cultura
Un mondo allucinante
e disperato, a Mosca
Ammetto di essere stata attratta dallo pseudonimo dell'autore,
quando ho visto esposto questo romanzo (DJ Stalingrad, Esodo,
Roma 2012, pagg. 110, e 12,00 www.elliotedizioni.com)
tra le novità più interessanti della biblioteca comunale
del Parco Sempione di Milano. Stalingrado rievoca la vittoria
contro il nazifascismo che, in tempi in cui portiamo a casa
troppe sconfitte e perdiamo diritti duramente conquistati,
rincuora e incoraggia a combattere un nemico che ha solo
cambiato volto. Ma ricorda anche la bella canzone degli
Stormy Six, e quindi la giovinezza mia e quella di molti
di noi, e un tempo in cui abbiamo sperato di sconfiggerlo
definitivamente, questo mostro dalle mille teste. E che
un giovane anarchico moscovita abbia assunto il nome di
questa città come pseudonimo (Dj immagino si riferisca alla
sua attività di musicista), mi fa pensare a un filo rosso
che, nonostante tutto, non si spezza, e ci conduce nella
misteriosa e poco conosciuta Russia post sovietica.
Il romanzo getta una luce nuova ai più, raccontandoci una
realtà, e qui sta la sua grandezza, che non riguarda solo
la neo federazione, ma anche l'apparentemente più tranquilla
Europa, e per certi aspetti universale. Raccontato in prima
persona, narra le vicende di un giovane musicista, di cui
non compare mai il nome, e che dunque chiamerò P (Protagonista),
dalla sua prima esperienza appena adolescente al suo espatrio,
qualche anno dopo.
L'esordio consiste nell'omicidio gratuito di un ragazzo
perbene, che se ne gira tranquillo per strada, cui P riduce
la testa in poltiglia con un tubo di ferro “per vendicarmi
su questo frocetto di tutti quelli come me, imbecilli, dei
miserabili, dei malati … di tutti gli sfigati che
costituiscono una percentuale assurda della merdosa popolazione
del nostro paese”.
Ma già su questo punto l'autore ci mette in guardia nella
prefazione: “Hanno scritto tutti che si tratta di
un libro sulla ribellione contro la normalità … dov'è
che vedete la normalità in Russia? Per fare un esempio,
una parte dei miei amici è “normale” e una parte
no … la percentuale di chi è finito dentro è maggiore
tra i “normali”. Perché era la loro vita ad
essere anormale: più precisamente, brutta”. La violenza
sembra regnare ovunque: nelle bande giovanili che si scontrano
nel metro, nelle stazioni, ai concerti con ogni genere di
arma, cocci di bottiglia e pistole, pugnali e persino machete,
devastandosi reciprocamente i corpi, a volte fino alla morte;
ma anche negli ospedali, nelle carceri, nei cellulari della
polizia, nelle fabbriche.
Quello dipinto dall'autore è un mondo allucinante e disperato,
che ricorda alcuni romanzi e racconti di Philip Dick (per
chi non ricorda, autore dello splendido Le pecore elettriche
quando dormono sognano?, a cui si è ispirato un po'
troppo liberamente il film Blade Ranner). Su questa
umanità dolente, così come su se stesso, P getta uno sguardo
compassionevole, quasi evangelico; e i suoi amici Sergej,
Fedja, Kolja sarebbero potuti comparire tra i reietti cantati
da Fabrizio De André.
La cosa drammatica che emerge dal romanzo è che non c'è
speranza, che tutte le promesse dei neocapitalisti si sono
rivelate solo illusioni: “Tutto ciò che davvero bisogna
ottenere nella vita è non diventare barboni, invalidi o
pazzi dichiarati, e morire in maniera rapida e senza sofferenza”
è l'amara conclusione di P, che tuttavia troverà una via
d'uscita …. non vi dico quale per non privarvi del
piacere della scoperta e della lettura. La scrittura è essenziale,
ma ogni frase, ogni parola pesano.
Esodo è un romanzo atroce e commovente, bellissimo,
di quelli che dispiace quando si arriva all'ultima pagina,
e soprattutto che lasciano il segno. Dell'autore sappiamo
solo che è un musicista moscovita, autore di azioni-bliz
di matrice anarchica. Dopo la pubblicazione di Esodo
è dovuto fuggire dalla Russia, perché ricercato dalla polizia
(quanta paura può fare un piccolo romanzo!); attualmente
vive in Finlandia, dove ha chiesto asilo politico.
