È
possibile vivere di autoeditoria?
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La
libraffa |
È risaputo che nella maggior parte dei casi i piccoli
editori non riescono a vivere con l’editoria, sono una
sorta di hobbisti (anche se molto bravi e coraggiosi) che possono
permettersi di pubblicare i libri che gli piacciono perché
si guadagnano da vivere con altri lavori. Molti di loro, poi,
pur di pubblicare testi innovativi finiscono per rimetterci.
Lo stesso, in maniera ancor più evidente, avviene per
l’autoeditoria. Chi si fa i propri libri, molto raramente
ottiene un numero di lettori tale da permettergli di continuare.
Questo fatto, che viene raramente tenuto in considerazione,
a nostro parere assume una rilevante importanza perché
trasforma l’autoeditoria in un’attività accessibile
solo a chi può permettersela, solo a chi può togliersi
“lo sfizio” di pubblicare su carta.
Il senso delle autoproduzioni è quello di restare fuori
dal mercato. Se autoproduco un tavolo, delle patate, una borsa
di tela lo faccio per me stesso, per evitare l’acquisto
di quelle stesse merci. Nel caso dell’autoeditoria, però,
non è così semplice. Un libro ha lo scopo di essere
letto da altre persone, lo si scrive e pubblica affinchè
possa circolare. E siccome, a tutt’oggi, non sempre è
possibile regalare il proprio lavoro, occorre che questo libro
autoprodotto venga venduto o scambiato.
Vivere di autoproduzioni, a nostro parere, significa comunque
sostenere un diverso modo di produrre, scambiare e vendere.
Senza sfruttare nessuno e senza farsi sfruttare da nessuno.
Soprattutto, significa mantenere una spiccata autonomia derivante
dalla totale autogestione delle proprie attività. Significa
lavorare solo a ciò in cui si crede sostenendo progetti
sempre in sintonia con il proprio modo di vivere. Significa
cercare di mantenere vivo il senso libertario che lo stesso
concetto di autoproduzione voleva immettere sin dai suoi albori.
Vivere di autoproduzioni potrebbe essere considerato l’inizio
di un ribaltamento del concetto stesso di lavoro. In effetti,
con le autoproduzioni, il soggetto, la motivazione principale
che spinge a produrre, non è il denaro che riceveremo
in cambio, ma la necessità, il desiderio e la spinta
ad esprimersi e a creare. Insomma: ad essere se stessi. Vivere
di autoproduzioni, quindi, significa abbandonare il vecchio
concetto di lavoro nel tentativo di riappropriarsi di tutto
il proprio tempo. E questo abbandono, naturalmente, non può
limitarsi ad una piccola parte della propria giornata rubata
al “lavoro serio”. Noi lo inquadriamo e lo viviamo,
più che altro, come il risultato di una ricerca libertaria
di emancipazione personale e collettiva.
Riuscire a vivere di autoproduzioni, però, non è
affatto un’impresa facile, e l’autoeditoria non
è certo un’eccezione.
L’immaginario globale, che identifica il libro come oggetto
seriale da tipografia, ostacola notevolmente questo tentativo,
soprattutto se si cerca di percorrere nuove strade. Vivere di
autoproduzioni editoriali è un esperimento in continuo
mutamento che coinvolge inevitabilmente tutta la nostra vita.
Non a caso, la domanda che più frequentemente ci rivolgono
le persone che incontrano la nostra eco-editoria è sempre
la stessa: ma fate un altro lavoro, vero? anche la
risposta è sempre la stessa: viviamo di questo, viviamo
di poco. E non è mai stato un lavoro, è la nostra
vita, ci è indispensabile per sentirci liberi, per divertirci,
per esprimerci, per divulgare ciò in cui crediamo.
