affinché quella determinata ingiustizia
possa cessare. E d’altronde lo abbiamo già scritto
e ripetuto in diverse occasioni, anche nell’ultima lettera
(“A” 370,
pag. 93 “Anarchismo, anarchici, antispecismo”)
quando scriviamo “...vittime senza voce che possono solo
contare su chi osa non tollerare le ingiustizie attraverso l’attivismo,
la sensibilizzazione, il boicottaggio...”.
L’antispecismo, a nostro parere, è, di per se stesso,
non violento perché ogni forma di sopruso o di imposizione
finisce per ricalcare l’ideologia del dominio. E d’altronde
ci sarà un motivo per cui non si sente mai di un vegan
o di un antispecista che entrano nei ristoranti per prendere
a bastonate chi azzanna le bistecche! Gli antispecisti e i vegan
non lo fanno! Al contrario, se proprio vogliamo parlare di imposizione
o di intolleranza come base di ogni guerra, dovremmo considerare
gli atti che danno la possibilità di azzannare quella
stessa bistecca. Questi atti sono la prigionia, lo sfruttamento,
l’alimentazione forzata, lo stupro attraverso l’inseminazione
artificiale, l’assassinio di un individuo nel pieno della
sua vita, la riduzione in schiavitù, la tortura...
Quando si parla di quella che potremmo definire questione animale,
si tiene sempre e solo in considerazione l’umano. Ed è
proprio questo lo specismo! Volendo considerare la tolleranza
e il rispetto delle differenze, infatti, si dimentica sempre
che ci sono delle vittime e dei carnefici. Si dimentica sempre
che la tolleranza nei confronti dei carnefici dovrebbe passare
in secondo piano rispetto a quella da accordare alle vittime
che chiedono solo di poter continuare a vivere, di vedere tollerato
il loro diritto di vivere in libertà. Ma nel caso dello
specismo questo non avviene perché, per lo specismo,
ciò che conta, in questo caso la tolleranza, può
essere applicato solo a chi è superiore, e quindi all’umano.
Il diverso dall’umano non viene neppure preso in considerazione.
Era questo ciò che intendevamo nel criticare chi invoca
tolleranza solo per i carnefici. La tolleranza nei confronti
dei carnefici è sicuramente un gesto profondo e nobilitate,
ma solo quando è preceduto da una ferma condanna per
le sue azioni, solo quando tiene in considerazione e in precedenza
la tolleranza nei confronti delle vittime.
È solo così che la tolleranza assume un senso
anche nei confronti dei nazisti nonostante gli stermini da loro
attuati. E da un punto di vista antispecista la gravità
dell’olocausto subito dagli ebrei non è più
grave di quello subito dagli animali non umani negli allevamenti.
Riteniamo che ribaltare la questione e usare l’argomentazione
della tolleranza per condannare chi denuncia un’ingiustizia
sia poco corretto. Riteniamo che trasformarlo in un fanatico
che vuole “colpire, annientare, distruggere e, se va bene,
sottomettere” chi non la pensa come lui, sia il classico
metodo con cui si tende a reprimere ogni forma di dissenso.
In realtà, a riflettere con un minimo di lucidità
sulla questione animale, chi viene colpito, annientato, represso,
sottomesso e, sempre e comunque e in qualsiasi allevamento,
ucciso, è sempre e solo l’animale.
Anche secondo noi l’anarchismo nasce per liberare e non
per creare nuove imposizioni, come giustamente scrivi. Noi siamo
molto lontani dal voler creare imposizioni, ma riteniamo che
una liberazione non possa avere senso se limitata solo all’umano.
Così come non ha senso la liberazione di una sola razza,
o di un solo sesso. Nessuna liberazione può basarsi sulla
sottomissione di chi è diverso, di chi appartiene ad
un’altra specie.
Per quanto riguarda la nostra espressione “anarchici vecchio
stampo” non intendevamo certo fare divisioni tra buoni
e cattivi, ma solo riferirci a chi non accetta l’antispecismo
solo perché non è stato indicato dai pensatori
anarchici del passato. E la nostra non è neppure una
forma di ingenuità che non tiene conto dei disastri commessi
in nome di buone cause. Il nostro linguaggio risente inevitabilmente
della drammaticità della situazione in cui si trovano
tutti gli animali deportati, richiusi, vivisezionati, sfruttati
e violentati.
Non abbiamo alcun interesse o intenzione di far prevalere il
nostro punto di vista, di creare guerre o nemici da combattere.
Ciò che ci preme è solo amplificare delle voci
rinchiuse, sfruttate, derise e annientate all’interno
di capannoni, recinti, laboratori, zoo, acquari... Fare in modo
che queste voci si sentano nonostante lo sforzo politico e mediatico
che studia ogni mezzo per farle tacere. Nel fare questo continuiamo,
da anni, ad usare pazienza e perseveranza. Continuiamo a fare
tavoli in mezzo alla strada parlando con la gente, ad organizzare
eventi, a mostrare immagini e video che rappresentano ciò
che avviene realmente, ciò che non si vuole mostrare,
continuiamo a scrivere articoli, libri e lettere affinché
la questione venga affrontata con la serietà che merita.