Sandra D'Alessandro
Attualità
di Carlo Pisacane
Da lunghi anni il lavoro di scrittura di Giuseppe Galzerano
fa il paio con quello di editore militante e coraggioso,
dedito a stampare volumi su moti rivoluzionari, teorie libertarie,
storie locali di movimenti politici, biografie di uomini
che hanno immolato la propria vita per la libertà. E bene
ha fatto il professore salernitano (vive nel Cilento, a
Casalvelino) a ristampare, dopo la prima edizione del 2002,
il tosto ed audace saggio La Rivoluzione (Galzerano
editore, Casalvelino Scalo . Sa – pagg. 420, euro
20,00). Il volume fu pubblicato per la prima volta a Milano,
tre anni dopo i tragici eventi della Spedizione di Sapri,
in cui Pisacane trovò la morte (era il 2 luglio del 1857)
per mano dei contadini di Sanza. Letto oggi ci aiuta a confutare
del tutto certe pittoresche costruzioni storiche sul tragico
moto di Pisacane e a spazzare la polvere del tempo sul pensiero
di uno degli artefici di quel processo unitario e risorgimentale
che doveva essere e che, purtroppo, non fu perché uscì vincente
poi la linea cavouriana e dei Savoia. Terzo libro dei “Saggi
storici-politici-militari sull'Italia”, “La
Rivoluzione” articola tutto il pensieroa narco-socialista
dell'ex-ufficiale delle milizie borboniche, il quale sposò
la causa di un' Italia unita che, però, escludesse il passaggio
da un governo all'altro, dalla monarchia dei Borboni a quella
dei Savoia. Il “fare l'Italia” con la rivoluzione
secondo Pisacane voleva dire portare i ceti più bassi alla
rivolta per liberarli dalla morsa delle ristrettezze e della
schiavitù, dai monopoli dei poteri, dai privilegi e dal
dominio dell'uomo sull'uomo.
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Carlo
Pisacane (Napoli, 22 agosto
1818-Sanza, 2 luglio 1857) |
Un'ardita testa pensante, un teorizzatore di altissimo
profilo fu Pisacane, che, però, non separerà mai la teoria
dalla prassi:credeva che quanto fosse racchiuso in un nucleo
teorico doveva trovar sfogo, inevitabilmente, nell'azione,
in un moto che “desse adito” al conflitto sociale.
Per quanto rispettoso delle posizioni di Mazzini ne prese
le distanze (anche perché avverso alla religione) e, tuttavia,
egli vedeva nella ribellione alla tirannia, nella rivoluzione
– che non poteva non avere in quell'epoca altro spiegamento
se non nel ricorso alle armi – l'unico strumento per
cambiare la Nazione e mettere le basi di una nuova società.
Una società in cui la libertà poteva avere un senso se trovava
gamba d'appoggio nell'affermazione dei principi di uguaglianza,
nel riscatto sociale di chi soffriva una condizione di schiavitù.
Cambiare il Paese è quello che voleva Pisacane, ma era necessario
rimuovere ( e qui viene fuori il perno del suo pensiero
libertario ) la gestione amministrativa del governo in quanto
espressione (istituzionale e codificata) di quel capitale
che sfruttava il lavoro e si arricchiva sulle “gravezze
pagate dai cittadini”. “Per Pisacane –
scrive Giuseppe Galzerano nell'introduzione – la soluzione
politica ai mali dell'autorità è l'abolizione del governo”,
ossia il trionfo dell'anarchia come unico modello di governo
giusto e sicuro. Di certo il pensiero di Pisacane nella
pagine della Rivoluzione appare datato, ma Galzerano nel
riproporre il saggio (nella stessa curatela di Aldo Romano
del 1957) ci permette riscoprire il primo teorico che nel
nostro Paese ha costruito un progetto di socialismo-libertario
su supporti teorici-scientifici.
“Carlo Pisacane rimane – annota ancora Galzerano
– uomo di primo piano nella storia politica e risorgimentale,
è lo specchio dell'Italia del suo tempo, nella sua biografia
si riflettono esigenze varie e multiformi, aspirazioni ed
impostazioni ideali del popolo e della società italiana”.
Mimmo Mastrangelo
Non
salviamo
il sistema!
Questo periodo di profonda delusione economica produce,
da tre anni a questa parte, un fiorire di opere che propongono
buone ricette per sconfiggere la crisi e riuscire a cavarsela!
Dopo spiegazioni spesso incisive della crisi, evidenziata
dalla follia dei subprimes negli Stati Uniti, in
generale arrivano i provvedimenti, le soluzioni o anche
i programmi chiavi in mano. Con Fine della finanza
(Donzelli Editore, Roma 2009, pp. 330) Massimo Amato e Lucca
Fantacci si pongono da una prospettiva del tutto diversa.
Essi, finalmente, si prendono il tempo di esplorare le cause
profonde della crisi, affrontandola dal punto di vista etico
e filosofico ed evidenziando che a essere in crisi è il
ruolo del denaro. Gli autori seguono un filo cronologico
per stabilire l'origine di questa crisi, partendo dal periodo
attuale per risalire fino al XVI secolo. Infine, nella terza
parte, Amato e Fantacci ristabiliscono il primato della
politica sula finanza: “È pensabile un'altra finanza?”.
Nella prima parte, “Fenomenologia”, gli autori
sono indotti dalla forza della crisi – e non da un
a priori ideologico – a constatare che l'attuale sistema
finanziario “fatto di elementi in perpetuo aggiustamento
fra loro, non ha altra stabilità che quella derivante dalle
frizioni fra i suoi componenti. In questo ‘sistema'
non c'è nessuna chiave di volta, e dunque nessun principio
architettonico rappresentabile come tale, e quindi nessuna
regola costruttiva, e quindi nessuna regola regolativa.
In questo sistema la regolamentazione è la deregolamentazione”.
