Credo che in Europa –
alle prese con una crisi economica di portata storica –
pochi abbiano la percezione esatta dei pericoli che la situazione
in Iran comporti per gli attuali assetti geopolitici del mondo
intero.
Con le ulteriori sanzioni che Barak Obama ha imposto al regime
iraniano nel gennaio scorso, sanzioni che tenderanno a penalizzare
tutte le istituzioni finanziarie che intratterranno relazioni
con la banca centrale di Teheran, si renderà praticamente
impossibile all’Iran di commercializzare il suo petrolio,
dal quale ricava il 60% della sua sopravvivenza.
Detta così può apparire assai probabile che
il regime iraniano sia indotto a non tirare troppo la corda,
soprattutto sul suo temutissimo programma nucleare. Ma le
cose non stanno precisamente in questi termini.
Intanto, non è affatto certo che sia possibile attuare
un embargo di tale natura dall’oggi al domani, ed è
per questo che lo stesso Obama ha previsto un periodo di transizione
della durata di circa un anno per portare a regime le sanzioni.
Privare, di colpo, dell’afflusso di petrolio un contesto
in sofferenza come quello occidentale significherebbe ridurre
se non azzerare le già scarse prospettive di ripresa.
L’Europa, ad esempio, che importa dall’Iran 2,2
milioni di barili giornalieri, alla fine del 2012 vedrebbe
ridotta la sua quota di 450 mila b/g, ai quali andrebbero
aggiunti, prevedibilmente, i 100mila b/g dal Giappone e i
40 mila dalla Corea del Sud.
Poi c’è da mettere in conto le resistenze di
Cina ed India a colpire così profondamente il regime
iraniano. La Cina ha investito molto sui pozzi petroliferi
di quella zona e l’India non intende destabilizzare
i suoi rapporti con il paese islamico. Del resto, a prescindere
dai trattati commerciali, in quell’area si gioca una
partita di egemonia politica di portata planetaria. Washington
sa bene che, se il suo messaggio venisse esplicitamente ignorato,
il prestigio statunitense sarebbe irrimediabilmente compromesso
in contesti – quello asiatico e medio orientale –
decisivi per le sorti future del Pianeta. Per questo il suo
affondo contro il regime di Ahmadinejad, duro nei toni, affida
al tempo la possibilità di compromessi che allentino
le tensioni senza pregiudicare il ruolo dell’America
in questa spinosa questione.
Francamente, non so se la strategia di Obama sia dettata da
un’attenta valutazione dei rischi che gli Stati Uniti
correrebbero se il conflitto si radicalizzasse.
Afghanistan e Iraq
La politica estera americana è fortemente indebolita
dal pantano afghano, nel quale, sul terreno, l’esercito
a stelle e strisce, con i suoi alleati sempre più recalcitranti,
si è arenato, mentre, politicamente, non si sa più
con quali molle prendere la figura ingombrante di Karzai,
arroccata a Kabul, priva di prestigio e a capo di un governo
corrotto. In pratica il programmato ritiro degli eserciti
occupanti appare sempre più simile ad una fuga che
ad una fine di missione.
Analoga è la situazione in Iraq. Quelle terre devastate
da un intervento militare demenziale, saranno presto abbandonate
al loro destino, con una popolazione decimata dalla guerra
e da un conflitto etnico interno che non ha prospettive di
soluzione. Un conflitto che chiama in causa anche una potenza,
la Turchia, che pesa sempre di più sul quadro degli
equilibri strategici del Medio Oriente e non solo. Un tempo
fedele alleata dell’Occidente, che per lungo tempo auspicò
persino il suo ingresso nella Comunità Europea per
consolidare l’argine contro l’espansionismo islamico,
adesso con il governo di Erdogan ha mutato la sua prospettiva
strategica, ritenendo, a ragione, che le aspettative di crescita
economica e di prestigio politico del Paese andassero consolidate
guardando al nuovo che emerge nelle regioni asiatiche piuttosto
che ad un Occidente avvitato in un declino irreversibile.
Per la presunzione di ribadire il ruolo di potenza egemone,
quindi, la defezione della Turchia è per l’America
di Obama un colpo assai duro perché sconvolge il quadro
delle alleanze in aree decisive per i futuri assetti geopolitici
del pianeta. Il pragmatismo del governo di Ankara, l’ambizione
di svolgere un ruolo egemone nella regione che dal Nord Africa
si estende all’intero Medio Oriente, rendono assai difficile
prevedere su quali fronti di volta in volta la Turchia si
assesterà nei vari conflitti che, negli sconvolgimenti
che caratterizzano questa prevedibilmente lunga transizione,
destabilizzeranno l’area. È difficile anche,
e conseguentemente, immaginare sino a che punto questa potenza,
a suo modo anch’essa emergente, intenderà assecondare
gli ostracismi occidentali nei riguardi dell’Iran, che
è certamente un suo competitor pericoloso sul piano
degli assetti egemonici, ma è pur sempre una componente
fondamentale di quel vasto fronte che esprime logiche e modelli
di sviluppo profondamente diversi da quelli espressi dalla
predominante civiltà dell’Occidente.
