Dal novembre del 2010 si è scatenata una
serie di rivolte a cui si è voluto dare il nome di
“primavera araba”. È possibile, ad un anno
e mezzo di distanza, tracciarne un bilancio?
Una precisazione. Più che “primavera araba”
quella iniziata nel novembre 2010 andrebbero considerate una
“semina” per una eventuale primavera. Comunque
un avvenimento fondamentale per il futuro della società
araba. Questo è avvenuto dopo mezzo secolo di stagnazione
(dal punto di vista etico, sociale, culturale, politico ed
economico) che ha caratterizzato tutti i paesi arabi, dal
Marocco allo Yemen. Per quasi cinquanta anni il mondo arabo
è rimasto ai margini della Storia. All’interno
di questo periodo di stagnazione, senza dibattito sui temi
essenziali, ha prevalso un senso di paura. Anche chi restava
alla larga dalla politica viveva nella paura nei confronti
di tutto ciò che aveva a che fare con governi, istituzioni,
Stato (tanto quanto chi si trovava politicamente coinvolto).
In una collettività che vive in termini di paura le
persone sono come paralizzate. Non mi spingo ad affermare
che gli eventi iniziati il 17 novembre 2010 hanno messo la
parola fine a questa fase paralizzante, ma sicuramente hanno
dato una scossa.
Quanto hanno pesato inizialmente in queste sollevazioni
le religioni e le ideologie? Le componenti sunnite sembrano
acquisire un ruolo preponderante...
In Tunisia e in Egitto la gente si è mossa senza particolari
riferimenti religiosi o ideologici. Giustamente si è
parlato della “spontaneità” di queste rivolte
non ideologiche, smarcate da riferimenti a religioni o “socialismi”
vari. Si è trattato di una sollevazione di tipo “fisiologico”,
fisico, caratteristica di società con molti giovani
(il 60% ha meno di 30 anni), pieni di energia, di potenzialità.
Giovani in gran parte istruiti, con aspettative simili ai
coetanei della sponda nord del Mediterraneo. Sollevazione
fisiologica (in una società stagnante sia a livello
economico che politico) che ha messo in evidenza bisogni a
cui finora si era risposto in maniera repressiva. Non mancavano
i precedenti. Pensiamo agli scioperi del 2003, poco dopo la
caduta di Bagdad. La caduta della capitale irachena, con tutto
il suo carico di umiliazione, rimane un evento importante
nell’immaginario della popolazione araba. Aveva visto
e riconosciuto come in uno specchio la propria impotenza,
la propria marginalità, sia rispetto all’Occidente
che ai vari regimi. Regimi che erano il prolungamento dei
poteri forti occidentali, vassalli telecomandati, “usa
e getta” in base alle dinamiche della geopolitica. Potremmo
definirle rivolte contro la propria impotenza per rivendicare
non un’ideologia salvifica, ma un ruolo attivo nella
Storia.
E per il futuro?
Per il futuro è tutto da vedere. In Egitto e Tunisia
siamo in un’area nel complesso omogenea, legata da una
storia e sentimenti comuni. Soprattutto in Tunisia dove esiste
un forte senso di appartenenza linguistica e culturale, l’omogeneità
di fondo ha permesso una mobilitazione diffusa, trasversale.
Sia territoriale che di genere, di ceto, di religione e di
appartenenza politica.
Vedendo questi giovani manifestare, fare quello che fino a
quel momento si riteneva impossibile, i loro coetanei degli
altri paesi arabi sono stati “contagiati”, si
sono riconosciuti e sono scesi in piazza. Soprattutto perché
stava accadendo in paesi dove i governanti si sentivano in
una botte di ferro, sia per l’esteso controllo poliziesco
che per gli appoggi esterni. Ma forse quello che è
venuto dopo ha perso la naturalezza originaria. In altre realtà,
quando si è messo in moto un movimento simile, gli
esponenti politici, locali e internazionali, hanno preso provvedimenti
e sono intervenuti utilizzando sia il confessionalismo che
l’intelligence. In Barhein, Marocco, Yemen e Siria (dove,
a causa delle divisioni tribali e religiose, manca una coesione
paragonabile a quella di Egitto e Tunisia) i movimenti hanno
perso spontaneità, lo smarcamento dai riferimenti religiosi
e politici è stato ridimensionato e la geopolitica
ha ripreso il sopravvento.