Quest'ultima frase “non vuol dire che la finanza sia
un ‘Far West' popolato da balordi e briganti, e bisognoso
di sceriffi senza macchia e senza paura, ma che la regola
operativa del sistema finanziario è che ogni regola,
nella misura in cui è posta, tende a generare il
proprio superamento mediante il suo opposto”.
È proprio assumendo l'instabilità fondamentale di un simile
universo che Amato e Fantacci rispondono ai quesiti che,
in ultima analisi, sottendono a ogni riflessione sulla crisi.
Infatti il mercato è una “costruzione dogmatica”,
e non esiste altro modo di pensare il mercato che quello
di scoprire le regole che ne stanno alla base. Per questo,
essi rispondono a due domande: “Che cos'è propriamente
il credito?” e “Che cos'è propriamente la moneta?”.
Inizialmente la moneta era uno strumento al servizio dell'economia,
dello scambio tra esseri umani: “La moneta non è moneta
se non si riesce a far sì che circoli”. Attualmente
essa rappresenta un oggetto fondamentale della finanza,
una merce in sé, che si può accumulare all'infinito. Questa
spirale rimanda in continuazione il regolamento dei conti
– il pagamento e la chiusura dei debiti e dei crediti
– rinviando sempre a un momento successivo un'operazione
di azzeramento e trascinando il sistema in un non-senso,
il che si concretizza in crisi sempre più profonde. “Alla
luce di essa il capitalismo apparirebbe per quello che è:
un sistema di mercato, certo, ma che include, fra i mercati
anche ciò che potrebbe e dovrebbe restarne escluso, ossia
la moneta – e non per opzione morale o ideologica,
ma semplicemente perché la moneta, per poter essere al servizio
del credito, deve essere istituita in modo tale da non costituire
una merce.”
Gli autori sottolineano il paradosso costituito dalla situazione
e l'impossibilità fondamentale di risolvere la crisi: una
impossibilità etica. “E tuttavia, per quanto possa
procrastinarla indefinitamente, esso può propriamente abolire
la chiusura dei conti, semplicemente perché non può abolire
il tempo, la fine, e la morte. Se nessuno mai morisse, meglio:
se gli uomini non fossero dei mortali, ossia esseri finiti,
chiamati ad assumersi le loro responsabilità, questo modo
di organizzare le relazioni di debito e di credito sarebbe
davvero perfetto. Ma gli uomini muoiono, e proprio per questo
hanno una vita economica, in cui sono chiamati a vivere
del loro lavoro, e non di rendita; a pagare i propri debiti
e non a rendere impossibile il pagamento dei debiti altrui;
ad affrontare il rischio, e non a evitarlo; a pensare al
futuro, e non a scontarlo.”
La seconda parte dell'opera è altrettanto appassionante
e pertinente. Andiamo indietro nel tempo, risalendo dalla
situazione attuale alla radice delle decisioni che hanno
comportato altre decisioni... Se, in tal modo, andiamo alla
ricerca delle grandi tappe della costituzione della moneta
quale oggi la conosciamo (la decisione della non convertibilità
del dollaro in oro (1971), le scelte decisive di Bretton
Woods (1944), il gold standard... fino alla creazione della
Banca d'Inghilterra (1694) e anche prima), ecco delinearsi
davanti a noi una lunga catena storica che è prima di tutto
politica.
Nella terza parte, “Politica”, gli autori tornano
sull'attualità della crisi e aprono una prospettiva sul
futuro. Il sistema capitalistico vivrà continuamente delle
crisi, perché rifiuta di affrontare la base di fondo del
problema, cioè il fatto che la moneta è una merce. “[...]
quanto più la moneta-merce opera come fonte di fragilità
del sistema, tanto più questa stessa rappresentazione circola
come un'evidenza senza alternative”.
Ma questo è quanto hanno deciso i detentori del potere.
Per loro è meglio decidere di non decidere niente in materia
e lasciare che il sistema prosegua la sua corsa devastante
verso la prossima crisi – o forse, adesso che siamo
in piena crisi, verso la guerra? D'altro canto, questo caos
finisce per essere teorizzato. Così, in una nota (14, p.
235) gli autori citano la dottrina dell'efficient breach
of contract (violazione efficiente dei contratti). Questa
postula che “ogniqualvolta il vantaggio economico
che ho nel non mantenere la parola data in un contratto
superi la penale che devo pagare per non aver rispettato
le mie promesse, ho il ‘diritto' di non mantenerle”.
Non è forse questo a svelarci ciò che introduce caos nelle
nostre vite, dato che il Capitale detta in continuazione
regole che rispetta soltanto se gli servono, ma di cui si
fa beffe se lo ritiene vantaggioso? Se invece noi ci comportassimo
allo stesso modo, saremmo fuorilegge, super indebitati ecc.
Rimandare continuamente i pagamenti e lasciar lievitare
l'indebitamento degli Stati non significa agire per la pace.
Né fare la guerra. Noi viviamo in continuazione una “tregua”,
tra guerra e pace, e la finanza attuale non sceglie tra
l'una e l'altra – e dunque è pronta alla guerra.
