“A
volte il passato ti agguanta” aveva scritto Christa
Wolf nell’ultimo suo libro La città degli
angeli. Dimenticanze e rimozioni, come insegna la
psicanalisi, sono modi, spesso inutili e comunque sempre sintomatici,
per tentare di sfuggire, appunto, a quel passato pronto ad
“agguantare” per chieder conto di ciò che
si è stati, di ciò che si è detto, di
ciò che si è fatto.
Fare i conti con il passato è infatti un difficile
esercizio, un compito arduo che a volte necessita di coraggio,
e comunque sempre di disponibilità e onestà
intellettuale, per andare a “scavare” tra ricordi,
parole, emozioni, sentimenti e poterli così riprendere
tra le mani e osservarli alla luce del tempo trascorso.
Ciò vale per gli individui singoli alle prese con la
propria storia, fatta di grandezze ma, a volte, anche di meschinità,
però vale anche per la memoria collettiva che il tempo,
non innocentemente, pian piano trasforma, per dar vita a una
narrazione “limata”, a una narrazione cioè
che smussi le asperità, elimini ciò che può
ferire o far vergognare, a favore di un racconto spesso tanto
rassicurante quanto menzognero. In Italia, ad esempio, storici
prezzolati al soldo di governi opportunisti e delle loro istituzioni,
negli anni della Repubblica nata “dall’antifascismo”,
hanno lavorato per anni al fine di ridisegnare l’immagine
di un Paese che, nonostante Mussolini, il Fascismo e poi la
Repubblica Sociale, non aveva mai fatto “nulla”
di particolarmente malvagio e che anzi, anche nei momenti
peggiori della sua storia, si era comunque contraddistinto
per bontà, onestà ed eroismo. La bandiera degli
“italiani brava gente” ha potuto così svettare
per anni e, tra suoni di fanfare, buoni sentimenti e tricolori,
mettere a tacere qualsiasi opinione contraria. Infatti, si
sono dovuti attendere decenni prima che, ad esempio, la vergognosa
realtà degli italiani artefici o complici di tutte
le nefandezze che i conflitti portano con sé, trovassero
voce e ascolto (naturalmente, in modo sempre osteggiato dalle
“alte sfere” in nome della “riconciliazione”
o, molto più prosaicamente, per “ragion di stato”).
In Germania le cose sono andate un po’ diversamente:
se negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto
mondiale, con la complicità delle stesse forze vincitrici,
anche lì si era attivato un meccanismo di rimozione
del proprio passato nazista (la Germania era troppo importante
ai fini degli equilibri tra le due superpotenze per continuare
a essere considerata “colpevole e reietta” per
gli orrori della guerra), con il 1968 e gli anni successivi,
il vento cominciò pian piano, ma costantemente, a mutare
direzione. I giovani tedeschi di allora, infatti, durante
la grande rivolta di quegli anni, posero sul tavolo del confronto/scontro
“globale”, anche la questione delle responsabilità
delle proprie famiglie durante il nazismo. Da allora il paese
tedesco, grazie anche alla successiva “marcia nelle
istituzioni” proprio di quella generazione sessantottina,
ha compiuto molta strada nella direzione del non rimuovere
la memoria storica degli orrori causati dal nazismo hitleriano
e, anzi, di tenere vivo il ricordo di quel periodo a monito
perenne per le nuove generazioni.
Così, anche se fare i conti con memorie familiari che
possono essere orribili (e spesso lo sono), è certamente
difficile e imbarazzante, sembra che la maggior parte dei
giovani tedeschi sia oggi in grado di affrontare con lucidità
e sincerità i nodi che hanno legato le loro famiglie
ai deliri del Terzo Reich.
Ne abbiamo parlato con Grit Frölich e Jonas Gabler, trentenni
berlinesi i cui nonni avevano aderito al Partito nazionalsocialista
e combattuto nelle file della Wehrmacht sul fronte russo.
Sia Grit che Jonas sono personalmente impegnati in attività
promosse a Berlino dall’Istoreco - Istituto per la storia
della Resistenza e della società contemporanea di Reggio
Emilia, che hanno come obiettivo la tutela e la conoscenza
della memoria storica relativa agli anni del nazifascismo
e della Resistenza. Cosa ha significato per loro confrontarsi
con la memoria del nazismo nella loro famiglia? Quella che
segue è la trascrizione di una conversazione avuta
con loro su questi temi alcuni mesi fa.
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Jonas
Gabler |
Da bambino in visita a un lager
Jonas – Sono nato a
Berlino Ovest nel 1981. Ho passato più o meno tutta
la mia vita a Berlino e in parte anche in Italia. Ho studiato
scienze politiche, quindi, da parte mia, un interesse politico
e storico c’è sempre stato, anche se non in modo
particolare per la storia del nazismo.
Nella mia famiglia, però, si è sempre parlato
della storia della Germania e già da bambino venni
portato a visitare un campo di concentramento. Terminati gli
studi cercavo lavoro e mi sono trovato per caso a condurre,
per conto della Berliner Unterwelten (vedi box),
visite guidate per italiani e tedeschi in quelli che erano
stati i bunker della città, ovverosia gli spazi sotterranei
di Berlino, sia quelli preesistenti che durante la Seconda
Guerra mondiale vennero trasformati in rifugi antiaerei, sia
quelli che furono costruiti appositamente durante il conflitto.
Per me è stato importantissimo trovare questo lavoro
perché mi ha dato molti stimoli per riflettere sulla
storia.
Che interesse c’è a visitare gli ex bunker?
Quando si parla della Seconda Guerra mondiale a Berlino non
si può parlare solo dei bombardamenti che la città
ha subìto perché, naturalmente, legate a quei
bombardamenti ci sono tante storie. Anche “leggendo”
la storia dei sotterranei ne emergono parecchie, ad esempio,
basta pensare al fatto che i bunker costruiti ex-novo durante
la guerra, furono in gran parte realizzati da prigionieri
di guerra oppure da gente costretta al lavoro forzato. Si
può anche raccontare dei sacchi che abbiamo trovato
ristrutturando i bunker e che sono i sacchi con cui si trasportavano
a Berlino gli abiti degli ebrei o di altre persone uccise
ad Auschwitz. I condannati al lavoro forzato li lavavano per
essere successivamente distribuiti a tedeschi che ne avevano
bisogno. E ciò la dice lunga a proposito di chi sapeva
o non sapeva dell’esistenza dei campi di concentramento,
della deportazione degli ebrei e della fine che facevano.
Nel bunker principale che mostriamo ai turisti, c’è
la frase del filosofo Santayana: “Chi non conosce
il passato è condannato a ripeterlo” e questo
è in fondo anche il mio credo: io non voglio solo mostrare
dei luoghi, voglio anche cercare di dare spiegazioni su come
si possa diventare carnefici oppure carnefici e vittime contemporaneamente,
e così provare a capire come si possano evitare che
situazioni così orribili possano ripetersi.