E speriamo che, alla fine, siano queste voci e non certo le
nostre idee e i nostri pensieri ad avere ragione, a permettere
che una sostanziale liberazione avvenga, ma avvenga per tutti
e per tutte.
Tutto questo ci pare abbastanza lontano dal voler “colpire,
annientare, distruggere e, se va bene, sottomettere” chi
non la pensa come noi. Resta il fatto che questa sofferenza,
queste ingiustizie hanno un peso indicibile e non sono facilmente
rappresentabili o interpretabili con parole dolci, con parole
che esprimano una grande tolleranza nei confronti di chi le
sta causando. Chi ha visto ciò che accade in un macello,
chi ha visto trascinare via, verso il macello, una mucca da
latte oramai talmente sfruttata e talmente esausta da non riuscire
più a camminare, chi ha visto usare le scosse elettriche
per farla muovere, chi ha visto le convulsioni, gli occhi spalancati
dal terrore, chi ha sentito le urla e lo strazio e la disperazione,
chi è consapevole, chi vede tutto questo in ogni prodotto
animale, chi non riesce a voltarsi dall’altra parte, chi
ha scelto di muoversi attivamente perché queste ingiustizie
cessino, non sempre riesce a ritenere normale che altri accettino
con leggerezza tutto questo, soprattutto se ci si trova in un
ambito libertario.
Ma questo, ovviamente, non significa condannare chi è
diverso da noi. Significa, invece, ritenere ingiusta, sbagliata,
intollerabile un’idea, un comportamento, un’azione,
un’opinione. Il giudizio non viene posto sulla persona.
La persona, fortunatamente, è in perenne mutamento. E
nessuna persona è un nemico irrecuperabile, almeno ai
nostri occhi. Quasi tutti i vegan sono stati carnivori e specisti,
e quasi tutti ne sono perfettamente consapevoli. È per
questo che non vogliono sottomettere nessuno, ed è per
questo che sanno molto bene quanto occorra essere espliciti
nel rappresentare quelle voci che non si vogliono ascoltare,
che è molto meglio dimenticare fingendo che vada tutto
bene.
Un caro saluto attivamente antispecista.
Troglodita Tribe
Serrapetrona (Mc)
troglotribe@libero.it
...
e risposta / Così chiarita, siamo d’accordo
Benissimo cari Troglodita Tribe, finalmente cominciamo a capirci
nella sostanza. Questa vostra “intolleranza dolce”
mi piace. Per quel che mi riguarda è molto più
rivolta a se stessi che ai soggetti e all’oggetto da contestare.
Ma è proprio per questo che mi va bene. Così personalmente
la vedo di più come determinazione ad oltranza nel combattere
il male e l’ingiustizia, che è la forza di volontà
degli idealisti e dei rivoluzionari.
Ma è sempre proprio per questo che mi va bene. Anche
perché non è affatto scontato che sia come voi
dite. Nella mia esperienza l’intolleranza è un’altra
cosa, ed è più rivolta all’esterno del soggetto
che verso se stessi, è spesso la base della non accettazione
degli altri.
Ma messa così come la mettete voi, è perfetta:
aiuta a combattere nel modo che ritengo più giusto.
Andrea Papi
Malatesta,
le tasse, lo Stato
In una lettera apparsa
nel n. 369 di “A”, Fabio Massimo Nicosia dichiara
di cercare “soluzioni nell’ambito dell’anarchismo”
e descrive la sua soluzione ‘georgista’. Nella lettera
cita anche Malatesta, di passaggio. Vorrei a mia volta citare
un breve passaggio di Malatesta, in risposta a Nicosia.
Nel Programma anarchico, Malatesta elenca tutti i mali
sociali e poi scrive: “Tale stato di cose noi vogliamo
radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano
dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta
da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi
sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la
solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere
la cooperazione fraterna per il benessere di tutti”.
Questa è l’essenza dell’anarchismo di Malatesta
e del nostro movimento, prima ancora che l’abolizione
del governo. Voler abolire il governo è solo una conseguenza
necessaria di quanto sopra. Voler abolire il governo senza condividere
quanto sopra vuol dire cercare soluzioni in tutt’altro
ambito e si fa solo confusione a voler dare l’impressione
del contrario.
Davide Turcato
(Vancouver – Canada)
Afghanistan
/ Governo italiano doppiamente assassino
Il governo italiano assassino dei soldati italiani
e di combattenti e civili afgani
In Afghanistan è in corso una guerra. Che consiste di
stragi, devastazioni ed orrori inauditi. A questa guerra da
dieci anni partecipa anche l’Italia. Illegalmente, poiché
la Costituzione della Repubblica Italiana lo proibisce esplicitamente,
inequivocabilmente.