I principali attori dell’area, Iran, Turchia e Arabia
saudita, cercano di indirizzare gli eventi in base ai loro
interessi e ormai la rivendicazione originaria (vedersi riconosciuto
un ruolo attivo nella società) viene strumentalizzata.
Ogni Stato ha la sua agenda anche a scapito delle rivendicazioni
popolari. In Barhein la richiesta di una maggiore democrazia
è diventata una questione confessionale, mentre nello
Yemen stanno cercando di tamponare, di prendere tempo. Pensiamo
a quanto sia importante la stabilità yemenita per l’Arabia
saudita...
Anche per ragioni di prestigio
Cosa può dirci rispetto a quello che è
accaduto in Libia?
Quello della Libia è stato un cambiamento molto orchestrato,
una sintesi tra ribellione tribale e colpo di stato. Oggi
possiamo vederne le conseguenze. Oltre alla proclamazione
unilaterale di uno “Stato federale” da parte dei
leader di alcune tribù di Bengazi, va ricordato che
nel sud del paese continua la guerra tra fazioni tribali.
Si tratta di realtà molto ampie e territorialmente
estese, con legami parentali in Ciad e Sudan. Anche Misurata
è controllata da una milizia e una città vicina,
Tauerga, in passato legata a Gheddafi, è stata completamente
sgomberata. Tripoli è a sua volta divisa tra fazioni
tribali, di cui una controlla l’aeroporto, un’altra
un ministero...e così via. In Libia c’è
stata convergenza di interessi tra alcuni golpisti, alcuni
centri finanziari (v. il Qatar) e alcuni leader tribali.
Possiamo definirlo un golpe in quanto molti esponenti del
passato regime hanno abbandonato Gheddafi per integrarsi nel
CNT. Quando se ne andava un ministro o un ufficiale dell’esercito,
anche la sua tribù lo seguiva. Sicuramente il colonnello
era un despota, ma è anche vero che la natura, gli
obiettivi della ribellione andrebbero analizzati con uno sguardo
diverso rispetto a quanto è avvenuto in Tunisia e Egitto.
In Libia l’appartenenza alla tribù è prevalente,
praticamente non esistono partiti e movimenti nazionali. Ovviamente
Gheddafi dava fastidio, in particolare all’Arabia saudita,
per il ruolo che intendeva esercitare in Africa. Bisognerebbe
poi chiedersi quale sia l’autorità morale dell’Arabia
saudita nel rivendicare la democrazia. Comunque, mentre in
Siria tra gli oppositori di Assad ci sono vari orientamenti,
su Gheddafi tutti erano sostanzialmente d’accordo: i
nazionalisti, la sinistra, i liberali...
Quindi per la Siria non prevede uno scenario di tipo
libico con intervento militare esterno?
Come ho detto, l’opposizione interna siriana è
divisa. Ora, dopo 40 anni, si è svegliata anche l’opposizione
esterna che sostanzialmente aspira al potere, da conquistare
anche con la guerra. Invece chi subisce la repressione dentro
i confini del paese ragiona diversamente.
L’uso delle armi fa il gioco di Assad mentre la disobbedienza
civile crea parecchi problemi al regime. Diciamo che la violenza
fornisce un alibi al regime. In passato l’immagine del
mondo arabo veniva schiacciata su Bin Laden e Al Qaeda. Le
sollevazioni hanno avuto anche il merito di superare questa
falsa rappresentazione. Non si tratta di un fatto completamente
nuovo. Agli inizi del ‘900 nei paesi arabi si sono sviluppati
movimenti di massa non-violenti con un profondo coinvolgimento
della società civile. Lo stesso movimento anticoloniale,
con l’eccezione dell’Algeria, si è basato
più sulla disobbedienza civile che sulla lotta armata.