Grit – Io sono nata a Berlino Est
nel 1975, ho vissuto anch’io qualche anno in Italia
e ora vivo nuovamente a Berlino. Lavoro come traduttrice e
ogni tanto conduco visite guidate sulla storia del nazionalsocialismo.
Poiché io, come dicevo, sono nata a Berlino Est e lì
sono cresciuta fino all’età di quattordici anni,
ho avuto una formazione scolastica caratterizzata dall’antifascismo:
era un atteggiamento comune essere “antifascisti”,
si veniva educati così. Sin da bambini venivamo portati
a visitare i campi di concentramento: era obbligatorio, ma
nello stesso tempo normale. Direi che c’era un grosso
consenso da parte della società della Repubblica Democratica
tedesca verso questo tipo di istruzione: si voleva attuare
una politica antifascista e educare i figli in maniera conseguente.
La questione
Hai parlato di “denazificazione”: come
è avvenuta nella RDT?
Grit – Nei primi anni molti nazisti
sono stati uccisi, gli stessi campi di concentramento un tempo
gestiti dai nazisti sono stati subito riutilizzati dai sovietici
per metterci parte della popolazione tedesca. Alcuni imprigionati
erano effettivamente nazisti ma altri non c’entravano
nulla. Io direi che la denazificazione in Germania dell’Est
è stata fatta sicuramente in maniera più radicale
che all’Ovest perché questa zona era amministrata
dai sovietici, i quali, avendo vissuto tutte le sofferenze
della guerra, erano molto più motivati a sradicare
il nazismo. Però io so che anche nella RDT ci sono
stati casi di nazisti che sono riusciti di nuovo a entrare
in posizioni di rilievo, magari non così in alto come
è successo nella Germania dell’Ovest, però
ci sono stati.
In relazione agli anni del Secondo conflitto mondiale,
Italia e Germania hanno una memoria comune, solo che in Italia
è stata fatta un’operazione di rimozione o, se
non proprio di rimozione, di rilettura in chiave “accomodante”
della storia del Fascismo, trasformandolo in un evento “buono”
o comunque non “cattivo” come il nazismo –
con il tradizionale leit motiv: “italiani brava gente”
a fare da controcanto. In Germania, invece la memoria di quegli
anni, come è stata gestita?
Jonas– Per la mia esperienza, direi
che la questione della memoria all’Ovest dipendeva un
po’ dalla famiglia in cui crescevi. Da noi a scuola
non era obbligatoria la visita al campo di concentramento
però, appena aperti i confini con l’ex-RDT, insieme
a mio padre sono andato al campo di Sachsenhausen e credo
che tutti i padri come i miei si siano comportati così
con i loro figli. Mio padre partecipò al ’68
tedesco e penso che il Sessantotto rappresenti una data molto
importante relativamente al “come comportarsi”
con la storia tedesca tra il 1933 e il ’45. Anche nell’Ovest
era stata attuata una denazificazione però, da noi,
è pure stato usato parecchio il cosiddetto “certificato
Dash” che ha ripulito la coscienza di molti.
Quando c’era l’interesse a farlo, di qualcuno
veniva detto: “è uno che non ha fatto niente”,
“è pulito”, ecco perché
lo abbiamo chiamato “certificato Dash”. Gli alleati
dell’Ovest avevano capito molto velocemente che nel
momento in cui sembrava probabile un nuovo conflitto mondiale
tra Est e Ovest, tra Usa e URSS, tra comunismo e capitalismo,
avrebbero avuto bisogno della Germania Ovest come alleato.
Così, da un giorno all’altro, è cambiata
l’aria e poiché questo è successo alla
fine della guerra, prima della fondazione dei due stati tedeschi,
si può dire che sin dall’inizio nella Repubblica
federale ci siano stati diversi ex-nazisti nel governo. Contemporaneamente,
si è voluto tracciare una “linea finale”,
una linea di demarcazione tra il passato e il presente, si
è detto: “basta, non si parla più
di nazismo, il nazismo è il passato”. Avevano
bisogno di farlo per andare avanti perché, al di là
delle motivazioni legate agli equilibri internazionali, nessuno
può vivere con tutta questa colpa sulle spalle e quindi,
per avere di nuovo una nazione forte che potesse combattere
il comunismo, c’era bisogno di non parlare più
del passato. Però, per fortuna, hanno continuato a
esserci persone che si dicevano: “ma che strano,
nei posti-chiave ci sono sempre le stesse persone!”
e nel ’68 i giovani, gli studenti, hanno posto queste
questioni.
In Germania, infatti, il Sessantotto oltre a essere stato,
come ovunque, un movimento politico, ha anche rappresentato
molto uno scontro generazionale tra i genitori ex-nazisti
e i figli che volevano sapere quello che era successo veramente
tra il 1933 e il 1945. Poi, con il passare degli anni, da
parte di molti della generazione del ’68, c’è
stata quella che venne chiamata “marcia attraverso
le istituzioni” e ciò ha contribuito a modificare
la lettura della storia. Io sono cresciuto in quella fase
in cui si è parlato tanto dei crimini dei nazisti e
della presenza scandalosa di ex-nazisti nell’amministrazione
e nella politica nazionale.
Sia chiaro: questo problema esiste ancora oggi, non è
completamente risolto. Per esempio, ultimamente, è
uscito un libro “Soldaten, Protokolle von Kaempfen,
Toten und Sterben” (“Soldati, protocolli
del combattere, dell’uccidere e del morire” –
Ed. Fischer S. Verlag Gmbh, aprile 2011), scritto sulla base
di 150 mila pagine di comunicazioni tra soldati tedeschi prigionieri,
registrate dai servizi segreti degli alleati, che mettono
in evidenza quanto fosse una menzogna l’immagine “cavalleresca
e onorevole” della Wehrmacht rispetto agli orrori delle
SS o della Gestapo. L’altro giorno leggevo i commenti
in rete attorno a questo libro. Sì, ci sono molti che
dicono “è un libro bellissimo, importantissimo”,
però ce ne sono ancora molti altri che lo ritengono
ingiurioso e scrivono “quando la smetterete di buttare
fango sulla nostra Wehrmacht?”. Il conflitto c’è
ancora, non è sopito. Un altro esempio: l’autunno
scorso (2010 –ndr) è stato pubblicato un rapporto
del Ministro degli affari esteri sul passato della Germania.