L’illegale, criminale partecipazione italiana alla guerra
è responsabile della morte dei soldati italiani li’
assassinati, ed è responsabile della morte degli afgani
assassinati dagli italiani.
E l’Italia è corresponsabile altresì di
tutte le altre stragi, di tutti gli altri orrori, commessi dalle
truppe d’occupazione della coalizione di cui fa parte.
I governanti italiani che continuano a mandare giovani italiani
a morire e ad uccidere in Afghanistan sono dei criminali, sono
degli assassini. Sono direttamente responsabili di quelle uccisioni
i governanti italiani di questi ultimi dieci anni e con essi
i parlamentari che hanno votato a favore di questo crimine ed
i presidenti della
Repubblica che questo crimine hanno avallato tradendo il loro
dovere di fedeltà alla Costituzione che la partecipazione
alla guerra vieta.
Sono colpevoli della morte degli italiani uccisi dagli afgani
e sono colpevoli della morte degli afgani uccisi dagli italiani.
Poiché se non avessero inviato i soldati italiani a partecipare
alla guerra in Afghanistan gli uni e gli altri sarebbero ancora
vivi.
Dieci anni di stragi. Dieci anni di criminale violazione della
legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Dieci anni
di complicità col male più abissale.
Cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra
terrorista e stragista.
Tornino immediatamente e definitivamente in Italia tutti i soldati
italiani dispiegati in Afghanistan. Tornino vivi.
Cessi immediatamente la flagrante, insensata, scellerata violazione
della Costituzione italiana e del diritto internazionale.
Cessi immediatamente questo abominevole crimine contro l’umanita’.
Si adoperi lo stato italiano per la pace, il disarmo e la
smilitarizzazione dei conflitti.
Cessi lo stato italiano di far morire degli esseri umani e si
impegni invece per salvare le vite, recare aiuti umanitari,
promuovere i diritti di tutti gli esseri umani, con interventi
di cooperazione internazionale e di umana solidarietà
rigorosamente civili, non armati, nonviolenti.
Vi è una sola umanità. Solo la pace salva le vite.
La guerra – che sempre consiste di omicidi – sempre
è nemica dell’umanità.
Peppe Sini
responsabile del “Centro di ricerca per
la pace e i diritti umani” di Viterbo
strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo
e-mail: nbawac@tin.it
web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza
Sopruso
(alle inumane, quotidiane, vittime innocenti)
Dall’alba di millenni
mani che afferrano
tieni la testa giù
terrore negli occhi
cuore che batte
ancora per poco
dolore dolore
dolore
sangue urlare
senza speranza ormai
buio
coltelli fucili e
risate
appetito gola e
discorsi
discorsi
discorsi
la bibbia il nonno
i cicli la vita
la morte
ecco solo alla fine
la morte.
Sandro Spinazzi
(Marghera – Ve)
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni.
Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 30,00; Panayotis
Kalamaras (Atene – Grecia) 20,00; Pino Fabiano
(Cotronei – Kr) 50,00; Piero Barsanti (La Spezia)
20,00; Nicola Colliva (Casalecchio di Reno –
Bo) 20,00; L.B. (Ancona) “ricordando P. I.,
la sua compagna”; 350,00; Aurora e Paolo (Milano)
ricordando il sorriso di Franco Serantini, 500,00;
Pietro Mambretti (Lecco) 20,00; Paolo Sabatini (Firenze)
20,00; Marco Cressatti (Bari) 10,00; Oreste Roseo
(Savona) ricordando Domenico Pastorello e Isac Garcia
Barba, 70,00; Albino Trucano (Borgiallo – To)
20,00; Aldo Curziotti (Sant’Andrea Bagni –
Pr) 20,00; Bruno Riva (Savosa – Svizzera) 10,00;
Bas Moreel (Olanda) 50,00; Claudio Neri (Roma) 20,00:
Attilio Destri (Tresana – Ms) 20,00; Daniele
Ferro (Voghera – Pv) 20,00; Giorgio Franchi
(Codigoro – Fe) 20,00; Franco Schirone (Milano)
100,00; Giordano de Luca (Roma) 50,00; a/m BFS, Claudio
Albertani (Città del Messico – Messico)
50,00. Totale euro 1.490,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). A/m Antonio
Senta, Eros Bonfiglioli (Bologna); Fantasio Piscopo
(Milano) “in ricordo di mio padre Tullio”;
Enrico Calandri (Roma); Giacomo Ajmone (Milano); Fabio
Palombo (Chieti) 250,00; L. D. (Ancona); Andrea Albertini
(Bolzano) 150,00; Gianluca Botteghi (Rimini); Giulio
Canziani (Castano Primo – Va); Matteo Parisi
(Brescia); Gianni Alioti (Genova); Francesco Barba
(Kassel – Germania); Matteo Gandolfi (Genova);
Pietro Steffenoni (Lodi). Totale euro 1.600,00.
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