Rivista Anarchica Online


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L’Alba di un lungo tramonto

di Maria Matteo

Una nuova formazione politico-culturale si propone a sinistra. La radicalità sociale dei movimenti richiede ben altro e dobbiamo agire perchè non si infranga sul nodo della (solita) politica.

 

Il tema dell’antipolitica attraversa il dibattito pubblico, specie in occasione delle tornate elettorali. Il termine, che sia assunto con orgoglio o utilizzato con disprezzo, gode delle medesime ambiguità di quello di cui è la negazione.
Si parla di antipolitica sia che si segnali la disaffezione dei cittadini verso la cosa pubblica, sia quando si indica il distacco progressivo dal sistema dei partiti. Se la politica è il luogo della polis, l’antipolitica diviene indice di qualunquismo, egoismo, esperire di soluzioni individuali alle questioni sociali. Se la politica è weberianamente l’ambito della conquista e del mantenimento del potere e dell’esercizio legittimo delle forza, l’antipolitica può essere il luogo dove la polis reclama il suo spazio contro il dominio.
Il mescolarsi dei significati è indice della natura squisitamente politica dell’invettiva contro l’antipolitica. Ma non solo. È anche il segno di complessi intrecci semantici che rimandano ad una prassi in cui la spinta alla polis come luogo della partecipazione si esprime e si comprime in modalità populiste che ne ridimensionano la portata . Negli ultimissimi anni l’invettiva contro i partiti – corrotti, corruttibili, irriformabili, casta – la spinta alla “pulizia”, alla riforma democratica, si è spesso incarnata in movimenti segnati dall’emergere di leadership carismatiche che di fatto riproducono le modalità di intercettazione del consenso tipiche della seconda repubblica.
In questo senso la parabola finale del berlusconismo ci aiuta ad afferrare meglio le radici di quel che è accaduto nel nostro paese nei vent’anni che hanno chiuso la parabola del Novecento. Vent’anni che le anime belle di una sinistra borghese, intellettuale e snob hanno vissuto come un flagello morale. Hanno puntato l’indice sul potere mediatico acquisito dall’uomo di mediaset, senza accorgersi che Silvio, da buon salumaio, ha offerto quello che sondaggisti e analisti di mercato gli suggerivano come desiderio condiviso.