Troglodita Tribe
Serrapetrona (Mc)
troglotribe@libero.it
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Il
pungilibro |
I
sogni smarriti
È difficile impedire ai giovani di immaginare un futuro:
tra mille difficoltà, tra mille impedimenti, la speranza
di ottenere un giorno, ciò che si desidera, sembra quasi
essere una costante in tutte le epoche. Eppure oggi qualcosa
è cambiato; se si prende una telecamera improvvisata
e si fa qualche domanda agli studenti che escono dalle noiose
ore di lezione nelle facoltà, ci rendiamo conto che non
solo sono stati privati di un futuro, ma anche dei sogni. Pochi,
anzi pochissimi sanno cosa davvero vogliono, tutti sanno che
sarà impossibile; forse è proprio questo ciò
che unisce l’Italia dei ragazzi in questo momento: la
sfiducia. Ma la fiducia si riacquista, basta ottenere un buon
risultato in qualsiasi campo, basta un amore, una poesia, e
si ritorna a sperare; ma i sogni, i sogni una volta spariti,
sono difficili da far ritornare, spariscono con tutta la loro
“dolce inconsistenza” e lasciano un segno nelle
generazioni.
Gli studenti di oggi sono pieni di idee, di prospettive per
un futuro che una politica finita, sta cercando di toglierli,
ma hanno subito un colpo mortale, che è difficilissimo
da curare, la perdita di un sogno ma ancor più gravemente
l’incapacità di sognare. E allora poco conta se
le baronie e i soprusi dei soliti noti sono all’ordine
del giorno, poco importa se le borse di studio vengono assegnate
con criteri che farebbero spaventare qualsiasi altro giovane
“europeo”, poco importa se le famiglie italiane
si indebitano fino al collo per poter mandare il proprio figlio
in un università di quart’ordine, non c è
ribellione, ma soprattutto non c’è nessuna dignità
se quando si chiudono gli occhi, non cominciamo a sognare.
Andrea Murovez
(Spoleto - Pg)
Ecatombe/La
mia traduzione
Al mercato dei castelli
contendendo piccole cose
si prendevano per i capelli
parecchie donne vigorose
in auto a piedi e a cavallo
i gendarmi nel guazzabuglio
arrivarono a mettersi in ballo
per interrompere il tafferuglio.
Poiché da che mondo è mondo
è un’usanza ben condivisa
riconciliarsi nel profondo
di fronte a uomini in divisa
quelle riunite a muso duro
si scagliarono sugli agenti
e inscenarono ve l’ assicuro
uno spettacolo tra i più divertenti.
E guardando quei gendarmi
sopraffatti dalla partita
non potevo che rallegrarmi
così vedendoli in findivita
dalla mansarda dove vivo
incitavo quelle donne là
contro ogni sbirro recidivo
gridando hip hip hip hurrà.
Una di queste attacca forte
il maresciallo di polizia
e gli fa urlare sbirri a morte
abbasso la legge viva l’anarchia
Un’altra prende la testa con forza
di uno degli zoticoni
e se la stringe come una morsa
in mezzo ai suoi glutei ciccioni.
Tra tutte la donna più in carne
si slaccia veloce il corsetto
e come si avvicina un gendarme
lo manganella a colpi di petto
e cadono cadono cadono
ogni singolo sbirro soccombe
riecheggeranno nella storia
i rumori di questa ecatombe.
Giudicandoli ormai sconfitti
oltrepassarono ogni decoro
e li lasciano stesi e zitti
ritornando ai fatti loro
li avrebbero anche evirati
prima di andarsene di spalle
ma quelli furono fortunati
non avendo mai avuto palle
ma quelli furono fortunati
non avendo mai avuto palle.
Angelica Paolorossi
Camillo
Berneri.1 / Ancora sulla rivoluzione
Ho letto la polemica
tra Antonio Senta e Stefano D’Errico e, anche se con
ritardo, vorrei aggiungere qualche riflessione.
Che Antonio Senta faccia la recensione di un libro che contiene
interventi assai diversi fra loro e dica per quale motivo ne
apprezza alcuni e meno altri, mi sembra suo pieno diritto. Nel
momento in cui ognuno di noi espone le sue idee su un soggetto
controverso come Berneri prende il rischio di dispiacere a una
parte dei suoi lettori. Berneri, in vita, ha corso più
volte questo richio, ma non si è mai lasciato andare
a schiacciare i suoi contraddittori con il volume dei suoi scritti.
