Sono una Guida
Parco del Parco Nazionale delle Cinque Terre e da circa 16
anni accompagno persone sui sentieri costieri e nei paesini
più famosi del mondo.
Spesso, durante le spiegazioni che, che nella maniera più
professionale possibile, fornisco ai miei clienti, mi viene
posta la domanda fatidica: ma tutto questo materiale, pietre
e terra, usato per modificare profondamente il territorio,
non potrebbe franare in mare? La mia risposta è sempre
stata che, probabilmente, sarebbe stata solo una questione
di tempo e purtroppo ciò si è avverato nell’autunno
dell’anno passato. Perché ora? Perché
non in passato? Perché non era ancora mai successo?
Le Cinque Terre hanno quasi mille anni e, da quando sono state
costruite dove si trovano, non si era mai verificata una catastrofe
simile. Questi cinque paesi furono costruiti da persone che,
tra l’XI e il XIII secolo d.C., in pieno Medioevo, decisero
che le loro condizioni di vita sarebbero decisamente migliorate
se si fossero trasferiti dalle loro case sulla montagna in
nuove abitazioni costruite vicino al mare. Qui avrebbero trovato
un clima migliore, avrebbero potuto spostarsi agevolmente
via mare oltre che a piedi o a dorso di mulo via terra e avrebbero
potuto integrare la loro attività principale, l’agricoltura,
con un minimo di pesca. Fino a quel momento sulle coste del
mediterraneo imperversava il pericolo delle incursioni saracene
ed era molto più sicuro vivere sulle montagne, lontano
dal mare e dai pirati, ma dal 1113 con l’acquisto di
Portovenere da parte della Repubblica di Genova, la situazione
cominciò a cambiare. Nel 1276 la Superba entrò
in possesso di tutti i territori della Liguria di Levante:
la presenza di Genova e della sua potenza contribuì
non poco a diminure la pressione saracena e questi liguri,
diretti discendenti degli antichi abitanti, da sempre, di
questi impervi territori, presero in considerazione la possibilità
di scendere sulla costa.
Costruirono le loro case, a forma di torre, sfruttando ogni
centimetro di territorio, alla foce di torrenti dal corso
ripido e breve che scendevano dal crinale che separa questo
tratto di litorale dalla valle fluviale più vasta della
regione: la Val di Vara (il Vara è l’unico fiume,
degno di questo nome, della Liguria: nasce dal Monte Zatta,
al confine con la provincia di Genova e scorre per 58 km in
provincia della Spezia per gettarsi, in località Bottagna,
nella Magra, fiume della Lunigiana). L’unica delle Cinque
Terre a non essere stata costruita sul mare, ma su un piccolo
promontorio di 90 m di quota, è Corniglia e la ragione
fu che sulla valle originata dal torrente Guvano incombe da
sempre una paleo-frana che si muove ogni qualvolta che le
piogge superano il livello di guardia e questa fu una scelta
che ce la dice lunga sul rispetto che i nostri avi avevano
nei confronti di un territorio fragile come quello di cui
stiamo parlando. Nel contempo questi liguri tenaci e testardi,
i cui antenati tennero testa agli antichi romani colpendoli
e fuggendo, secondo le loro tecniche di guerriglia basate
sulla conoscenza capillare del territorio impervio che da
millenni li ospitava, modificavano il paesaggio costruendo
migliaia di chilometri di muretti a secco (si parla di circa
11000 km di muro, tra costruito, crollato e ricostruito) che
servivano a sostenere i terrazzamenti sui quali veniva coltivata
la vite.
La tecnica di costruzione era molto accurata e prevedeva il
posizionamento di pietre sovrapposte e incastrate, le più
grandi alla base le più piccole verso l’alto,
fino a erigere una vera e propria vasca che veniva riempita
di pietrisco e di terra. A questo immane lavoro presero parte
anche le donne liguri che lavoravano esattamente come i loro
uomini, infatti in questi luoghi, le eredità terriere
furono da sempre equamente divise tra i due sessi (una forma
di parità di diritti che nel nostro Paese arriverà
solo nel 1946 con il voto esteso anche al sesso femminile).
Queste genti vissero nei loro luoghi, faticando duramente
per riuscirci, mettendo spesso insieme il pranzo con la cena,
fino al 1874 anno in cui venne inaugurata la linea ferroviaria
che metteva in comunicazione Genova con Livorno, e poneva
fine all’isolamento naturale in cui vivevano.