Il Ministero degli affari esteri, per tantissimo tempo, era
stata un’istituzione dove avevano lavorato molti esponenti
della nobiltà tedesca e nel dopoguerra, si disse che
i nobili, in quanto monarchici, non erano mai stati d’accordo
con Hitler, erano sì nazionalisti ma non nazisti. Invece,
da questo rapporto, è emerso che non era assolutamente
vero, ossia che molti nobili avevano appoggiato apertamente
il nazionalsocialismo. Anche in quel caso c’è
stato chi ha giudicato diffamatorio il rapporto e chi invece,
d’altro canto, si è scandalizzato del fatto che
il rapporto portasse la data del 2002 e che solo dopo otto
anni fosse venuto alla luce. Perché si è aspettato
tanto? Perché non è stato fatto subito, o almeno
dopo il ’68 quando hanno cominciato a essere poste molte
domande sul passato? Questi erano gli interrogativi ricorrenti.
Quindi, secondo me, questo è un problema che non si
è ancora risolto, è una storia che va avanti,
però il fatto che il dibattito resti aperto, mi da
fiducia perché nessuno, fortunatamente, dice che quella
del nazismo è una storia finita. Quella del nazionalsocialismo
tedesco è una storia sulla quale ancora si discute
e si ragiona, e deve per forza essere così.
Come ci veniva raccontata la storia
A quale età avete cominciato a conoscere
la storia del nazismo e chi ve l’ha raccontata?
Grit – Io non me lo ricordo più,
però quasi sicuramente è stato a scuola, durante
i primi anni perché da noi, in Germania dell’Est,
si cominciava molto presto a conoscerla: anche da bambini,
appena si iniziava a parlare della storia, si imparavano queste
cose. Forse i primi racconti li abbiamo avuti dai nostri libri
di scuola sui quali imparavamo a leggere e dove c’erano
racconti che parlavano dei soldati sovietici che aiutavano
la popolazione tedesca dopo la Seconda Guerra mondiale, quando
tutto era distrutto. Ci raccontavano che i sovietici ci davano
da mangiare nonostante tutto il male che prima avevano fatto
i soldati tedeschi a loro. Direi che il tema è stato
sempre presente, anche nelle canzoni che imparavamo e cantavamo
a scuola dove s’inneggiava sempre alla grande riconoscenza
nei confronti dei sovietici che ci avevano liberati e trattati
bene, nonostante appunto il male che il popolo tedesco aveva
fatto loro.
Jonas– Sicuramente la prima volta
che ne ho cominciato a sentir parlare seriamente è
stato quando ho visitato il campo di Sachsenhausen e quindi
dopo la “caduta del muro” a nove o dieci anni.
Dopo, ne abbiamo parlato anche a scuola molte volte, tanto
che mi ricordo che, a un certo punto, a quattordici o quindici
anni, mi ero anche stancato di ascoltare quelle storie, mi
dicevo: “basta, l’ho già sentite mille
volte!”, un po’ perché a quell’età
la scuola e tutto ciò che comporta non è che
la si ami molto e poi anche perché la scuola ti insegna
le cose sempre nello stesso modo, mentre forse ci potevano
essere altre modalità più interessanti per parlare
di certi temi.
Grit – Dopo la fine della RDT a scuola
abbiamo dovuto ricominciare daccapo lo studio della storia:
io, per esempio, prima del novembre del 1989 studiavo già
gli eventi del Novecento, dopo quella data ho dovuto ricominciare
dalla storia antica, la Grecia, i romani… ci dissero
che era da lì che si doveva cominciare a conoscere
la democrazia…
Che differenze hai trovato nelle due impostazioni
didattiche?
Grit – Una delle differenze principali
sta proprio nel come ci veniva raccontata la storia. In Germania
dell’Est, come ho detto, il tema principale era la resistenza
dei comunisti contro i nazisti e non si parlava per nulla
delle altre forme di resistenza come quelle, ad esempio, messe
in atto da molti per motivi religiosi. Da noi si parlava molto
di un grande dirigente comunista, Ernst Thälmann. Mi
ricordo che da bambini dovevamo imparare a memoria le storie
della sua vita e recitarle in coro davanti al pubblico (Grit
ride -ndr), ad esempio di come lui da bambino fosse molto
generoso con i suoi compagni di scuola e di come, quindi,
dovesse essere d’esempio per noi: la solidarietà
tra operai, ci veniva detto, comincia già a quell’età.
Noi, tra l’altro, eravamo tutti “Pionieri”,
ossia membri dell’associazione giovanile di massa che
c’era nella RDT: i primi quattro anni si era Giovani
Pionieri, dopo si diventava Pionieri di Ernst Thälmann.
Grazie a quell’uomo, Thälmann, che aveva combattuto
nella resistenza contro il nazismo, abbiamo sempre avuto un
rapporto con la storia del nazionalsocialismo, però
appunto, in relazione alla resistenza comunista. Invece, per
come ci è stata raccontata la storia del nazismo dopo
l’89, il tema dello sterminio degli ebrei è stato
molto più importante e dominante che non quello delle
persecuzioni dei comunisti.
E sui nuovi libri dell’Ovest, si parlava anche
dello sterminio degli omosessuali, dei Rom, delle prostitute,
dei malati?
Grit – Come dicevo prima, nei nostri
libri di storia della RDT, prima dell’Ottantanove eravamo
già arrivati a studiare il nazismo, però poi
siamo dovuti ritornare ai greci per studiare la democrazia
fin dall’inizio e quindi non abbiamo più fatto
in tempo ad arrivare di nuovo al Novecento. Quello che poi
ho imparato del nazismo l’ho appreso più attraverso
le mostre che periodicamente vengono allestite e che, ripeto,
accentuano però più la storia degli ebrei che
non quella dei comunisti. Se giri per quella che era Berlino
Est, troverai molte case con lapidi che ricordano che lì
abitavano comunisti che hanno partecipato alla resistenza
e che sono morti nel tale anno o nell’altro, in quel
campo di concentramento piuttosto che in quell’altro,
però direi che sono ormai poche le memorie che sono
sopravvissute alla ristrutturazione della città.
Più a scuola che in famiglia
In famiglia da quando avete cominciato a parlare
di questi temi e come ne avete parlato? E come ne parlavate?
Jonas - È difficile da dirsi perché
sono ricordi molto interiorizzati. Ricordo che abbiamo visto
insieme dei documentari. Penso che i miei genitori mi abbiano
dato soprattutto degli stimoli a saperne di più, mi
hanno regalato qualche libro per esempio… ah, sì,
ora mi ricordo una cosa che secondo me per la mia formazione
è stata molto importante. A Berlino Ovest ancora oggi
c’è un teatro, il Grips tehatre che è
molto importante. Il Grips tehatre era nato da un collettivo
negli anni Sessanta senza avere finanziamenti pubblici; era
ed è un teatro per ragazzi e mio padre, pedagogo, era
molto interessato a quell’esperienza e ci portava lì
spesso.