Ma una guerra non sarebbe vantaggiosa per alcuno Stato,
anche se non è stato così per la seconda guerra mondiale,
poiché gli Stati Uniti speravano di trarne profitto. Attualmente
il commercio nel“villaggio globale” sembra più
interessante del conflitto aperto. I più importanti Stati
contemporanei non si fanno la guerra non certo perché sono
morali e progressisti. Ma perché sembra loro preferibile
la “seduzione economica”, la lotta mediante
strumenti economici e finanziari.
Gli anni e i decenni futuri sono e saranno cruciali per
la risoluzione o meno di questo problema fondamentale, che
condiziona la miseria di miliardi di individui, il loro
asservimento, e che rende possibile tutti i sistemi di dominio
di cui siamo vittime. Infine, questo saggio magistrale costituisce
un invito a prendere in mano il nostro destino in tutte
le sue dimensioni, ivi compresa la riflessione sulle cause
profonde, storiche e politiche, che hanno consentito alla
finanza di imporre le proprie regole al mondo. Vale a dire
la propria assenza di regole, da cui discende questo caos
etico quotidiano. Non salviamo il sistema che ci stritola!
Philippe Godard
(traduzione di Luisa Cortese)
Sfuggire
al regime
Che in Italia di cantare non ci sia più tanta voglia non
ce lo dimostra solo l'imbalsamata Sanremo “nazional-popolare”,
presso la quale ormai si aspetta una canzone dignitosa con
un testo audace (una Zebra a puàh?) quasi accendendo ceri
alla Madonna (non alla Ciccone, a quella mitologica).
La satira cantata poi è anche quella sempre più rara, tranne
qualche eccezione dialettale e tentativi televisivi improntati
su canzoni arcinote, come nel caso delle gag di Crozza o
dei videoclip della Sora Cesira, esilaranti e amari.
Un paese triste, rappresentato da uomini politici al Viagra,
pre o post Tavor, deprimenti e/o depressi, governanti Tecnici
o Techno governanti, RoboGov da pompe funebri il cui volto
è spesso rappresentato in fotomontaggi nell'abito di boia,
intenti ad ingrassare la corda.
E in questo scenario … una poesia pallosa, che più
non si può, dei cantastorie così mogi che al massimo ti
puoi imbattere in un Celestini, che ti imbambola e poi ti
butti a mare, o Paolini, che ti fa incazzare e alla fine,
pensandoci bene, ne hai le scatole piene di tutti questi
resoconti in prosa delle disgrazie storiche, prive di responsabili,
del tuo paese.
Ma insomma! Dov'è finita la poesia satirica e impegnata,
breve e tagliente, romantica e irriverente, dove sono i
cantastorie sanguigni che ti fanno venire voglia di restare
in piazza ad ascoltare, ridere, e soprattutto che invitano
alla ribellione? Dov'è la risata che “li seppellirà”?
no, perché qui la fossa l'hanno già pronta per noi, e senza
pensione, prima! E dove sono le rime? Non quelle da recita
ma quelle che danno il ritmo alla chitarra?
Riccardo Solari ci toglie questa nostalgia perché lui esiste,
e ci riesce, a scrivere e cantare la satira politica. Prova
ne è la sua raccolta Satirik. Rime per un regime
(ed. Archivio Germinal, Carrara, 2011. archivio.germinal@gmail.com
Copertina di Patrizia Diamante.
Illustrazioni di Teresa Opretti e Selene Bertagnini), della
quale Riccardo dà anche un saggio dal vivo se vi viene in
mente di invitarlo per le strade vostra città. A me è successo
di ascoltarlo, e sono andata in visibilio per la sua “Vedo
tonno”, sulla dispensa dei giorni difficili del cassaintegrato
opportunamente riempita di aiuti alimentari sempre uguali.
Rime impegnate nella politica (“Che ne sapete voi
di un'operaia/con l'occhio a fine mese, prima madre e poi
massaia/che ne sapete voi, col mondo al terzo piano,/ostaggio
della borsa di Milano/che ne sapete voi che invocate il
sacrificio/lontano dalle case nel bunker di un ufficio …)
ma anche rime che parlano di sensibilità e sentimenti (Presto
o tardi conosceremo/il padre sconfitto che diventeremo.)
La poesia sugli abruzzesi reduci dalla manifestazione a
Roma in cui sono stati picchiati (Con un piccolo passo),
quella sul mondo dell'informazione (Viaggio con bavaglio
e senza il bagaglio), quella sulla crisi (… ma all'estero,
da voi, cosa si vede?)… la raccolta di rime e canzoni
di Riccardo, col suo talento rustico e sfacciato, con il
suo rapido salire per la satira e scivolare nella poesia,
è un'opera di movimento e fa venir voglia di sentirsi più
vivi, ancora di più, e di uscire a cantare, a urlare, a
raccontare, perché quel regime di cui il titolo non ci stringa
più.
Francesca Palazzi Arduini
Senza
padroni/
il disco di Drowning Dog e dj Malatesta
La loro etichetta EK records ha fatto uscire fino ad oggi
21 lavori tutti autofinanziati con pochi dollari, i più
recenti; Senza Padroni in CD e State of abuse (compilation)
in venile e cd. E Drowning Dog Got no Time.