La letteratura su Berneri porta il segno delle difficoltà
e delle polemiche che hanno pesato sul movimento anarchico dopo
la sua morte. La sopravvivenza del movimento in un contesto
non rivoluzionario ha prodotto un ripiegamento su se stesso,
inducendo molti compagni ad accentuare i tratti ideologici ritenuti
più marcanti, per poter conservare intatto il nocciolo
duro della sua identità. Questo spiega come mai abbia
avuto tanto successo la tendenza a “imbalsamare”
Berneri, a farne una specie di santino, mettendo in ombra o
sterilizzando per anni le discussioni animate a cui aveva preso
parte da vivo, le sue analisi, le sue posizioni poco ortodosse,
le sue provocazioni alla riflessione.
Il suo pensiero si costruisce nella discussione: cambiando soggetto
ed interlocutore è ovvio che dica anche cose diverse.
A partire dalla sua morte, nel movimento anarchico si è
più volte manifestata una scelta di facilità,
prendendo ora questa, ora quell’opinione, come chiave
di lettura generale, attribuendo in sostanza fissità
ideologica ad alcune opinioni politicamente motivate.
Masini, per esempio, quando raccoglie alcuni scritti berneriani
e pubblica i Compiti nuovi del movimento anarchico,
lo fa con intenti polemici nei confronti dell’astensionismo
tradizionale del movimento, con lo scopo di dare legittimità
alle scelte elettoraliste dei GAAP. Ma cos’ha questa scelta
politica a che vedere con la situazione pre-insurrezionale
spagnola del 1936, in cui Berneri pone il problema della partecipazione
elettorale e soprattutto delle sue prevedibili conseguenze?
Ho detto più di una volta che il problema principale
di Berneri è quello di fare la rivoluzione. Anche in
un contesto sfavorevole sul piano dei rapporti di forza fra
le classi sociali come durante il fascismo, Berneri non smette
di pensare alla rivoluzione italiana. Tutto il suo pensiero
ruota intorno a questo problema: il programma del movimento,
la questione delle alleanze, la struttura federale della nuova
società ed il peso delle autonomie locali, il “sovietismo”,
il sindacalismo d’azione diretta, la liquidazione del
fascismo e del colonialismo, l’intervento nella rivoluzione
spagnola, il confronto con i comunisti...
Berneri non ha un problema di conservare la sua identità
in un momento di crisi. Questa gli è chiara. Specialmente
quando discute con altre forze politiche come “Giustizia
e Libertà”, che cercano di pescare militanti in
area libertaria, o con compagni che ragionano più in
termini di identità che di analisi politica. Non ha paura
di passare per centrista, dal momento che l’ago
della bussola resta la rivoluzione da fare. È sperimentalista,
è convinto che la libertà si ottiene attraverso
la pratica della libertà, non ha paura di sbagliare e
di riconoscere che ha sbagliato.
I problemi che il movimento affronta (ed il modo in cui lo fà)
dopo la Seconda Guerra mondiale sono di tutt’altra natura.
La forza propulsiva della rivoluzione è stata ingabbiata
dall’Unione Sovietica; in Occidente partiti e sindacati
di orientamento comunista funzionano più come un “ministero
dell’opposizione” nel quadro stabilito a Yalta,
che come strutture che cercano di fare una rivoluzione. Le società
occidentali sono ingessate dalla spartizione fra i blocchi e
gli anarchici si trovano presi tra due fuochi. È quindi
comprensibile la sorte che tocca a Berneri, la cui vitalità
era legata ad un movimento che continuava a voler concretamente
fare la rivoluzione.
Il movimento anarchico del dopoguerra cerca di ricostruire le
sue radici sociali, cerca di cogliere tutte le occasioni possibili
per manifestare la propria presenza, critica ed attacca i rapporti
sociali politici culturali dominanti, ma prima di tutto cerca
di preservare la propria identità: fare la rivoluzione
non è più un problema concreto da risolvere, ma
una “fiaccola sotto il moggio” da tenere accesa
nella notte delle riforme capitaliste e del dominio burocratico.
Gli sprazzi di luce non mancheranno, come intorno al ’68.
Il movimento ricomincerà a riflettere sulla propria azione.
Dopo la fine dell’URSS i problemi cominciano a porsi in
altri termini, ma occorrerà una intera generazione per
realizzare la portata di questa mutazione. Gli studi su Berneri
cominciano a diventare più numerosi con l’avvicinarsi
dell’anniversario della sua morte, ma la loro qualità
sarà assai diversificata e molti di essi saranno segnati
dalla tendenza a leggere Berneri in chiave ideologica più
che storica.