Montagne, corsi d’acqua, ecc.
L’egemonia genovese era già finita nel 1797
con l’arrivo dei francesi e l’innalzamento da
parte dei Liguri degli alberi della libertà, e un progetto
napoleonico per la costruzione di una base navale all’interno
del golfo. Il progetto venne realizzato, dopo l’unità
d’Italia, da Camillo Benso conte di Cavour con l’aiuto
del’’ingegner Domenico Chiodo, nel 1862 (l’Arsenale
Militare della Spezia viene inaugurato, non ancora ultimato,
nel 1869) e fin da subito andò a influenzare lo sviluppo
di una piccola città come La Spezia e la vita di tutti
i suoi residenti. Anche le Cinque Terre risentirono della
nuova situazione in quanto, i loro abitanti, sentendo la comprensibile
esigenza di guadagnare di più faticando meno, cominciarono
a spostarsi verso la città abbandonando il territorio
coltivato e mantenuto con amore, fino a quel momento. Da li
in poi la coltivazione della vigna diventò un’attività
da svolgere nel tempo libero e non più un’occupazione
a tempo pieno e, conseguentemente viene abbandonata la manutenzione
dei terrazzamenti e dei sistemi di regimazione delle acque
piovane che ne impedivano il crollo ad ogni pioggia. Il territorio
che aveva costituito fino a quel momento, l’unica risorsa
per questi liguri di Levante, viene lentamente ma inesorabilmente
abbandonato.
La presenza dell’Arsenale alla Spezia comporta anche
un condizionamento nel costume e nel modo di intendere il
lavoro degli spezzini, infatti da ora in poi una delle massime
aspirazioni dei giovani liguri, e non solo, fu quella di lavorare
in questa grande struttura di stampo militare aspirando, quindi,
al “posto fisso statale”, una chimera messa in
crisi dai gelidi venti di recessione degli ultimi tempi (il
numero degli “arsenalotti”passa da 9000 a 600
unità) .
Il secondo conflitto mondiale vede La Spezia al centro della
potenza militare italiana proprio per la presenza dell’Arsenale
e trasforma la città in un obiettivo militare: La Spezia
risulterà essere la seconda città più
bombardata d’Italia e questo triste primato le costerà
un elevato prezzo in termini di vite umane e di edifici storici
(il tessuto medievale della Spezia viene quasi completamente
distrutto). Gli anni della ripresa, gli stessi del boom economico,
vedono le Cinque Terre, dopo Portofino e Portovenere, salire
sulla ribalta del turismo mondiale e riprendere vita con il
ritorno di molti dei vecchi abitanti e dei loro figli che
si dedicano ad attività ad esso legate. Fioriscono
ristoranti e strutture di accoglienza, negozi e pizzerie e
nasce l’esigenza di avere spazi adatti al flusso dei
visitatori che, purtroppo, si muovono in massima parte in
automobile. Occorre inoltre, rimboschire le montagne spogliate
durante la guerra della loro naturale copertura vegetale (il
legno costituiva un ottimo e il solo combustibile per le fonderie
delle industrie armiere che dovevano costruire armi e altri
mezzi di distruzione di massa) e lo si fa, commettendo anche
qui un grosso errore, ecologicamente parlando, introducendo
cioè un albero che non faceva parte della vegetazione
arborea tipica delle coste liguri, come il leccio, ma che
attecchiva su ogni tipo di terreno e cresceva velocemente:
sto parlando del pino marittimo assolutamente inadatto, possedendo
un apparato radicale superficiale, ad evitare le frane, e
molto instabile.