Mi ricordo che ci fu uno spettacolo durante il quale veniva
raccontata la storia di una ragazzina berlinese ebrea che
era riuscita a sopravvivere alla Seconda Guerra mondiale e
ai rastrellamenti nazisti rimanendo sempre nascosta. Da ragazzino
la registrazione su cassetta di quello spettacolo l’ho
vista penso dieci, quindici volte, non mi ricordo nemmeno
quante… Come dicevo, sono convinto che i miei genitori
mi abbiano dato queste cose per poi spingermi a pormi e a
porre delle domande, cosa questa che poi, naturalmente, con
il tempo ho fatto e, soprattutto mio padre, anch’egli
molto interessato alla storia, mi ha sempre risposto. MI ricordo
lunghissime discussioni con lui.
Grit – Io del nazismo ho imparato
sicuramente molto di più a scuola che in famiglia.
I miei genitori sono nati nel 1949, l’anno in cui è
stata fondata la Repubblica tedesca, quindi già fuori
dalla storia del nazismo. Sono i miei nonni che hanno avuto
un’esperienza diretta con il nazionalsocialismo. Del
tempo della guerra io so soprattutto grazie ai racconti di
mia nonna che mi ha sempre parlato in maniera aperta di ciò
che ha vissuto, soprattutto delle sue paure.
Della sua esperienza del nazismo me ne ha parlato come di
un’esperienza positiva perché da ragazzina le
era piaciuto stare dentro la Lega delle fanciulle tedesche
(Bund Deutscher Mädel). Lei si incontrava lì
con un gruppo di ragazze per fare bricolage e così
facendo socializzavano: a mia nonna questa cosa era piaciuta.
Poi mi ha anche raccontato come il mio bisnonno, suo padre,
fosse entrato nel partito nazionalsocialista. Per come lo
racconta lei è come se ci fosse “scivolato”
dentro, pur non avendo mai fatto la richiesta di entrare nel
partito. Lui era insegnante e dal 1933 c’era l’obbligo
di associarsi in organizzazioni politiche, nel senso che le
organizzazioni che c’erano prima venivano sciolte e
confluivano tutte in organizzazioni nazionalsocialiste. Mio
bisnonno faceva parte di un’associazione di insegnanti
che venne chiusa e gli iscritti furono costretti ad entrare
in una nuova organizzazione di insegnanti, appunto però
nazionalsocialista.
C’era anche l’obbligo che queste organizzazioni
si caratterizzassero come gruppi più o meno paramilitari
simili alle SA (acronimo di Sturmabteillung –
Battaglioni d’assalto). Poi c’erano altri gruppi,
come quello dei veterani della Prima Guerra mondiale, che
si incontravano solo per parlare o per fare delle marce rievocative.
Prima dell’avvento del nazionalsocialismo c’erano
diverse organizzazioni di reduci, diverse anche dal punto
di vista politico, c’erano ad esempio l’associazione
dei reduci legati al partito comunista e quella dei socialdemocratici.
Mio bisnonno era nell’ associazione di ispirazione socialdemocratica,
ma a un certo punto, come dicevo, le associazioni vennero
sciolte e gli aderenti furono costretti a iscriversi ai gruppi
nazionalsocialisti. È per questo motivo che lui si
trovò iscritto al partito nazista.
Dalla parte della famiglia di mio padre c’era l’altro
mio bisnonno che era socialdemocratico e ricopriva un ruolo
ai vertici del sindacato: non a caso nel ’33 venne messo
in prigione e poi tenuto in un campo di concentramento per
alcuni anni. Però nella mia famiglia non è mai
stato importante né il passato nazionalsocialista né
quello di resistenza contro il nazionalsocialismo. Quello
che era molto più presente, soprattutto nei racconti
di mia nonna, era cosa avesse comportato la guerra per la
vita quotidiana.
La banalizzazione
Secondo te, attraverso queste narrazioni parziali,
poteva passare un messaggio più o meno indiretto con
cui, parafrasando Hanna Arendt, si “banalizzava il male”?
Grit – Io a mia nonna non ho mai domandato
se fosse consapevole del male che veniva fatto nel nome del
nazionalsocialismo, al quale, in qualche modo, partecipava
anche lei. Credo che lei sia stata consapevole di certe ingiustizie.
So che era a conoscenza dei campi di concentramento, so che
era consapevole anche del fatto che ci fosse il lavoro forzato,
perché aveva lavorato in un ufficio di ingegneria insieme
a prigionieri olandesi che facevano il lavoro forzato lì,
in ufficio, quindi in maniera ovviamente più sopportabile
che altrove. Però mia nonna si rendeva conto che quei
prigionieri venivano trattati in maniera diversa dagli altri
lavoratori: per esempio, quando c’erano gli allarmi
aerei, loro non avevano il diritto di andare nei rifugi ma
dovevano continuare a lavorare. E mia nonna di questa ingiustizia
era consapevole.
Però sì, la “banalizzazione del male”,
in fondo c’era: se osservo la storia di mia nonna vedo
che lei, durante il nazionalsocialismo, ha avuto la possibilità
di crescere, di imparare un mestiere, anche se, facendo disegni
tecnici da Junkers, significava progettare aerei
da guerra (Junkers, oggi azienda del Gruppo Bosh
specializzata in termodinamica, negli anni immediatamente
successivi al primo conflitto mondiale, era votata alla produzione
di aerei. Suoi, ad esempio, i famigerati Stukas impiegati
dalla Luftwaffe durante la Seconda guerra mondiale–ndr).
Se non ci fosse stata la guerra sarebbe stata costretta dai
genitori a rimanere in casa e quindi a fare la vita di casalinga.
Siccome, però, in quel periodo di guerra tutti erano
obbligati a lavorare e se non lo cercavi eri obbligato a fare
i lavori che ti comandavano, lei aveva avuto il permesso da
parte dei suoi di cercarsi un lavoro. Per lei, mi disse, fu
una liberazione. Per cui, che nella quotidianità ci
fosse anche una “banalizzazione del male” è
vero, e un sistema come il nazismo, non a caso, offriva degli
spazi alla gente per realizzarsi, altrimenti, credo, non ci
sarebbe stata una così forte adesione a Hitler.
E invece i tuoi genitori, Jonas, come ti hanno parlato
dei tuoi nonni? Hai avuto l’impressione che ti venisse
detto tutto oppure, secondo te, qualche cosa ti è stata
occultata o raccontata in maniera giustificativa?
Jonas – Secondo me è dipeso
molto da come loro avevano avuto un rapporto con i loro genitori.