Il cd “Got no time”parla di come non abbiamo
tempo per le cose importanti della vita. Passiamo la maggior
parte del nostro tempo a lavorare sodo, arricchendo i padroni
e molto spesso producendo cose che nessuno vuole, mentre
poche persone tra noi hanno veramente la possibilità di
raggiungere il loro potenziale “saper fare”,
quindi Got no Time è un grido per l'eliminazione di tutti
i lavori inutili di cui non abbiamo bisogno nella nostra
società.
Altro disco importante è Mix tapes and cotton, questo sette
pollici racconta l'esperienza di essere attaccato dal KKK(Ku
Klux Klan) nel sudest della Florida, il tutto visto dagli
occhi di un bambino e del ruolo che il razzismo ha nei quartieri
dei lavoratori.
Ultimo disco una produzione ibrida registrata nel nuovo
studio di Dj Malatesta e Drowning Dog a Milano è Senza Padroni,
un album che non da tregua all'ascoltatore una canzone più
forte e incisiva dell'altra. A differenza di quello precedente
registrato a San Francisco Dj malatesta e Drowning dog hanno
avuto più tempo e si vede, il loro nuovo studio è dentro
la loro nuova casa Milanese nel popolare quartiere di via
Gola.
Questo nuovo album dispone anche di contributi di un paio
di altri produttori che aggiungono variazioni di stile.
Le parole dei testi di Senza padroni parlano di vita quotidiana,
potere, anticapitalismo, lotta di classe, rivoluzione sociale,
anarchismo, amore e morte.
I pezzi suggeriscono alcune possibili soluzioni ai nostri
problemi economici e sociali e lanciano una forte critica
alle nostre condizioni attuali, sottolineando l'importanza
del rifiuto di ogni autorità.
Il disco si può comprare a Milano al circolo dei malfattori
e alla libreria Utopia, è comunque ordinabile online scrivendo
alla mail ekbooking@gmail.com
oppure
http://drowningdogandmalatesta.bandcamp.com/album/senza-padroni
08. Eliminate The Position
They say it's lonely at the top
then get rid of it, rid of it
People sipping garbage
are sick of it, sick of it
Never learned to share
it's a give and take
not a rake and make
They're profiting off
some misery and torture
investing in this shit
and saying that it's order
We're pieces of cattle
written up in their business plan
They're holding the saddle
and we thrown in the pan
It's like “change” ‘yes we can'
I can't buy that bit
cause they still want cheap hands
to clean their shit
so we'll always be
underpaid and overworked
and that's our condition
until we decide to eliminate
that position.
|
Andrea Staid
Hai mai truffato
una banca?
Terra lungamente contesa dall'Impero coloniale spagnolo
e da quello portoghese, che ne rivendicarono vicendevolmente
la scoperta e la sovranità per più di 300 anni, l'attuale
Repubblica Orientale dell'Uruguay ottenne l'indipendenza
il 25 agosto del 1825. A conquistare quel prezioso baluardo
di libertà fu il celebre gruppo dei “Trenta y Tres
Orientales” guidato dall'Ufficiale Juan Antonio Lavalleja,
così passato alla storia perché formato da soli trentatré
uomini che al grido di Liberar la patria o morir por
ella il 19 agosto 1825 intrapresero quella “Cruzada
Libertadora” tesa a riscattare la Provincia Orientale
del neonato Stato brasiliano. Fu in quell'occasione che
venne realizzata la bandiera riportante l'iscrizione Libertà
o Morte, considerata uno dei simboli nazionali dell'identità
uruguaiana.
La conquista dell'indipendenza, tuttavia, non coincise affatto
con l'inizio di un periodo di stabilità interna; al contrario,
il paese restò in balia della lotta per il potere ingaggiata
dai due principali schieramenti politici, i Blancos
e i Colorados, formazioni partitiche che dovevano
il loro nome alle diverse tinte delle fasce indossate durante
la lunga guerra civile che li vide combattersi per quasi
l'intero secolo.
Con l'affermarsi del Partido Colorado al governo, la prima
metà del Novecento fu segnata da una forte spinta riformatrice
che portò l'Uruguay a livelli di sviluppo sociale ed economico
paragonabili solo a quelli delle più avanzate nazioni europee,
tanto da guadagnarsi la nomea di “Svizzera d'America”.
Importanti conquiste vennero realizzate sia sul piano dei
diritti civili (suffragio universale femminile; abolizione
della pena di morte; legge sul divorzio; scuola elementare
gratuita, laica e obbligatoria), che su quello dei diritti
del lavoro (giornata di 8 ore; divieto di lavorare per i
minori di 13 anni; riposo di 40 giorni per le donne incinte;
assicurazione antinfortunistica obbligatoria; piano pensionistico;
liquidazione), oltre che sul versante economico, dove furono
intrapresi provvedimenti che dal punto di vista finanziario
risultarono molto vantaggiosi, come la nazionalizzazione
delle due maggiori banche del paese e dei trasporti ferroviari.
