indignados
Ma quale culla della democrazia?
di Stefano Boni
David Graeber è considerato
una delle voci più autorevoli dei movimenti “Occupy”
che da mesi stanno modificando
il quadro politico-sociale negli USA.
Esaminiamo qui il suo ultimo libro edito da Elèuthera
“Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti,
crisi dello stato, democrazia diretta”.
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L’invenzione
della democrazia. Movimenti, crisi dello stato, democrazia
diretta offre una delle critiche più stringenti
alla pretesa che sia esistita una civiltà Occidentale,
che questa sia stata la culla della democrazia e che le forme
governative odierne siano denominabili democratiche. La narrazione
denuncia la distanza che c’è tra la concezione
contemporanea del termine, usato per istituzioni politiche
gerarchiche fondate sulla delega elettorale, e le concezioni
e pratiche democratiche espresse dall’umanità.
La parola “democrazia” ha significato
cose diverse nel corso della storia. Quando fu coniata, si
riferiva a un sistema in cui i cittadini di una comunità
prendevano decisioni attraverso un voto di pari peso in un’assemblea
comune. Per gran parte della storia è stata identificata
con disordine politico, sommosse, linciaggi e violenza faziosa
(aveva di fatto le stesse connotazioni che ha oggi il termine
“anarchia”).
Democrazia, significa potere del popolo, Graeber ci ricorda
inteso come forza, anche violenta. La sua caratteristica rilevante
dovrebbe essere – in confronto con altri sistemi politici
(dittatura, monarchia, oligarchia, teocrazia) – l’ampia
distribuzione del potere suggerita dalla nozione di popolo;
può essere intesa come istituzione politica egualitaria
confondendosi, in questo senso, che è quello sposato
da Graeber, con la nozione di anarchia ovvero una configurazione
del potere diffuso, distribuito in maniera tendenzialmente
egualitaria tra le persone, ognuna portatrice di parola pubblica,
di istanze, di volontà, che vanno considerate e rispettate
nelle decisioni collettive. Si tratta quindi di valorizzare
la nozione.
Ritengo che ci sia una ragione per cui
la parola “democrazia”, non importa quanto venga
abusata da demagoghi e tiranni, conservi ancora la sua ostinata
attrazione popolare. Per molte persone la democrazia è
ancora identificata con l’immagine di persone comuni
che cercano di risolvere i propri affari in maniera collettiva.
Ricondurre la nozione di democrazia alla sua forma assembleare,
orizzontale, inclusiva permette di smascherare, come fa Graber,
sia i meccanismi gerarchici delle autoproclamate democrazie
contemporanee, sia i processi di mistificazione selettiva
attivati da queste per darsi una profondità storica
e una determinata connotazione identitaria: il revival democratico
europeo a partire dal Settecento sceglie l’Atene classica
come mito fondativo delle istituzioni politiche occidentali.
Graeber si scaglia contro la tradizione intellettuale che
si ostina a cercare
le origini della democrazia proprio là
dove è meno probabile trovarle: nelle proclamazioni
degli stati che hanno in gran parte soppresso le forme locali
di autogoverno e di scelta collettiva e nelle tradizioni filosofiche
e letterarie che li giustificano in questa soppressione (questo
può aiutarci a spiegare perché in Italia, in
Grecia e in India le assemblee sovrane appaiono agli inizi
della storia scritta e scompaiono quasi subito).
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David
Graeber (New York, 1962), antropologo e anarchico, insegna
alla Goldsmiths University di Londra,
ma è anche uno dei più attivi esponenti
del movimento
Occupy
Wall Street. Da questo posto di osservazione privilegiato
guarda da antropologo la sperimentazione sociale che
i nuovi movimenti sociali fanno nel vivo dell’azione.
Non a caso ha da poco pubblicato la monumentale ricerca
Direct Action: an Ethnography, nella quale
mette insieme
passione e competenza per descrivere l’azione
diretta all’opera,
con i suoi limiti e la sua carica rivoluzionaria |
Democrazie ai margini
Nonostante il progressivo l’affermarsi di istituzioni
politiche centralizzate Graeber documenta, con un ampio corredo
di esempi storici ed etnografici, l’esistenza, dentro
ma soprattutto ai margini degli Stati, di circuiti culturali,
intesi dall’autore come egualitari, con istituzioni
politiche orizzontali e polifoniche, spesso innestate nella
vita sociale. In questo senso la democrazia non è una
nozione filosofica ma una prassi politica che emerge di continuo,
con più o meno forza, nella storia umana.