Mio padre non aveva un buon rapporto con mio nonno, quello
abbastanza autoritario di cui parlavo prima, e quindi non
hanno parlato molto. Però mio padre sapeva che mio
nonno era stato al fronte dell’Est, con tutto ciò
che questo può aver comportato. C’è stato,
e rimane ancora, anche il dubbio che mio nonno fosse entrato
nelle SS. Al momento attuale non possiamo confermarlo però,
magari, nel tempo verranno fuori le prove: le stiamo cercando.
Mio bisnonno era invece contadino. Mi ricordo che mi aveva
raccontato di un francese prigioniero di guerra che lo aiutava
nei campi. A questo francese piacevano molto i miei bisnonni
e anche loro erano molto contenti, si erano trovati molto
bene con lui. Violando addirittura il regolamento, molto spesso,
i miei bisnonni pranzavano e cenavano insieme al francese,
tanto che, quando finalmente lui alla fine della guerra poté
tornare in Francia, mantenne con loro, e per lungo tempo,
un rapporto epistolare.
Per quanto riguarda la famiglia di mia madre, invece, lì
c’è stata molta più simpatia verso il
nazionalsocialismo. Mio nonno aveva già fatto parte
dell’esercito molto prima della guerra. Mia nonna mi
raccontava che lui non parlava molto di ciò che aveva
vissuto durante il conflitto, però, come ho detto,
si ricordava che si svegliava di notte con incubi per le cose
che aveva vissuto nell’esercito nazista. Mia madre non
ha mai saputo o non mi ha mai detto che suo padre avesse partecipato
agli stermini di massa sul fronte dell’Est dove era
stato mandato. Oggi, con quello che so della storia, sono
abbastanza sicuro che lo avesse fatto. Però di questo
aspetto, insieme ai miei genitori non ne abbiamo mai parlato.
D’altra parte dei crimini della Wehrmacht si è
cominciato a parlare abbastanza recentemente, c’è
stata una mostra credo nel 1998 o giù di lì,
che ha fatto scaturire discussioni su questo tema. In ogni
caso, al di là di questo specifico episodio, ho comunque
l’impressione che i miei abbiano parlato con me in maniera
molto aperta.
Con una storia del paese in cui siete nati così
difficile, che significato ha per voi la parola “Heimat”
(“casa”, “luogo natio”, “piccola
patria” - ndr)?
Grit – Essendo nata in Germania dell’Est
sono cresciuta con un significato positivo della heimat;
avevamo anche diverse canzoni che parlavano della heimat.
Heimat, però, era un termine comunque diverso
da faterland, patria: heimat era forse qualcosa
di più materno, non lo so. Nella mia famiglia la parola
heimat viene usata normalmente. Mia nonna, che è
originaria della Sassonia, parla sempre della sua heimat
che è appunto la Sassonia e non Berlino dove vive.
Io non ho tanti problemi con questa parola, probabilmente
come dicevo, perché sono cresciuta nella ex-RDT: so
che ci sono invece delle persone che la interpretano criticamente.
Magari rispondo con una canzone che abbiamo imparato nella
RDT e che diceva “La nostra heimat non
sono soltanto le città e i paesi ma sono anche tutti
gli alberi nel bosco” quindi heimat come
“natura” e questo direi che per me vale ancora
oggi. Però, se chiedi che cos’è per me
heimat oggi, oltre la natura, è anche Berlino
più che la Germania. Infatti, se all’estero mi
chiedono da dove vengo, molto spesso io non dico che arrivo
dalla Germania ma da Berlino. È in Italia che ho imparato
a dire “sono tedesca”, e questa è una frase
che, una volta, in tedesco non avrei mai pronunciato. In Germania
dell’Est era vietatissimo dire “io sono tedesco”
o “tedesca”, perché chi lo diceva veniva
accusato di voler tornare alla Grande Germania dei tempi passati;
ma da noi non si poteva nemmeno dire “Germania”,
la Germania era un paese inesistente: c’era la Repubblica
democratica tedesca e la Repubblica federale tedesca, ma non
la Germania.
Dopo la caduta del Muro, quando ho potuto viaggiare, soprattutto
in Italia, lì ovviamente mi è capitato che mi
domandassero da dove venissi. La RDT non c’era più,
cosa dovevo dire: “Vengo dalla Repubblica federale tedesca”?
Non era vero, quindi ho cominciato a dire “vengo da
Berlino”, ma ripeto: solo con l’aiuto di un’altra
lingua sono riuscita a pronunciare questa mia identità
“tedesca”, che in realtà è un’identità
un po’ spezzata perché il paese dal quale vengo
non esiste più. Oggi però riesco a dirlo anche
in tedesco “Ich bin deutsche”… però
c’è voluto tempo, è stato un processo.
Visite guidate
E invece “Vaterland” ossia “patria”,
cosa significa per voi?
Jonas – Io, una volta non avevo un
buon rapporto con il paese in cui vivevo. Per lungo tempo
mi sono vergognato di essere tedesco: non volevo che la gente
mi riconoscesse come tedesco. Dopo ho ragionato molto sia
sul mio comportamento sia sulla cosiddetta “colpa dei
tedeschi” e a un certo punto non mi è piaciuto
più il tipo di approccio che avevo con la storia del
mio paese. A un certo punto, cioè, mi sono reso conto
che ho un’identità tedesca: non c’è
niente da negare, io sono tedesco. Anche se non credo molto
nel concetto di nazione, ho dovuto ammettere che facevo parte
della cultura tedesca.
Da quel momento ho cominciato a rapportarmi alla mia storia
e alla storia della mia gente, a quella dei miei nonni. È
stato un lavoro su me stesso che ho fatto con sincerità
e accettando di essere anche molto critico pure con chi mi
era molto vicino, come i miei nonni appunto, ai quali ho voluto
comunque bene. Solo così ho potuto realmente “dirmi
allo specchio” e dire agli altri, che sono tedesco e
che vengo dalla Germania, e che, per questa origine e per
questa identità e, naturalmente anche per quella che
è la mia storia, oggi non c’è nulla di
cui personalmente mi debba vergognare. Tutto questo, secondo
me, si può raccontare molto bene con un esempio calcistico.
Mi ricordo che una volta tifavo sempre contro ogni squadra
tedesca, sia nazionale sia di club. Guardavo sempre le partite
alla tv però tifavo sempre l’avversario. Poi
sono andato a vivere in Francia per sei mesi, proprio nel
1998, dopo i mondiali di calcio in cui la Francia aveva vinto
e la Germania era uscita ai quarti di finale. I francesi prendevano
in giro tutti i tedeschi che incontravano rimarcando sempre,
in qualche modo, la nostra storia. Forse per questo motivo,
da quel momento, ho cominciato a tifare per la nazionale tedesca
e soprattutto per la squadra della mia città, Berlino!