In seguito alla fine della seconda guerra mondiale, nondimeno,
la drastica riduzione delle esportazioni di carne determinò
una forte crescita della disoccupazione e dell'inflazione,
rivelando una politica economica del tutto arretrata e ancora
troppo dipendente da pochi interessi vitali come quelli
della produzione, della conservazione e della distribuzione
della carne; mercato fondato su allevamenti estensivi e
industrie frigorifere che, nella maggior parte dei casi,
erano nelle mani di un ristretto gruppo di latifondisti
per di più vincolati alle alte classi dirigenti della capitale.
La crisi economica, sociale, e soprattutto politica che
ne derivò produsse una situazione di malcontento generale
che si tradusse in un aumento esponenziale del conflitto
sociale, raggiungendo livelli di tensione che ben presto
sarebbero sfociati nella violenza armata.
Risale al 1956 la fondazione della Federazione Anarchica
Uruguaiana (FAU); ai primi anni ‘60 quella del
Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T);
e rispettivamente al 1968 e al 1969 quella della Resistenza
Operaia e Studentesca (ROE) e dell'Organizzazione
Popolare Rivoluzionaria 33 (OPR33), entrambe bracci
della FAU: politica l'una, armata l'altra. Quest'ultima,
l'OPR33, balzò improvvisamente agli onori delle cronache
il 16 luglio del 1969 quando rivendicò il furto dal Museo
Storico Nazionale di Montevideo della bandiera originale
dei “Trenta y Tres Orientales”. Quell'antico
grido disperato di Libertà o Morte ritrovava così
nuova voce tra le genti dei quartieri più poveri di una
città che sembrava volersi concedere troppo facilmente al
gioco dei grandi profitti per pochi e delle briciole per
tutti gli altri.
La prima parte del libro di Augusto Andrés è divisa in cinque
ampi capitoli che prendono il nome da altrettanti protagonisti
della storia del movimento anarchico uruguaiano. Di ognuno
di essi viene tracciata una biografia essenziale, intima,
per nulla accademica o manualistica, che segue le orme delle
vicende e delle scelte più difficili e umanamente costose
delle loro vite. Ma il filo di ogni storia si intreccia
inevitabilmente con quello di tutte le altre per tessere
una preziosa tela della memoria che – maledizione
di Penelope – la notte del tempo, ma soprattutto la
voragine della dittatura con il suo carico di terrore e
morte, ha cercato in tutti i modi di disfare. Eppure, a
dispetto dell'angosciante necrologio che chiude le pagine
di questo libro, non abbiamo tra le mani le tristi cronache
del dolore di un sopravvissuto ma, al contrario, l'antologia
di una passione mai sconfitta, racconto di un'umanità altra
che è ancora viva nei ricordi e nei sogni dell'autore, protagonista
anch'egli di un tempo in cui utopia e Storia sembravano
tenersi per mano con la stessa autentica solidarietà che
unisce i diversi personaggi di queste vicende.
Persino la struttura narrativa del testo, in qualche modo,
segue il passo concitato dei ricordi affidando la cronologia
degli eventi alle suggestioni che di volta in volta la memoria
offre. Non ci si sorprenda, dunque, se il tempo dell'azione
si prodiga in generose acrobazie spostando improvvisamente
l'attenzione del lettore su avvenimenti a prima vista non
attinenti e lontani negli anni rispetto a quelli appena
trattati: ogni vicenda narrata, infatti, è l'istantanea
di un album infinito che l'eco del tempo sfoglia incessantemente.
Nondimeno, ognuna di queste vicende continua a far parte
di un'unica storia, un unico sogno di libertà come quello
realizzatosi nel 1971 a Punta Carretas quando, grazie ad
un lungo tunnel scavato dai Tupamaros, scapparono dal carcere
centosei prigionieri politici, anarchici compresi: un record
nella storia dell'evasione. Con il passare degli anni, poi,
molti di quei fuggiaschi avrebbero conquistato la fiducia
di gran parte della popolazione ottenendo conferme politiche
che fino a qualche tempo prima sarebbero state inimmaginabili.
È il caso ad esempio di José Mujica, ex guerrigliero dell'MLN-T
ed attuale presidente della Repubblica Uruguaiana. Ma il
segno dei tempi si rivela in tutta la sua originalità anche
nell'ultima peripezia che ha visto per protagonista il carcere
di Punta Carretas, trasformato nel 1994 in un immenso centro
commerciale.
Prima ancora, con l'avvento del colpo di stato di Juan M.
Bordaberry nel giugno del 1973, in tanti, tra anarchici,
comunisti, Tupamaros e dissidenti vari, avevano deciso di
espatriare in Argentina, nella vicina Buenos Aires, dove
avrebbero continuato la loro lotta per la giustizia sociale.
Nemmeno tre anni più tardi, però, anche l'Argentina sarebbe
caduta sotto il pugno di una feroce dittatura, e così, molti
di coloro che riuscirono a scampare alla dura repressione
che fu messa in atto dalla Giunta militare guidata da Jorge
R. Videla, scelsero nuovamente la via dell'esilio, questa
volta però trovando rifugio in Europa, soprattutto –
come l'autore – in Francia. Tanti altri, invece, e
tra questi anche alcuni dei protagonisti di queste pagine,
finirono in uno dei numerosi Centri Clandestini di Detenzione,
come quello ricavato nella sede della concessionaria “Orletti”,
dove più di 300 persone furono sequestrate e brutalmente
torturate nel quadro della famigerata “Operazione
Condor”. Della maggior parte di queste non si ebbe
mai più notizia e i loro nomi andarono ad aggiungersi a
quelli delle migliaia di desaparecidos latinoamericani.