I movimenti attuali derivano da questa tradizione.
Già agli inizi del ‘900 alcuni pensatori e religiosi
siriani (come Al Kawakibi poi costretto all’esilio)
avevano individuato i “tre ingredienti” del dispotismo.
Una massa ignorante, un ceto religioso corrotto, una élite
di opportunisti. Ma anche un regime ha bisogno di una certa
dose di consenso e oggi in Siria questo si va riducendo, il
cerchio si stringe. I movimenti hanno dimostrato che si può
vincere sulla paura e che il cittadino normale può
contare. Inoltre lo spazio pubblico è tornato ad essere
luogo di scambio, di incontro. Ancora l’anno scorso
era monopolio degli apparati dello Stato.
E per quanto riguarda il suo paese, in quale situazione
versa l’Iraq? C’è stata anche una “primavera”
irachena?
Intanto vorrei ricordare che Bagdad, la mia città natale,
vive una situazione disastrosa. Così gran parte dell’Iraq.
Un paese ricco, ma con un alto numero di poveri, di affamati,
con una media di 50 vittime al giorno per attentati o scontri
armati e dove molte donne rischiano la morte per parto. Inoltre,
a causa delle armi utilizzate, è diventato uno dei
paesi più inquinati del mondo con un altro numero di
nascite deformi. Ma l’Iraq è anche uno dei più
corrotti, governato da vere e proprie bande. Emblematico il
recente caso del vicepresidente accusato di “terrorismo”.
Sembra proprio di vedere una banda di criminali che si sfalda,
si spacca, dopo una rapina, per il bottino.
Hanno approfittato della fine del regime per impadronirsi
del paese. Ognuno cerca ora di avere più vantaggi.
Lo Stato non esiste, la società è frantumata
e manca un programma politico per ricostruire la nazione.
L’esercizio della violenza, della repressione non accenna
ad arrestarsi. Tra le vittime anche molti giornalisti.
In sintonia con quelle degli altri paesi arabi, anche qui
c’era stata una sollevazione popolare. Era dagli anni
sessanta che non assistevo a manifestazioni di queste dimensioni
nel mio paese. Sono state represse duramente, distrutte. Molti
attivisti sono stati uccisi a casa loro, con il silenziatore,
nello stile delle squadre della morte. I desaparecidos si
contano a migliaia, ma solo le madri organizzano manifestazioni
di protesta. Io penso che non si dovrebbe intervenire così
in un paese, demolirlo e poi lasciarlo in queste condizioni.
Ritiene che le ragioni dell’intervento occidentale
siano state soprattutto economiche?
Non credo si sia trattato solo di interessi economici. Si
interviene militarmente anche per ragioni di prestigio, simboliche.
Sicuramente Saddam e Gheddafi erano dei dittatori. Dittatori
che nella loro megalomania avevano comunque un disegno politico
e pestavano i piedi a qualcuno più grosso di loro.
Diciamo che ci sono dittatori che eseguono, subalterni e controllabili,
mentre altri non sono controllabili, collaborano solo in base
ai loro interessi.
Saddam è stato condannato a morte, tra l’altro,
per aver massacrato curdi e sciiti. Sono state queste due
comunità a subire maggiormente la dittatura di Saddam?
Personalmente non mi trovo d’accordo con questa “confessionalizzazione
del crimine” che mi sembra funzionale alla divisione
del paese. Serve a legittimare le rivendicazioni di potere
da parte di chi non ha progetti né politici né
sociali. Saddam ammazzava tutti, non solo curdi e sciiti.
Assumere soltanto il ruolo di vittima non è corretto,
significa non voler fare i conti con la propria storia. Vien
da chiedersi come avrebbe fatto Saddam a governare con il
70% della popolazione (curdi e sciiti) contro di lui.