(ride –ndr). A parte gli scherzi, heimat per
me è Berlino, ci sono nato, ci sono cresciuto e mi
piace tantissimo.
Il resto della Germania non lo conosco molto: fino all’Ottantanove
era difficile uscire da Berlino e sono andato soltanto una
volta trovare mia nonna vicino al confine con la Francia e
un’altra, mio nonno nella Franconia, vicino a Norimberga.
La parola faterland, patria, invece è una
parola che non sopporto, non solo per le reminiscenze naziste
ma proprio per le connotazioni militaristiche cui accennava
Grit. Per me poi è un concetto costruito, non è
una cosa vera. Faterland è una parola che
non esce mai dalla mia bocca se non in questa intervista!
Da cosa è nato in voi il desiderio di lavorare
attorno alla memoria?
Grit – Il motivo principale che mi
ha spinto a collaborare alla realizzazione delle visite guidate
sul nazionalsocialismo, ma anche sulla storia della Germania
dell’Est, non è di carattere economico: come
dicevo, il mio lavoro è di traduttrice. Le visite,
infatti, le conduco ogni tanto, quando mi viene richiesto
dall’Istoreco. È una cosa che mi piace ma non
potrei immaginare di farla quotidianamente, soprattutto le
visite sul tema del nazismo e quindi visitare campi di concentramento,
bunker, ecc. Però ritornare di tanto in tanto su questo
tema mi piace, perché trovo giusto trasmettere ai ragazzi
la memoria di ciò che è stato. Però lo
ammetto, in realtà lo faccio soprattutto per me, perché
mi accorgo che ogni anno riesco a vedere il tema da un’altra
prospettiva, riesco ad arricchirlo, vedo aspetti che magari
prima non avevo visto. Ad esempio, curando la visita guidata
nello stadio olimpico di Berlino sulla storia delle olimpiadi
del ’36 e su tutta la messa in scena della propaganda
nazionalsocialista durante i giochi, quest’anno ho scoperto
quanto sia stato importante l’aspetto emozionale legato
al nazionalsocialismo, un aspetto che spesso viene trascurato
a favore dell’approfondimento dei motivi politici ed
economici che ci sono stati, dei vantaggi che le persone potevano
avere per il fatto di aderire al sistema nazista, ecc. Ora
mi interessa non vedere solamente i fatti economici e politici
ma anche gli aspetti psicologici ed emozionali della gente
che partecipava a questi raduni di massa o alle fiaccolate
in cui la gente componeva una svastica gigante. Oppure approfondire
il perché dell’uso di simboli, come appunto la
svastica, e capire in che modo erano riusciti a radicare le
idee naziste nella psiche, nelle emozioni della gente. Ho
riflettuto su che cosa potessero provocare a livello emozionale
questi raduni, sul senso di unità che stimolavano,
e devo dire che questo mi ha spiegato molto su come si possa
aderire ad un sistema così. Del lavoro sulla memoria
è questo che mi piace, scoprire ogni volta aspetti
nuovi.
Jonas – Come dicevo, di base c’è
stato sempre l’interesse per la storia; poi a questo
si è aggiunta l’idea, se non proprio quella di
una “missione”, parola che mi sembra esagerata,
della volontà di trasmettere ad altre persone questa
mia visione della storia o per lo meno confrontarmi su questa
con altri. Questo è quello che mi piace molto, soprattutto
con i ragazzi, perché i ragazzi ti danno molto più
riscontro, ti fanno capire più degli adulti che ti
stanno seguendo, che ti stanno ascoltando, che sono interessati.
Anch’io comunque non faccio solo visite guidate sulla
storia del nazionalsocialismo ma anche, ad esempio, sulla
divisione della città dopo il 1961, sul Muro, sulla
gente uccisa durante i tentativi di fuga. Quello che cerco
di trasmettere è lo sguardo sulle persone singole,
sulla loro storia, sulla loro sofferenza sotto i poteri dispotici.
Il potere del nazismo è stato fortissimo e particolarmente
crudele, ma non fu il solo e io voglio sensibilizzare i ragazzi
su tutto ciò.
E se nel 1933
Quali sono oggi le vostre riflessioni sul nazionalsocialismo?
Grit – Io continuo a chiedermi come
sia stato possibile, e probabilmente mi rimarrà sempre
questa domanda, non credo che arriverò mai a darmi
una risposta. Fino a ora mi sono data una spiegazione solo
su come la gente abbia potuto aderire a un sistema come quello
nazista. Credo che ci sia stata anche un po’ l’abitudine
a seguire certe persone di cui si ha fiducia e se quelle fanno
parte di un gruppo, è facile che ci entri anche tu,
senza farti troppe domande. In ciò c’è
anche la voglia di far parte di un gruppo in una società
industrializzata dove c’è molto individualismo,
dove la gente si sente un po’ persa. Quindi io direi
che la forza e il fascino che può avere avuto il fatto
di far parte di un gruppo, di sentirsi “parte di una
comunità”, non è da sottovalutare.
Jonas – Secondo me, un po’
c’è da fare questa considerazione ormai quasi
proverbiale, ossia che nella cultura tedesca è forte
l’imperativo all’obbedienza. Però il problema
più grave è quello cui accennava Grit: nella
dinamica dei gruppi, avviene spesso che tu escluda un gruppo
dalla tua comunità e proietti tutto il male su questo.
In questi casi, la gente non vede più nell’altro
gruppo delle persone con cui avere empatia ma vede dei nemici
ai quali si può fare di tutto.
Non a caso, quando faccio la visita guidata, con le persone
che mi seguono, nel parlare punto sempre molto proprio sul
tema dell’empatia e invito tutti a riflettere su come
sia possibile che una persona che provi empatia, che ami delle
persone, possa arrivare a fare cose del genere. E arriviamo
a capire che non è possibile: prima di compiere certe
azioni, devi aver eliminato qualsiasi possibilità di
empatia nei confronti della vittima, devi considerarlo niente
o meno di niente, altrimenti non puoi avere la forza di trasformarti
in carnefice. Per questo motivo il nazismo “svalutava”
i propri nemici, li considerava e portava a considerarli “meno
di niente”. È molto facile capirlo nelle cose
che hanno detto quei soldati in quel libro che citavo prima
(Soldaten -ndr), ossia che se all’inizio avevi
problemi ad uccidere una persona, dopo pochissimo tempo te
li toglievi perché ti abituavi; e così quella
parte che, secondo me, è in tutti noi, ossia l’empatia
che abbiamo nei confronti di una persona che soffre e che
muore, scompariva. Oltre a ciò, uno si potrebbe domandare
perché nessuno abbia resistito, perché non ci
sia stata una resistenza forte in Germania, e, a mio avviso,
in parte si spiega con quello che dicevo prima a proposito
della cultura del tedesco. Ma non solo, in fondo è
lo stesso fenomeno che abbiamo anche adesso. Ogni volta che
conduco le visite guidate, mi chiedo e domando: non è
che forse stiamo ripetendo in un certo senso quella storia?