Nella seconda parte del libro, dunque, Augusto Andrés ci
porta a Parigi, tra le diverse comunità in esilio, per raccontarci
un intervallo di tempo che va dal 1976 al 1985, anche se
non mancano brevi riferimenti alla guerra civile spagnola,
alla Comune o alla rivoluzione cubana. Protagonista assoluto,
qui, è Lucio Urtubia, che combatte la sua guerra nelle filiali
delle banche d'Europa – e non solo – con innocue
munizioni di carta: riproduzioni perfette di travellers
cheques americani. Un affare milionario con il quale finanzia
le più diverse organizzazioni del mondo: dall'ETA alle Black
Panthers, da Action Directe ai vari gruppi guerriglieri
sudamericani; Tupamaros e anarchici uruguaiani compresi.
È così che durante i primi anni '80 due tessere apparentemente
distanti di un puzzle sempre più complicato da decifrare
entrarono in contatto stabilendo nuovi sorprendenti intrecci
di cosmi, storie, sogni: utopie mai dimenticate che, come
il mondo nuovo di Durruti, abitano il cuore di ognuno
dei personaggi di queste vicende.
Raúl Zecca Castel
“Truffare
una banca...che piacere!
e altre storie”
di Augusto ‘Chacho' Andrés
pp.180 – 10,00 euro
È possibile truffare una delle banche più grandi della
storia di 25 milioni di dollari? È fattibile inondare
il pianeta con milioni di dollari falsi? Quando ci
fu la prima espropriazione ad una banca per fini politici
in Uruguay?
Questo libro racconta di fughe da carceri e caserme,
di assalti a banche, sequestri, truffe, falsificazioni
e storie di clandestinità. Sono storie senza frontiera
e si svolgono in tempi differenti tra Montevideo,
Buenos Aires e Parigi. Memorie di personaggi cari
che non sono ‘grandi uomini', bensì persone
semplici, di sentimento e passione, che in ogni fatto
nel quale sono protagonisti, esprimono parte di un
insieme e riflettono la società nella quale vivono.
Di umili origini agiscono in sintonia con la loro
appartenenza sociale. Sanno che quelli ‘di sotto'
non sono ‘eguali di fronte alla Legge'. Per
questo l'azione diretta, per loro, è una risposta
appropriata e naturale. Queste pagine ci avvicinano
ai personaggi, protagonisti della nostra Storia, che
sono stati occultati dai tanti libri della storia
recente. Sono vicende reali, storie politiche dei
dimenticati di sempre, di lavoratori, di anarchici,
in lotta permanente contro lo sfruttamento e l'oppressione.
Molti dei protagonisti di queste storie morirono affrontando
le forze repressive dello Stato, altri furono ‘desaparecidos'.
Richieste a:
Zero in Condotta
casella postale 17127 – MI 67 – 20128
Milano
e-mail: zic@zeroincondotta.org
– www.zeroincondotta.org
cell. 3771455118 |
Una
moderna,
solare Utopia
Naufragato sulle coste inaccessibili dell'immaginaria
isola di Pala, un viaggiatore del nostro tempo fa conoscenza
con una cultura che si avvicina alla perfezione. Gli abitanti
dell'isola (Aldous Huxley, L'isola, Oscar Mondadori),
infatti, quasi completamente isolati da ogni contatto con
l'esterno, hanno tentato di realizzare un progetto di società
ideale, basata sul superamento di ogni complesso, sull'ampliamento
della consapevolezza e sulla fusione armonica con la natura.
Ma anche questa moderna, solare Utopia è destinata a venire
travolta dalla barbara violenza della “civiltà”
moderna.
Potrete leggere passaggi come questi:
- Non è possibile conquistare il potere senza compromettersi.
- Antibiotici meravigliosi… ma assolutamente
nessun metodo per accrescere la resistenza, in modo che
gli antibiotici non siano necessari. Interventi chirurgici
fantastici… ma quando si tratta di insegnare alla
gente il modo di vivere senza essere squartati, assolutamente
niente. Ed è la stessa cosa sotto ogni altro aspetto. (…)
sembra che voi non facciate assolutamente niente nel campo
preventivo. Eppure avete un proverbio: prevenire è meglio
che guarire.
- (…) milioni di uomini alla mercé di poche
decine di uomini politici, di alcune migliaia di capitani
d'industria, di generali e di usurai.
- (…) la vostra società vi condanna a trascorrere
la fanciullezza in una famiglia esclusivistica, con un'unica
serie di fratelli e sorelle e una sola coppia di genitori.
Vi vengono imposti dalla predestinazione ereditaria. Non
potete liberarvene, non potete prendervi una vacanza lontano
da loro, non potete recarvi presso nessun altro per un
cambiamento di atmosfera morale o psicologica. È libertà,
se proprio vuole… ma libertà in una cabina telefonica.