Accumulare le citazioni di Berneri per fargli dire quello che
si desidera non è difficile, e Stefano ce ne offre una
dimostrazione illuminante. Ma è questo che può
servire oggi al movimento anarchico? Il problema, ai miei occhi,
è piuttosto quello di ricostituire le discussioni in
cui Berneri ha preso questa o quella posizione, in un contesto
storico determinato, per capire dove voleva andare a parare.
A questo avrebbe potuto (dovuto?) servire il revival di interesse,
libri e convegni che in questi ultimi anni sono stati dedicati
a Berneri.
Purtroppo il risultato è da questo punto di vista assai
modesto, e non si può dare interamente torto ad Antonio
quando esprime la sua delusione di fronte ai testi del convegno
di Arezzo del 2007. Dovremmo piuttosto essergliene grati, perché
ci richiama al senso dell’utilità del lavoro dello
storico.
Ora, se Stefano ci ha dato un paio di volumi che ci illuminano
sulla sua lettura del pensiero berneriano, si può anche
pensare che non ci abbia aiutato molto ad approfondire la conoscenza
di questo pensiero. I suoi libri infatti ci informano molto
di più sul suo autore che sull’oggetto studiato.
Stefano legge e cita Berneri, ma espone e struttura il pensiero
di D’Errico. Una scelta certo legittima sul piano politico,
ma che lascia perplesso chi si aspetta un lavoro di analisi
storica, in un convegno di studi storici, come capita appunto
ad Antonio.
Di fronte a questa polemica mi sarei aspettato che un autore
acuto come D’Errico capisse facilmente il punto di vista
espresso da Senta, anche se non lo condivide.
Gianni Carrozza
Parigi (Francia)
|
Camillo
Berneri |
Camillo
Berneri.2 / Carte alla mano
Per Gianni Carrozza non sarebbe ‘politicamente corretto’
aver risposto per le rime a Senta, che m’addebita su Berneri
‘una procedura grossolana da un punto di vista storiografico
e politicamente molto discutibile’. Gianni quindi non
fa caso all’uso di epiteti offensivi senza riferimenti
storiografici e per di più conclude che la mancata accettazione
degli stessi sarebbe eccesso di vis polemica. Caro Gianni, come
sai, il tono della polemica lo fissa chi la inizia. Io sollevo
innanzitutto un problema di metodo. Altro che ‘schiacciare
i (...) contraddittori con il volume [degli] scritti’!
Scusa se pretendo per le tematiche berneriane qualcosa di più
di giudizi estemporanei, segnatamente quando mi s’accusa
(e senza fornirne prova alcuna) di sottoporre il pensiero di
Berneri a ‘torsioni continue’! Quindi insisto:
‘grossolano’ è termine da usarsi? E se sì,
lo si può fare senza supportare quel giudizio
in modo adeguato?
Però veniamo a noi. Idem dicasi, ma tolto l’insulto
di Senta (che, nonostante due interventi continua a rimanere
ingiustificato), per i tuoi di giudizi. Legittimo scrivere che
d’Errico strumentalizza il pensiero di Berneri, senza
il dovere deontologico (onestà intellettuale e non mera
accademia) di spiegare dove e come? Oltretutto aggiungi che
a Senta (novello Schopenhauer?) ‘dovremmo essere grati
perché ci richiama al senso dell’utilità
del lavoro dello storico’, perché d’Errico
‘non ci ha aiutato molto ad approfondire la conoscenza
[di Berneri]’, visto che ‘legge e cita
(...), ma espone e struttura [altro]’, (il proprio
pensiero). Concludi parlando di una scelta ‘legittima
sul piano politico, ma che lascia perplesso chi si aspetta un
lavoro di analisi storica, in un convegno di studi storici’!
Un ‘dottorale’ (ed antipatico) ipse dixit,
che non prova nulla. Inoltre, al contrario di quanto scrivi,
Senta non mostra d’esprimere ‘la sua delusione
di fronte ai testi del convegno di Arezzo’. Anche
se per te quei testi - come scopriamo oggi - fornirebbero un
contributo ‘assai modesto’ all’approfondimento
del pensiero berneriano, eri fra gli intervenuti, caro Gianni,
autore, secondo Senta, di un saggio ‘preciso’.