Per esempio, se parlo del Muro di Berlino e dell’ordine
di sparare a chi cerca di fuggire; e se poi parlo del vedersi
come gruppo e quindi escludere altri; e poi vedo l’Unione
europea e ascolto qualcuno del Parlamento europeo affermare
che stanno arrivando “orde di immigrati”: in realtà
ventimila o cinquantamila persone ma comunque non “orde”,
e sento qualcun altro che dice di sparargli; se osservo che
nel Mediterraneo muoiono più persone in pochi giorni
che in 28 anni del Muro di Berlino, posso parlare solo degli
orrori del nazionalsocialismo o delle gravi colpe dei regimi
dell’Est? Cosa faccio, racconto la storia del Muro di
Berlino e non racconto la storia delle persone che stanno
morendo là nel Mediterraneo o alla frontiera tra Messico
e Stati uniti? O a Gaza? Il problema è che quando tu
fai parte di un sistema che ti nutre è molto difficile
criticarlo fino in fondo, e alla fine stiamo tutti approfittando
un po’ di questa situazione. Lo critichiamo, io lo criticherei
sempre, però è chiaro che non facciamo granché
per cambiare questa situazione, perché abbiamo dei
privilegi che, consapevoli o no, difendiamo con tanta forza.
Tutti noi, alla fine facciamo parte di quel sistema. Non è
molto ma comunque è già importante ricordarselo.
Vi siete mai immaginati di avere avuto 20 anni nel
1933? Secondo voi, cosa avreste fatto in quell’epoca?
Grit – Sinceramente non me la sono
mai posta questa domanda, però, naturalmente, con i
racconti di mia nonna, riesco ad immedesimarmi con lei, una
persona a me molto cara, e quindi anche in cosa lei ha fatto
a quell’età; poi penso a me, cresciuta nella
RDT dove anch’io ero all’interno di queste organizzazioni
di massa, tipo i Giovani Pionieri, quindi se avessi
avuto 20 anni nel ’33 facilmente io sarei stata dentro
a quelle organizzazioni. Sì, è molto probabile.
Jonas – Io me lo sono immaginato spesso
in diversi periodi della mia vita e in alcuni mi sono detto:
“come hanno potuto far parte di questo orrore”,
poi ce n’erano degli altri in cui, invece, ero abbastanza
convinto che ne avrei fatto parte anch’io. Alla fine
sono giunto a dirmi che questa, forse, è una domanda
senza senso perché se avessi la macchina del tempo
e tornassi all’epoca e all’età di vent’anni,
sono abbastanza sicuro che sarei stato anch’io nazista
come le centinaia di migliaia di miei coetanei.
Ovviamente oggi, con la cultura che ho e con tutto quanto
ho saputo del nazismo, dico naturalmente che non lo avrei
mai potuto fare. Ma ha senso dire ciò? La vera domanda,
secondo me è un’altra: che farei adesso se succedesse
la stessa cosa? E non è una domanda retorica: perché
secondo me, quello che è stato potrebbe tornare. Ho
visto che, per esempio, durante i mondiali di calcio del 2010
ho fatto molta più fatica a tifare Germania rispetto
agli anni di cui parlavo prima, perché quando ero contento
per la vittoria della squadra tedesca, vedevo della gente
che, per quella stessa vittoria, andava in giro per le strade
urlando slogan nazionalistici che mi spaventavano.
Quello del nazionalismo è un sentimento che vedo crescere
molto in questo periodo. Temo che ci saranno nuovi conflitti
per cui, tornando alla domanda che hai posto, viviamo già
in un momento in cui molti crimini che attuava il regime nazista
si stanno ripetendo in molte parti del mondo, anche in Europa,
e mi accorgo che non mi sto ribellando, non abbastanza, non
come dovrei. Se le situazioni dovessero peggiorare, so per
certo che non diventerei mai uno dalla parte del sistema,
però non so se avrei il coraggio di resistergli veramente,
di oppormi con tutte le forze. No, non lo so.
Romano
Giuffrida
alla realizzazione delle interviste ha collaborato
Giovanna Panigadi
La
memoria sotterranea di Berlino
L’associazione culturale
Berliner Unterwelten (www.berlinosotterranea.de)
da anni svolge un’attività di perlustrazione
e documentazione delle strutture sotterranee della città
di Berlino. Queste, infatti, offrono numerosi spunti di
interesse storico. Da un lato c’è la storia
dei bunker che vennero utilizzati dalla popolazione civile
durante i bombardamenti subìti nel corso della
Seconda guerra mondiale, dall’altro, c’è
la storia dei sotterranei che utilizzavano i cittadini
della zona Est della città per fuggire a Ovest
dopo che, nel 1961, venne eretto il Muro che divise Berlino.
L’associazione Berliner Unterwelten, da
diversi anni, propone visite guidate in questi sotterranei
offrendo, nel contempo, adeguate informazioni di carattere
storico sulle vicende della guerra, sugli anni della divisione
della città nonché, naturalmente, sulla
vita delle donne e degli uomini che quei sotterranei hanno,
loro malgrado, “abitato”.
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Omosessualità
e memoria
Intervista a Salvatore
Trapani
di Romano Giuffrida
Tra il 1933 e il 1945 circa 7000
omosessuali morirono nei campi di concentramento a Dachau e,
soprattutto, a Sachsenhausen, località a circa cinquanta
chilometri da Berlino. La condanna veniva attuata in base al
Paragrafo 175 del Codice penale tedesco (entrato in vigore nel
1871), che considerava l’omosessualità una “trasgressione”
pericolosa (perché “soggetta a una rapida propagazione
come una calamità”), e quindi da punire. Il regime
nazista accentuò la considerazione di pericolosità
definendo “crimine” qualsiasi comportamento che
potesse, in qualche modo, rimandare a tendenze omosessuali.
Sembra impossibile, eppure solo nel 1994 il Paragrafo 175 venne
eliminato dal codice tedesco.
Lo sterminio degli omosessuali è stato pressoché
ignorato per tantissimi anni (così come quello dei rom
e dei sinti, dei portatori di disabilità, delle prostitute,
ecc.), ed è quindi importante un progetto come “Berlin-Gay.it”,
promosso dalla cooperativa culture Lab, che ha come obiettivo
quello di spingere la comunità omosessuale italiana a
prendere consapevolezza della storia tragica che la riguarda
attraverso viaggi di gruppo a Berlino e seminari di studio.
Il progetto è nato dalla collaborazione tra CulturLab
e l’Istoreco - Istituto per la storia della Resistenza
e della società contemporanea di Reggio Emilia.