L’Italia di Bossi e Berlusconi

Tutto è cominciato con le casalinghe che si calavano le mutande su Canale 5: la nemesi dell’Italia democristiana, quella delle ballerine con le calze nere per volontà della Chiesa cattolica. La nemesi dell’Italia antidemocristiana che aveva soffocato la spinta libertaria degli anni Sessanta e Settanta, costruendo caserme intorno ai movimenti sociali con il pretesto del terrorismo. La nemesi del togliattismo che chiude la propria parabola passando dal “compromesso storico” al Partito Democratico.
L’Italia scorreggiona, patetica, triste, ironica di certa commedia degli anni cinquanta e sessanta era un’Italia che si vergognava un po’ del proprio costume provinciale, campanilista, popolare, ignorante, egoista, individualista, sessista. L’Italia, che passa la boa degli anni ’80, segna la fine della sobrietà in bianco e nero ed approda al tecnicolor: da Drive in alla “realtà spettacolo”, quando il fuori scena diventa ir-realtà vissuta. Vera pornografia dei sentimenti e delle relazioni.
Il governo viene gestito da un buffone tragico come Berlusconi perché il Cavaliere ha saputo incarnare mirabilmente le aspirazioni di tanti: l’uomo che si fa da sé, che diventa miliardario e si esibisce come un poveraccio con l’auto nuova, che va a puttane e se ne vanta, che vede comunisti dove nessuno si sognerebbe di scovarne neppure l’imitazione, diviene insieme specchio e modello. Riflesso di se ed aspirazione a diventare quello che si è già. Mescolateci insieme le canottiere di Bossi, i cappi, i diti medi, il fragrante turpiloquio da bar che entra nella scena politica ed il gioco è fatto.
L’Italia di Bossi e Berlusconi è stata – è – un’Italia antipolitica, e, insieme, apoteosi della politica, nei due sensi confliggenti del termine. Lo sfaldarsi del partito novecentesco, di massa e di apparati, porta al modello aziendalista, snello, leggero la cui cifra è l’assenza di un programma chiaro e di un modello preciso. Il governo dei “liberali” ha corrisposto con un secco appesantimento dello Stato: moltiplicarsi e razionalizzarsi dei meccanismi disciplinari e aumento della pressione fiscale nonostante la riduzione di servizi e tutele. Il partito/azienda come il partito/famiglia si reggono su leadership carismatiche: la personalità, poco importa se reale o costruita mediaticamente, diviene il fulcro sul quale si raccolgono i consensi. La forza – come la debolezza – di questo modello è nei Berlusconi e nei Bossi. Il tutto, machiavellicamente mescolato alla convinzione andreottiana che il potere logora solo chi non ce l’ha, spiega anche l’arroganza impudica del loro agire: che si tratti di prostitute minorenni o degli affari di famiglia del leader della Lega.
Berlusconi in particolare ha anche giocato in modo pesante la carta della democratura, basata sull’assunto dell’insindacabilità dell’investitura democratica, che finisce con l’assumere alcune delle caratteristiche della regalità. Solo la forza del partito trasversale e transnazionale degli affari l’ha obbligato ad abdicare.
Grillo è l’antiberlusconi e insieme la sua apoteosi. Da attore gli ruba la scena e la occupa tutta, straripando con le proprie invettive. Populismo, giustizialismo e spinta alla partecipazione diretta si mescolano nel movimento fondato dal comico genovese.
È un partito non partito, leggerissimo e insieme rigido, perché imprescindibile dalla leadership carismatica. Tra liste civiche e comizi spettacolo, riunioni virtuali e le poltrone reali, c’è un mescolarsi spurio di elementi diversi. Una miscela intrinsecamente pericolosa, perché alimenta la speranza in una democrazia dal basso, senza avere un programma chiaro, al di là delle intollerabili pulsioni giustizialiste. Il suo unico nutrimento è la linfa che viene erogata dalla leadership.
All’alba del secondo decennio del secolo i contorni del partito politico novecentesco si fanno via via più sfumati, prevalgono formazioni leggere, ma non per questo meno autoritarie.