Non fare il modesto: a Senta sono piaciuti tutti i relatori
di parte anarchica, eccezion fatta per Giampietro Berti ed il
sottoscritto. A parte il fatto che avresti potuto esprimerti
in quella sede (e quindi negli atti), sgravando il povero Senta
dell’ingrato compito di confutarmi con 5 anni di ritardo,
assume ancora più forza la domanda: dov’è
il merito?
Anch’io ho avuto, in Anarchismo e politica, qualcosa
da dire sull’immagine di ‘consigliarista’
che sovente nei tuoi scritti sovrapponi al Berneri sovietista.
Ma ho ragionato carte alla mano e non con giudizi apodittici
non suffragati. Né mai avrei preso le parti di chi avesse
usato nei tuoi confronti epiteti anziché argomentazioni.
Confrontiamoci quindi sullo specifico senza giudizi unicamente
presuntivi. Il problema con Senta stava nell’accostare
anarchismo e politica? È questione già trattata
su queste pagine. Sarà quindi sufficiente reiterare una
sola citazione: “...i nostri migliori, da Malatesta
a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo,
offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è
calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della
realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione,
di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti,
polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e
politico” (1). Vogliamo ancora
far passare Berneri per un antesignano dell’antipolitica?
Al voler dare protagonismo politico al movimento sono collegate
pressoché tutte le tematiche berneriane: problemismo;
‘attualismo’; denuncia del romanticismo
autoconsolatorio; spinta verso battaglie d’opinione e
per i diritti civili; demolizione dell’operaiolatria e
del codismo filo-bolscevico, nonché dello spontaneismo
e della fiducia nella cosiddetta ‘giustizia delle masse’;
denuncia dell’ambivalenza dei totalitarismi; lotta contro
l’ubriacatura del ‘tanto peggio - tanto meglio’;
richiamo all’organizzazione specifica verso una discussione,
non deterministica però fattiva, su ‘programma’
e progetto; politica delle alleanze; fiducia in un anarchismo
inserito socialmente ed in un anarcosindacalismo di progetto;
attenzione verso l’associazionismo indipendente; antitesi
stato-società; differenza fra anarchismo (nella storia)
ed anarchia (“religione”) (2);
lotta alla diseducazione politica, all’ateismo di maniera,
all’intolleranza ed al conformismo di sinistra; denuncia
del contrattualismo; lavoro per un’epistemologia anarchica
empiriocriticista. Elementi che, ci si metta l’anima in
pace, non contrastano con la (per alcuni troppo) mitica ‘rivoluzione’
(termine enfatizzato da Gianni 7 volte in 2 cartelle).
Con te, Carrozza, la controversia può riguardare forse
la critica al ‘cretinismo astensionista’ (definizione
berneriana)? Bene, il lodigiano non se n’occupò
solo di fronte alla congiuntura spagnola, bensì già
in occasione delle elezioni italiane: “Chi sa che
cosa siano state le elezioni politiche del 1921 mi scomunicherà,
forse, ma certamente non mi fucilerà se dirò che
mi sono astenuto dal fare propaganda astensionista e che mi
sono messo contro i vestali dell’anarchismo per difendere
quei pochi compagni dell’Unione Anarchica Fiorentina (due
o tre) dall’ostracismo al quale erano stati condannati
per essere andati alle urne” (3).