Che si tratti dei membri delle comunità
zapatiste del Chiapas, dei piqueteros disoccupati in Argentina,
degli squatter olandesi o degli attivisti che si oppongono
agli sfratti delle township sudafricane, quasi tutti sono
d’accordo sull’importanza di strutture orizzontali
piuttosto che verticali; sull’urgenza di iniziative
che procedano dal basso, salendo a partire da piccoli gruppi
autonomi e auto-organizzati, piuttosto che ricevere comunicazioni
dall’alto attraverso una catena di comando; sul rifiuto
di strutture di leadership designate e permanenti e sulla
necessità di un meccanismo che permetta di far sentire
le voci di coloro che si trovano di solito marginalizzati
o esclusi dai processi di partecipazione tradizionali (applicando
meccanismi come le tecniche di “facilitazione”
e “creazione del consenso” diffuse negli ambienti
libertari di lingua inglese, o seguendo le strategie delle
assemblee di donne e giovani nello stile zapatista, tra tanti
esempi possibili).
La loro collocazione, e questa è una delle tesi di
fondo del testo di Graeber, è spesso negli spazi interstiziali,
caratterizzati da una significativa ibridazione culturale
e che si ritagliano – o viene lasciata loro –
una certa autonomia, parzialmente liberi dal controllo di
Stati centralizzati. La democrazia diretta sopravvive, come
ci dice Graeber “in quei domini dell’attività
umana verso cui gli Stati o imperi hanno poco interesse”.
Letture semplicistiche ed eurocentriche
L’autentica democrazia segue logiche diverse da quelle
del voto.
La procedura di creazione del consenso è tipica
di quelle società in cui non c’è modo
di obbligare una minoranza a trovarsi d’accordo con
le decisioni della maggioranza, o perché non esiste
uno stato con il monopolio della forza coercitiva, o perché
lo stato non tende a intervenire nella presa delle decisioni
locali, perché non è interessato a farlo.
Se non c’è modo di obbligare chi trova ripugnante
la decisione di una maggioranza a seguirla, allora l’ultima
chance da adottare è il voto, ovvero una sfida pubblica
in cui qualcuno perderà pubblicamente. Probabilmente
votare garantirà quell’insieme di umiliazione,
risentimento e odio che alla fine conduce alla distruzione
le comunità.Come può dirvi qualsiasi attivista
che abbia partecipato a un training di facilitazione per
un gruppo di azione diretta contemporanea, un processo consensuale
non ha niente a che vedere con un dibattito parlamentare
e la ricerca del consenso non assomiglia in nulla al voto.
Abbiamo piuttosto a che fare con un processo di compromesso
e sintesi volto a produrre decisioni che nessuno troverà
così violentemente spiacevoli da non dover dissentire.
Le pratiche democratiche – definite come procedure
di presa di decisioni egualitarie oppure come forme governative
attraverso le pubbliche discussioni – tendono a emergere
da situazioni in cui comunità di un tipo o dell’altro
gestiscono i propri affari al di fuori dell’ambito
dello Stato. L’assenza del potere statale implica
l’assenza di un sistematico meccanismo di coercizione
che possa far rispettare le decisioni prese, con la conseguenza
che avremo o una forma di consenso popolare oppure, come
nel caso di formazioni militari, quali gli opliti greci
o i pirati, un sistema di votazione maggioritario (dal momento
che in casi del genere se si arriva all’uso della
forza i risultati sono scontati). L’innovazione democratica
e l’emersione dei cosiddetti “valori democratici”
tendono a fiorire dalle “zone di improvvisazione culturale”,
di solito al di fuori dal controllo dello stato, in cui
diversi tipi di persone con differenti tradizioni e esperienze
sono costrette a inventarsi un qualche modo per rapportarsi
gli uni con gli altri. Esempi di queste esperienze sono
le comunità di frontiera in Madagascar o nell’Islanda
Medievale, le navi pirata, le comunità mercantili
dell’Oceano Indiano, le confederazioni di Nativi Americani
ai margini dell’espansione europea. Tutti questi esempi
hanno poco a che fare con le grandi tradizioni letterarie
e filosofiche considerate come i pilastri della grandi civiltà:
con poche eccezioni, queste tradizioni sono decisamente
ostili alle procedure democratiche e alle persone che le
adottano. Le élite di governo, dal canto loro, tendono
a ignorare queste forme o a calpestarle.