Un pizzico di democrazia diretta

Su di un altro versante la parabola della sinistra parlamentare si è conclusa nell’inessenzialità politica e sociale, aprendo spazi sempre più ampi ad un’opzione più marcatamente libertaria.
La carta del realismo politico ha portato Rifondazione alla debacle: diventare complice attiva delle peggiori porcherie in cambio di qualche poltrona non è stata una mossa troppo azzeccata. La formazione che ha raccolto l’eredità del Partito Comunista si è così condannata al declino e alla infinita scissione.
Tuttavia, occorre riconoscerlo, certa sinistra ha una capacità infinita di proporre nuove formule, nuovi carrozzoni, nuovi percorsi nomadi per l’eterno gioco delle poltrone.
Abbandonato – o messo temporaneamente in naftalina – l’arcipelago di isolotti della diaspora comunista, il solito gruppo di intellettuali si è messo al servizio della politica. O, se preferite, dell’antipolitica a seconda dell’accezione nella quale usate il termine.
Ne è scaturito un appello per un “nuovo soggetto politico”, un appello pieno di tutto e pieno di nulla, un costrutto che assume il lessico dei beni comuni ma evita con cura il tema dei beni in comune, che riconiuga in modo abile e assieme appassionato la questione dei diritti e delle tutele, e, con destrezza, si sbarazza dell’ingombrante tradizione rivoluzionaria, mettendo al centro la Costituzione della Repubblica Italiana, da restaurare al più presto nella sua integrità.
Un pizzico di democrazia diretta, una buona spruzzata di demagogia referendaria, una robusta dose di welfarismo e un mucchio di fumo per coprire il nodo dei nodi, quello della politica che conta, conta perché decide/comanda nel senso weberiano del termine. Hanno fatto un’assemblea – 7 minuti a intervento – e hanno dato il nome al “nuovo soggetto politico”, un nome potente, evocativo anche se di sapore vagamente ottocentesco. L’hanno chiamato “ALBA”, l’acronimo sta per “Alleanza Lavoro BeniComuni, Ambiente”. Programmi? Beh… quelli li decideranno poi.
Come se qualcuno comperasse il regalo dopo aver preso la scatola per imballarlo. Ingenui? Cialtroni? Furbi? Forse un po’ di tutto questo e fors’anche convinti, con sensibilità probabilmente autentica, che l’afflato morale che anima i movimenti per il welfare, l’ambiente, i diritti sia in se un collante sufficiente.
Decideranno poi se, come e con quali regole di ingaggio andare alle elezioni. Probabilmente la dialettica cominciata con la sinistra “classica”, da SEL a Rifondazione, determinerà la scelta finale. La possibile fusione tra SEL e il PD, auspicata dal partito di Repubblica, potrebbe accelerare la nascita di un partito/non partito dei movimenti.
Perché, qualora non fosse già chiaro, il puntello dell’intera operazione sono i movimenti sociali, supposti eternamente orfani di tutela/rappresentanza politica. Come non ricordare il moltiplicarsi dei social forum nati dopo il G8 del 2001 a Genova, che si incaricarono con diligenza di seppellire un movimento che, nel nostro paese, non era mai nato davvero se non nelle fucine della solita ammucchiata di partitini, associazioni, sindacati grandi e piccoli, centri sociali più o meno embedded, che animarono il Genoa Social Forum. Da allora però di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. La situazione sociale nella quale siamo immersi è difficilissima. In questi dieci anni guerra, repressione, erosione di libertà e tutele, precarietà e pericolosità del lavoro hanno segnato le poltiche dei governi che si sono succeduti.
I padroni stanno combattendo e vincendo una violentissima guerra di classe, senza che vi sia una risposta adeguata alla gravità del momento. Politica e antipolitica sono andate felicemente al governo: i tecnici di Monti, sostenuti in maniera conflittualmente bipartisan dal centro destra e dal centro sinistra, stanno coniugando una marcata attitudine disciplinare alla scelta netta di eliminare qualsiasi forma di ammortizzazione sociale.

Esperienze di esodo

In questo contesto gli spazi per un riformismo “illuminato” proprio non ci sono.
D’altra parte i movimenti che l’ALBA conta di convogliare sono saldamente radicati nel territorio, attuano già forme di riappropriazione dal basso della polis, sanno coniugare autogestione e conflitto, sono consapevoli che la posta è altissima e il governo non sta facendo sconti a nessuno.
Sarebbe un vero peccato che la spinta alla polis che anima questi movimenti venisse convogliata nell’ennesimo gioco di potere.
Non c’è vera polis senza messa in comune dei beni. Quest’assunto tipicamente anarchico è la sola risposta possibile alla retorica dei beni comuni – sempre affidati alla logica statuale – al piagnisteo sulla riformabilità della democrazia e sul capitalismo dal volto umano.
Ma quest’assunto in se non basta, non può bastare. Chi vive ed attraversa da protagonista i movimenti sociali vuole risposte concrete a questioni concrete. Occorre impedire che la radicalità sociale dei movimenti si infranga sul nodo della politica, facendoci assistere all’eterno ritorno dell’eguale, un’ALBA che ha in sé il tramonto.
Servono intelligenza e impegno per costruire, nel conflitto
I movimenti sociali sono oggi innervati da potenti istanze libertarie, che possono trovare spazi di sperimentazione non istituzionale, se sapremo aprire interlocuzioni durature e fare proposte adeguate alla sfida. Una scommessa difficile ma ineludibile.

Maria Matteo