Ed io ho scritto: «Berneri “osa” mettere in
discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva
di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il
non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo
astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista”
(4). Il lodigiano ne ricorda gli elogi ai
primi eletti dell’Internazionale: “In una sua lettera
al Gambuzzi (Locarno, 16 novembre 1870), Michele Bakunin scriveva
di essere lieto che egli fosse tornato a Napoli per cercare
di essere eletto deputato e soggiungeva: ‘Forse ti
meraviglierai di vedere che io, astensionista deciso ed appassionato,
spinga ora i miei amici a farsi eleggere deputati. Gli è
che le circostanze e i tempi sono mutati. Anzitutto i miei amici,
cominciando da te, si sono talmente agguerriti nelle nostre
idee, nei nostri principi, che non c’è più
pericolo che possono dimenticarli, mortificarli, sacrificarli,
e ricadere nelle loro antiche abitudini politiche. E poi, i
tempi sono diventati talmente seri, il pericolo che minaccia
la libertà di tutti i paesi talmente formidabile, che
bisogna che ovunque gli uomini di buona volontà siano
sulla breccia, e che i nostri amici soprattutto siano in una
tale posizione che la loro influenza diventi quanto più
efficace è possibile. Cristoforo (Fanelli) mi ha promesso
di scrivermi e di tenermi al corrente delle vostre lotte elettorali
che m’interessano al massimo grado». Fanelli fu
eletto deputato di Torchiara nel dicembre 1870 e Friscia fu
rieletto in Sicilia. Bakunin vedeva nell’elezione a deputati
dei più attivi organizzatori della I.a Internazionale
un potenziamento di questa, per le agevolazioni materiali (viaggi
gratuiti), per la possibilità di relazioni più
estese, per una maggiore influenza sulle masse nonché
una maggiore libertà di propaganda. Di fronte all’istituzione
parlamentare egli rimaneva antiparlamentarista ed astensionista
ed il suo atteggiamento del 1870 non è affatto da avvicinare
a quello di Andrea Costa e nemmeno a quello di F. S. Merlino.
Per Bakunin il problema era di strategia e non di tattica”
(5). È Berneri a scrivere: “Il
cretinismo astensionista è quella superstizione politica
che considera l’atto di votare come una menomazione della
dignità umana o che valuta una situazione politica-sociale
dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina
l’uno e l’altro infantilismo” (6).
Berneri si scaglia contro la reiterazione senza soluzione di
continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo:
“Come constato l’assoluta deficienza della critica
antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima,
così non sono astensionista nel senso che non credo,
e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda
astensionista in periodo di elezioni” (7)».
Ho aggiunto: «Il pensiero del lodigiano diviene chiarissimo,
in proposito, laddove scrive: “Vi sono, secondo me,
quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione
diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia
propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione
diretta è un sistema politico nel quale il popolo in
massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse
generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni.
La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema
nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un
certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere
deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è
una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare,
ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia
propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie
faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di
approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi
di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli
anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia
la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa
al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia,
sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia
si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza
autoritaria” (8). Infine, nel
caso di plebisciti e referendum non vede per gli anarchici alcun
motivo d’avversione: “Se domani si presentasse
il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata,
autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie,
ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che
crederebbero doveroso astenersi” (9)».
Cosa ho mai scritto? Semplicemente ripeto che: «Per
Berneri, il rifiuto assoluto del voto non è necessariamente
impresso nel codice genetico dell’anarchismo, non è
determinante per l’identità libertaria. Anzi, se
da elemento tattico assurge a carattere di principio, diviene
un ostacolo alla crescita del movimento, ennesima piombatura
sclerotica che ne ingabbia lo sviluppo politico».
Le citazioni di Berneri sono forse inventate (e, a proposito
di coerenza storiografica, non vengono riportate con l’ausilio
delle ‘virgolette’ ed indicandone le fonti)?
Si pensa invece (legittimamente) che la posizione di Berneri
risulti ancora poco chiara? Bene, esiste il dibattito, per questo.
Ma qui sembra si chieda un arbitrato, il lodo di un gruppo di
studiosi emeriti, un esame congiunto d’interpretazione
autentica...? Proceda pure chi ritenesse che l’anarchismo
abbia bisogno di guardiani dell’ortodossia, ma nessuno
si sogni di dare o togliere (a priori) patenti di ‘storico’
e/o ‘studioso doc’ (sic!). Evitiamo di
dar cittadinanza in questo movimento alla prassi della delegittimazione
ad argomentazione zero verso il pensiero divergente. Un dibattito
di questa natura, se ci deve essere e lo si vuole serio e corretto,
deve svolgersi carte alla mano, altrimenti si scade nella strumentalità.