Salvatore Trapani, giornalista residente a Berlino, è
uno dei promotori di “Berlin-Gay.it”, da lui ci
siamo fatti raccontare l’origine di questo progetto.
Salvatore Trapani
- Mi sono laureato all’università Ca’Foscari
di Venezia in Storia e critica delle arti visive. Volevo scrivere
una tesi di laurea che coniugasse l’amore che ho per l’arte
con l’amore che ho per la storia del Novecento. L’arte
l’ho sempre amata mentre l’interesse per la storia,
e in particolar modo per quella della Germania nazista, l’ho
scoperto strada facendo, perché, essendo omosessuale,
non ho impiegato molto tempo a capire che ero chiamato in causa
personalmente dalla storia per come il nazismo si comportò
con la comunità omosessuale. Tornando alla laurea, non
potevo però preparare una tesi in un paese come l’Italia
dove non c’era, e probabilmente non c’è ancora,
una bibliografia adeguata su questi temi.
All’Università di Venezia addirittura avevo incontrato
delle resistenze da parte dei docenti ad affrontare un tema
come quello dell’Olocausto visto attraverso l’arte
e, soprattutto, attraverso gli sguardi di diverse generazioni
di artisti: quella che ha vissuto la storia dei campi solo sentendola
raccontare e quella invece di chi quella tragedia l’aveva
vissuta personalmente. Questo confronto generazionale era naturalmente
scomodo perché, sviluppandosi, non avrebbe potuto non
ricordare quello che, tra guerre, bombardamenti e appropriazioni
di territori altrui, si continua a fare in molti paesi della
Terra, anche nel nostro presente. Sono quindi venuto in Germania
per studio e qui ho conosciuto i miei attuali colleghi di cooperativa
che sono Stefen Kreuzler, Oliver Grimm e Mathias Durchfeld dell’Istoreco
di Reggio Emilia i quali, all’epoca, cercavano giovani
guide a Berlino che potessero collaborare ai Viaggi della memoria
con i gruppi scolastici.
A quel punto, mi è sembrato importante approfittare di
questo lavoro per unire ai temi dell’arte e della memoria,
il mio essere omosessuale, perché io, se fossi vissuto
al tempo del nazismo e fossi stato imprigionato, probabilmente
sarei uscito dai campi attraverso i camini e non dalle porte,
proprio per appartenere a quella minoranza che i nazisti e i
fascisti volevano eliminare. Così, durante le miu visite
al campo di Sachsenhausen (che fu il campo nel quale furono
internati il maggior numero di omosessuali), racconto anche
tutti gli avvenimenti che, in breve tempo, portarono allo sterminio
degli omosessuali, delle lesbiche e delle transessuali.
Nel condurre le visite a Sachsenhausen ricordo però anche
a tutti, che la nostra comunità è sempre”a
rischio” perché, ancora oggi, in Italia non c’è
una società aperta alle minoranze anzi: è una
società settoriale e fortemente discriminatoria, e il
passato, come sappiamo, si può sempre ripetere. Pure
per questo motivo sono rimasto a vivere in Germania: proprio
qui dove avvennero i fatti terribili del nazismo, c’è
oggi una società molto disponibile al confronto con le
minoranze sessuali, basti pensare che non solo Berlino ha un
sindaco dichiaratamente gay, Klaus Wowereit, ma omosessuale
dichiarato è pure il ministro degli esteri e Vicecancelliere,
Guido Weterwelle. Con i miei amici, e anche grazie ai finanziamenti
pubblici del Land Berlino, fortemente interessato al
progetto “di memoria” che sottintendevamo, abbiamo
così fondato questa cooperativa di viaggi e studio. Ora
ho una conoscenza molto più dettagliata e approfondita
dei temi della discriminazione sessuale durante il nazismo,
ma non solo, e mi sembra una cosa molto importante cercare di
trasmetterla ai gruppi di studenti che arrivano dall’Italia
e che, come me allora, rimangono sbalorditi non solo dall’abomino
del nazionalsocialismo e delle deportazioni ma anche, nel confronto
con quanto vedono a Berlino, dell’assenza di memoria storica
che vivono nelle loro scuole e nella loro società. Le
scuole italiane, com’è tristemente noto, sembra
infatti che non trovino né il tempo né i finanziamenti
necessari per aiutare le giovani generazioni a confrontarsi
con la memoria e quindi a costruire una società più
attenta, come invece si fa in Germania dove, come dicevo, a
livello ministeriale, burocratico e politico, sono ormai anni
che lavorano con impegno per far conoscere la storia del Paese
e le sue tragedie.
Che
cos’è l’Istoreco
L’Istoreco, Istituto
è stato fondato a Reggio Emilia nel 1965. Istoreco
(www.istoreco.re.it),
associazione senza fini di lucro che raggruppa persone
fisiche, enti (comuni, province, ecc.) e associazioni
private, è impegnato in attività di ricerca
storica, di conservazione di documenti e di fondi privati
relativi ai temi storici di riferimento, di divulgazione
della storia contemporanea e, soprattutto, di tutela e
trasmissione della memoria con attività didattiche
rivolte alle scuole di ogni ordine e grado e ai docenti.
Tra le attività didattiche, Istoreco dedica molta
attenzione ai “Viaggi della memoria” che organizza
annualmente per studenti e docenti (ma non solo) portandoli
a visitare campi di concentramento in Germania e in Polonia
(i viaggi di quest’anno, ai quali hanno partecipato
circa 900 tra studenti e insegnanti, hanno avuto come
destinazione Cracovia e Auschwitz), e coinvolgendoli in
attività di studio seminariali.
L’Istituto è impegnato anche nella formazione
di giovani ricercatori in Italia e all’estero, con
particolare attenzione alla formazione di ricercatori
in Germania. La ricerca svolta è indirizzata allo
sviluppo degli studi sulla resistenza, sul nazifascismo,
sulle discriminazioni antisemite, sulla Shoah, nonché
sulle problematiche relative alla società contemporanea
(i movimenti migratori dall’Italia e verso l’Italia,
il multiculturalismo e i diritti di cittadinanza, identità
nazionali, le appartenenze locali, geografie politiche,
la globalizzazione ecc.). Istoreco svolge inoltre attività
editoriale pubblicando libri riguardanti le tematiche
storiche già citate e realizza mostre itineranti
sugli stessi temi. L’Istituto per la Storia della
Resistenza e della Società contemporanea è
diretto da un Comitato scientifico composto da storici
e studiosi (Carlo De Maria, Alberto Ferraboschi, Alessandra
Fontanesi, William Gambetta, Marzia Maccaferri, Andrea
Rapini, Toni Rovatti, Massimo Storchi). |
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