Israele e Iran
Ritorniamo così alla questione iraniana che rischia
di coinvolgerci in un conflitto che è sempre più
difficile mantenere sul piano della diplomazia.
È un fatto che sia Israele che l’Iran si preparano
ormai da lungo tempo alla guerra. Per certi versi, tutti gli
attori del dramma mediorientale, Stati Uniti compresi, sono
convinti che solo un’operazione militare, limitata o
meno, può, in certo modo, garantire la sicurezza dello
Stato ebraico, sempre più isolato nell’area e,
di fatto, circondato da regimi che non perdono occasione per
dare sfogo al loro antisemitismo e antiebraismo . Il conflitto
palestinese, il contenzioso con la Siria per le Alture del
Golan, il complesso rapporto con i Paesi Arabi determinano
una condizione di guerra perennemente latente, che ha continue
fiammate di vere e proprie operazioni militari. Parliamo della
striscia di Gaza, che influenza anche i rapporti di Israele
con l’Egitto e l’instabilità dell’intero
Nord Africa, alle spalle di un’area in costante ebollizione
(1).
Il fattore determinante che deciderà il futuro di questo
groviglio di questioni è attualmente la consapevolezza
dei due principali attori – Iran e Israele – dei
rischi che ambedue corrono nello scatenare un conflitto armato,
per il quale non sembrano ancora in grado di valutare il rapporto
costi/benefici.
L’opinione pubblica israeliana è divisa, come
del resto lo stesso governo in carica. Il primo ministro Netanyahu,
sostenuto dal ministro della difesa Ehud Barak e dal ministro
degli esteri Avigdor Liebermann, non è riuscito a compattare
l’intera compagine governativa su un attacco preventivo
ai siti nucleari iraniani, per il quale l’aeronautica
con la stella di David si prepara da almeno cinque anni. I
voli sperimentali degli F15i e degli F16i si moltiplicano
da tempo e sono mirati a verificare la possibilità
e l’efficacia di un attacco ai centri di produzione
nucleare iraniani: Natanz, Isfahan, Arak e Fordow, i principali.
A mettersi di traverso al decisionismo di Netanyahu sono importanti
settori dell’esercito e i servizi segreti, lo Shin Bet
e il Mossad, per i quali Israele non è ancora preparato
a difendersi da una più che probabile rappresaglia
che, oltre che dal Paese islamico, potrebbe venire da Hamas,
dal Libano degli hezbullah e persino dalla Siria, tutti Paesi
che sono dotati di missili di media-lunga gittata.
Dal canto suo l’Iran sta forzando i tempi del suo progetto
nucleare e sembra già in grado di arricchire l’uranio
in misura sufficiente per allestire in sei mesi la sua bomba
atomica, preparata in bunker costruiti a oltre 20 metri sotto
il livello del suolo, tutelati da un complesso sistema che
li sottrae alla ricognizione aerea e satellitare. C’è
poi, messa in conto, nel caso di un intervento militare israelo-americano,
la chiusura dello stretto di Hormuz, un collo di bottiglia
largo appena 4 km tra la costa iraniana e quella dell’Oman,
dal quale transita una percentuale elevata del fabbisogno
petrolifero mondiale.
Insomma, gli scenari che si aprono nel breve periodo sono
tutt’altro che rassicuranti ed è illusoria la
possibilità, eventualmente coltivata da qualcuno, di
potersi chiamare fuori dallo scontro già in atto.
L’inesistente Europa
In uno scenario in così grande e rischiosa fibrillazione,
l’Europa resta nell’angolo a leccarsi le sue ferite.
A prescindere dal risibile, velleitario interventismo del
presidente francese Sarkozy, la diplomazia del Vecchio Continente
sembra neppure percepire la delicatezza del momento che il
mondo attraversa. Nello scontro tra l’Occidente ed il
mondo arabo-islamico non sono in gioco solo gli equilibri
politico-economico-strategici del vicino Oriente, ma l’esito
di un confronto definitivo tra una civiltà, la nostra,
che sembra volgere al tramonto, ed un mondo nuovo che, pur
tra mille contraddizioni, sembra voler percorrere strade nuove,
modelli di sviluppo inediti, che presuppongano una visione
del futuro in una certa misura affrancata dal fardello di
disuguaglianze, pregiudizi e tabù che l’Occidente
esalta nel suo lungo declino.
Certo, in un territorio su cui si ridefiniscono valori così
essenziali, l’opera di mediazione che l’Europa,
se davvero esistesse e se fosse in grado di battere un colpo,
potrebbe svolgere, sarebbe in ogni caso difficile e presupporrebbe
una rimeditazione profonda sui suoi destini e, prima ancora,
sui fondamenti della sua cultura.
Tutte possibilità che, allo stato attuale delle cose,
appaiono remotissime.