Questo sì, Berneri non l’ha mai fatto: non ha mai
promosso le proprie posizioni attraverso il discredito gratuito
degli interlocutori! E, a proposito di ‘anarchismo e politica’,
cosa c’è di più politicista (nel senso più
deteriore del termine)?
Stefano d’Errico
Roma
Note
- C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista,
manoscritto del 1926 rimasto inedito sino al 1964.
- C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato,
inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia
Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per
la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società
aperta, M&B Publishing, Milano 2001. Oggi in S. d’Errico,
Anarchismo e politica, Mimesis, Milano 2007.
- C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata
dei Refrattari”, New York 25.4.1936. Poi in P. Adamo,
Anarchia e società aperta, M&B Publishing,
Milano 2001 e S. d’Errico, Anarchismo e politica,
op. cit.
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid.
- C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista,
in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”,
Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e
anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”,
New York 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società
aperta, op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo
e politica, op. cit.
- C. Berneri, Per finire, in Compiti nuovi dell’anarchismo,
da “L’impulso”, Livorno 1955, già
apparso insieme ad interventi di altri sotto il titolo comune
Revisionismo elettorale nell’anarchismo, su
“L’Adunata dei Refrattari”, New York 27.6.1936,
poi in P. Adamo, Anarchia e società aperta,
op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo e politica,
op. cit.
- C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, cit.
Ancora
su Malatesta, tasse, ecc.
Cari compagni,
vorrei rispondere alla lettera di
Davide Turcato pubblicata in “A” 371 (maggio
2012, pag. 137), con la quale egli ritiene a sua volta di replicare
a una mia precedente
missiva. In realtà non capisco dove stia la ragione
del dissenso, sempre che dissenso vi sia.
Io mi ero limitato a esporre le mie titubanze di anarchico nell’introdurre
una sorta di tassa patrimoniale, che affondi le sue radici nel
presupposto “georgista” (da Henry George) che la
Terra sia di tutti (res communis) e non di nessuno (res nullius),
di tal che i non proprietari e gli espropriati abbiano diritto
a una rendita dovuta al fatto di essere comproprietari (“comunisti”)
di tutta la Terra.
E a tal proposito citavo Malatesta, secondo il quale qualunque
proposta interlocutoria andava passata attraverso il filtro
di un lume regolatore, che ci sappia orientare tra scelte giuste
e scelte sbagliate, sia pure in un’ottica gradualista.
Non vedo dove stia il dissenso, dicevo, per due motivi: a) in
primo luogo anche Malatesta condivideva questa impostazione
sulla proprietà comune della Terra. Non chiedetemi di
citare il luogo esatto dove l’avrebbe scritto, perché
vado a memoria, e vi assicuro che le mie letture di Malatesta
sono abbondanti, anche se preferisco l’ultimo, quello
più riflessivo e ”possibilista” e forse meno
rivoluzionario del primo; b) in secondo luogo, quanto dice Davide
Turcato va nella mia stessa direzione, ossia di non pretendere
l’abolizione dello Stato come un dato preliminare, ma
come un esito quasi obbligato di alcune scelte preliminari.
Una di queste, appunto, considerare la Terra come bene di tutti
e non di nessuno, ossia di pochi. Se poi la leva fiscale sia
idonea allo scopo è questione delicata, sulla quale è
opportuno che si sviluppi un dibattito, sempre che questa sia
l’unica o l’ultima delle imposte che ci affliggono,
e non l’ennesimo balzello imposto in una situazione, come
propone Domenico Letizia, di pre-rivolta fiscale. Saluti libertari,
Fabio Massimo Nicosia
Milano
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni.
Medardo Accomando (Manocalzati – Av) 20,00;
Giorgio Meneguz (Brovello Carpovigno – VB) 10,00;
Danilo Vallauri (Dronero – CN) 10,00; Alberto
Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso
Failla, 500,00; Gianandrea Blesio (Botticino Sera
– Bs) 20,00; Ivano (Milano) 40,00; Colby (Modena)
300,00. Totale euro 920,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Luca Todini
(Brufano, Torgiano – Pg) 150,00; Roberto Pietrella
(Roma) 200,00; Alessandro Marutti (Cologno Monzese
– Mi); Sergio Guercio (Torino) 200,00. Totale
euro 650,00.
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