L’ordine statale diventa prevalente, si afferma man
mano che soffoca le diversità culturali; e si dispiega
sempre più su scala globale grazie agli strumenti di
sopraffazione militare, economica e ideologica di cui è
dotato, grazie al disumanizzato perfezionamento tecnico nei
vari campi. Ma, come spiega Graeber, di democratico le “forme
repubblicane di governo”, ovvero le istituzioni politiche
degli ultimi secoli, non hanno nulla, “si sono impossessate
del nome”.
Graeber scardina letture semplicistiche ed eurocentriche arricchendo
la sua critica decostruttiva con una documentazione a tutto
campo sulle apparizioni storiche della democrazia diretta.
L’autore, uno tra gli antropologi più stimolanti
di questo periodo, affronta queste tematiche, proponendo analisi
che appaiono scandalose nella loro formulazione iniziale per
poi risultare convincenti o perlomeno interessanti da vagliare,
a fine libro. Nella tradizione più recente dei pensatori
libertari nelle scienze umane, mira a spiazzare il lettore
e ad offrirgli una varietà di stimoli e proposte, rivelatrici
di un posizionamento politico che non genera assiomi né
chiede al lettore un’adesione acritica. Gli aneddoti
e le storie di forme umane distanti mettono in crisi le credenze
egemoniche ed allargano il campo del pensabile. È una
lettura feconda, complessa, ricca e arricchente.
Stefano Boni
Leggere
Graeber
Dopo un lavoro squisitamente
teorico sul concetto di valore (1),
nel 2004 Graeber pubblica Frammenti di antropologia
anarchica, Elèuthera, Milano, 2006.
Nel 2005, Graeber viene allontanato dalla università
di Yale. La decisione dei membri anziani della sua facoltà
crea scandalo perché il profilo di insegnante
e di ricercatore di Graeber non sono in discussione:
il mancato rinnovo del contratto appare motivato dalla
volontà di censurare l’attività
politica e dalla difesa di una studentessa, anche lei
attiva politicamente impegnata e quindi soggetta alle
attenzioni disciplinari dagli organi accademici. Negli
ultimi anni, Graber diventa un protagonista delle riviste
politiche e accademiche, proponendo una irriverente
critica alla isterica e fuorviante rappresentazione
dei manifestanti anti-globalizzazione statunitensi come
violenti e pericolosi; (2) una descrizione
del funzionamento dell’apparato repressivo delle
università americane; (3)
una riflessione su globalizzazione e nuovi attivismi
politici al cuore dei quali starebbe – secondo
Graeber – l’anarchia. (4)
Nel 2009, pubblica Direct Action. An ethnography,
AK Press, Oakland, una etnografia minuziosa del movimento
anti-globalizzazione statunitense all’alba del
secondo millennio.
Graeber sembra dotato di una certa capacità di
preveggenza. In L’invenzione della democrazia.
Movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta,
scritto qualche anno fa, vengono preannunciate, le forme
dei movimenti che hanno incendiato i cuori e cominciato
a dare, nel corso dell’ultimo anno, una incipiente
forma organizzativa alla volontà popolare in
diverse contesti europei, mediterranei e nordamericani.
Graeber, non a caso, ha recentemente partecipato alla
fase iniziale del movimento Occupy Wall Street
e scritto articoli in difesa delle mobilitazioni. (5)
Al contempo, Graeber fa ricerca sul debito nel momento
in cui scoppia la bolla finanziaria, basata sulla incapacità
dei debitori di ripagare le rate ai tassi richiesti,
e pubblica The Debt. The first 5,000 years,
Melville, New York, 2011 (in arrivo l’edizione
italiana per il Saggiatore) nel momento in cui il debito
pubblico in Europa diventa il grimaldello ideologico
per imporre nuove, e più dure, misure neoliberiste
nella forma di nuove tasse sulle fasce più povere,
della progressiva perdita di potere di acquisto dei
salari, dell’ennesimo attacco ai servizi sociali,
alle risorse pubbliche, ai minimi diritti rimasti nei
contratti lavorativi.
S.B.
Note
- Graeber D. Toward
an anthropological theory of value: the false coin of
our own dreams, Palgrave, New York, 2001.
- Graeber D. “Lying in wait”, The
Nation, 19 Aprile 2004.
- Frank J. “Without Cause: Yale Fires An Acclaimed
Anarchist Scholar. An Interview with David Graeber”,
www.counterpunch.org,
13-15 Maggio 2005.
- Graeber D. “The new anarchists”, New
Left Review, n. 13, Gennaio-Febbraio 2002.
- Graeber D. “With No Future Visible, Young
Activists Have Few Options but to ‘Occupy Wall
Street’”, www.alternet.org,
26 Settembre 2011.
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