I corsi d’acqua che attraversano i piccoli centri abitati
vengono ricoperti e si trasformano nelle vie principali dei
quattro paesi costruiti quasi sull’acqua. Le piogge,
fino a qualche decennio fa, stagionali e quindi abbondanti
solo in alcuni periodi dell’anno, vanno ad alimentare
i torrenti che scendono dalla montagna e scorrono senza difficoltà
sotto lo strato di cemento e asfalto con cui l’uomo
li aveva nascosti alla vista. Certo, gli undici ponticelli
che mettevano in comunicazione le due sponde del torrente
Groppo, a Manarola, avrebbero forse costituito un intralcio
alla massa di 3 milioni di persone che ogni anno, almeno negli
ultimi, in cui il Parco Nazionale (sarebbe meglio chiamarlo
Luna Parko) si è prodigato in una promozione esagerata,
si sono riversate in questo territorio fragilissimo mentre
la larga strada di cemento (peraltro orrenda) costituisce
un ottimo corridoio di scorrimento per il fiume di gente che,
amandole, viene a visitare queste terre e poco importa se
la sezione dell’alveo fluviale subisce una drastica
riduzione.
Finché rapiniamo il pianeta
E qui i nodi vengono al pettine: nella profusione di motivi
espressi da esperti meteorologi e geologi e politici e scrittori
vari, mai si è accennato a questo che, secondo me,
è il vero motivo degli eventi catastrofici verificatisi
il 25 ottobre scorso. La pioggia che si è riversata
in quantità eccezionale su una porzione del territorio
di cui stiamo parlando, una vera e propria bomba d’acqua,
siamo d’accordo su questo, è scivolata dalla
montagna fino al mare scorrendo velocissima nei luoghi in
cui era sempre passata, solo che stavolta li ha trovati occupati
da strade, da cemento, da asfalto e da auto.
Questo non ha fermato la natura che, come sappiamo, non accetta
imposizioni dai suoi ospiti, perché questo siamo: ospiti
e non padroni, non dominatori come spesso, anzi, sempre, ci
comportiamo. La massa liquida che ha trascinato con se tutto
ciò che ha trovato sul suo cammino si è ripresa
la via lungo la quale, da secoli, raggiunge il mare, trascinando
con sé pietre, terra, alberi, automobili stivate nei
parcheggi costruiti dove non dovevano essere costruiti, perché
alle Cinque Terre si deve arrivare i treno o in battello e
non in auto. Tutto questo materiale ha ostruito lo stretto
passaggio che, sotto la strada, l’uomo aveva lasciato
all’acqua e che, probabilmente, si era ulteriormente
ridotto a causa del naturale apporto fluviale di detrito.
Purtroppo la natura, quando ci presenta il suo conto, non
guarda in faccia a nessuno e, anche questa volta, si è
portata via, insieme a strade, condutture fognarie, impianti
idraulici ed elettrici, affetti e amicizie e vicende umane
che non la riguardano così molti di noi hanno perso
amici, padri e mariti, e, in qualche caso, figli.
Questo è quello che succede quando invece di rispettarlo,
rapiniamo il nostro pianeta, lo sfruttiamo a nostro vantaggio
e non teniamo conto del peso che esercitiamo su di esso pensando
di poterlo cambiare e modificare a nostro piacimento e per
il nostro interesse. Non siamo altro che formichine, piccoli
insetti, ma presuntuosi come solo l’essere umano sa
essere, convinti di poter spadroneggiare su un mondo che ci
è stato consegnato dai nostri antenati e che dovremmo
poter lasciare in condizioni ragionevoli a chi ci succederà.
Purtroppo per noi siamo animali che non imparano dai propri
errori e neanche dai propri orrori e così continuiamo
a farci la guerra, continuiamo a sporcare la nostra casa e
a sprecare le risorse che la natura ci mette a disposizione,
spesso, o meglio, sempre, a scapito di altri di noi che hanno
avuto l’unica sfortuna di nascere nell’emisfero
sbagliato, quello inferiore. Il mondo non finirà alla
fine di quest’anno, come sembra abbia previsto il misterioso
popolo Maya; la nostra agonia sarà molto più
lunga ma la nostra sorte è comunque segnata da noi
stessi.
La Terra ha circa 4 miliardi e mezzo di anni e altrettanti
dovrebbero restargliene prima che il Sole si trasformi in
qualcosa che invece di vita dispensi morte, ma se pensiamo
che animali enormi come i dinosauri che hanno dominato il
pianeta per circa 150 milioni di anni, si sono estinti per
colpa di un sassolino che vagava nell’universo, beh,
allora a noi, che siamo qui da nemmeno un milione di anni
(considerando animali che poco avevano di umano) basterà
molto meno per sparire e fare si che finalmente Gaia tiri
un sospiro di sollievo. E beato chi crede che tutto ciò
abbia un senso…