- (…) che cos'è la storia… la documentazione
di ciò che gli esseri umani sono stai costretti a fare
dalla loro ignoranza e dall'enorme presunzione che li
induce a canonizzare la propria ignoranza come un dogma
politico o religioso.
- L'elettricità meno l'industria pesante più il
controllo delle nascite è uguale alla democrazia e all'abbondanza.
L'elettricità più l'industria pesante meno il controllo
delle nascite è uguale alla miseria, al totalitarismo e
alla guerra.
- Noi non ci facciamo indurire le coronarie ingozzandoci
di una quantità di grassi superconcentrati sei volte superiore
al necessario. Non ipnotizziamo noi stessi convincendoci
che due televisori ci renderanno due volte più felici di
un solo televisore. E infine, non spendiamo un quarto del
reddito lordo nazionale preparandoci alla terza guerra mondiale,
o anche alla sorellina della guerra mondiale, la tremiladuecentotrentatreesima
guerra locale. Gli armamenti, l'indebitamento universale
e lo scarto pianificato dei prodotti superati: sono questi
i tre pilastri della prosperità occidentale. Se la guerra,
lo spreco e gli usurai venissero aboliti, voi crollereste.
E mentre voi occidentali consumate in eccesso, il resto
del mondo affonda sempre più profondamente nel disastro
cronico.
- (…) rimasi scandalizzato la prima volta
che lessi uno dei vostri giornali a grande tiratura. La
parzialità dei titoli, la sistematica unilateralità delle
notizie e dei commenti, le parole d'ordine e gli slogan
invece dei ragionamenti. Nessun serio appello alla ragione.
E, invece, il tentativo sistematico di inculcare riflessi
condizionati nella mente dei votanti; mentre – per
quanto concerne il resto – abbondavano i delitti,
i divorzi, gli aneddoti, le banalità, tutto ciò che potesse
essere utile a distrarre i lettori, tutto ciò che potesse
servire a impedir loro di pensare.
- (…) la delinquenza viene tuttora affidata
agli ecclesiastici, ai lavoratori sociali e alla polizia.
Prediche interminabili e terapia palliativa; condanne al
carcere a non finire. Con quali risultati? La delinquenza
non fa che aumentare.
- Hitler è l'esempio supremo del Peter Pan delinquente.
Stalin è l'esempio supremo dell'uomo tutto muscoli delinquente.
- (…) tutti gli dei sono immaginati dall'uomo
e siamo noi a tirare i fili e ad attribuire loro il potere
di tirare i nostri.
- La gente agiata e per bene non ha idea di ciò che
sia il mondo e non soltanto in circostanze eccezionali
come fu durante la guerra, ma sempre. Sempre.
- Il credere nella vita eterna non ha mai aiutato
nessuno a vivere nell'eternità. Né, s'intende, il non
credere.
- E sempre, dappertutto, vi sarebbero stati gli ipnotizzatori
urlanti o silenziosamente autoritari; e sulla scia dei
distributori di suggestioni al potere, sempre e dappertutto,
le tribù dei buffoni e dei trafficanti, i mentitori di
professione, i fornitori di trivialità divertenti. Condizionate
dalla culla, distratte senza posa, ipnotizzate sistematicamente,
le loro vittime in uniforme avrebbero continuato a marciare
ubbidienti e a fare dietro front; avrebbero continuato,
sempre e dappertutto, a uccidere e a morire con la docilità
perfetta di barboncini ammaestrati.
Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Scritto nel
periodo in cui l'autore stava realizzando esperimenti con
la Mescalina, “L'isola”, nel suo duplice aspetto
di romanzo e di saggio, si presenta come una lucida e stimolante
realtà possibile, in netta contrapposizione al suo precedente
romanzo “Il mondo nuovo”, nel quale il futuro
era invece rappresentato nella sua drammatica conflittualità
tra dilemmi sociali ed esistenziali.
Marco Sommariva
marco.sommariva1@tin.it
I gangster movie di Scorsese:
riscatto sociale con revolver?
Nei film di mafia di Martin Scorsese Quei Bravi Ragazzi
(Goodfellas, 1990), Casino (1995) e The
Departed (2006) sono presenti costanti riferimenti alle
origini umili, working class o sotto-working class, dei
protagonisti.
In Casino Joe Pesci, introducendo il racconto delle
vicende legate al casinò Tangiers di Las Vegas –
gallina dalle uova d'oro per parecchi boss del Midwest dagli
anni Cinquanta agli Ottanta – dice che “quella
fu l'ultima volta che a dei ragazzi di strada come noi venne
dato da gestire qualcosa di grosso”.
In Quei Bravi Ragazzi Ray Liotta è il figlio futuro
gangster di un muratore irlandese e una casalinga siciliana.
Il padre “era sempre incazzato, perché prendeva una
paga da fame, perché vivevamo in sette in un buco, etc.”.
Inseritosi nell'ambiente della bellavita mafiosa, il figlio
dileggerà apertamente il modo di vivere di quelli (come
suo padre) “che prendevano la metro tutti i giorni
per andare a fare lavori di merda, sempre preoccupati per
i conti da pagare, etc.” liquidandoli come “gente
senza palle”.
In The Departed, dove il sottobosco criminale narrato
non è più quello italiano di New York ma quello irlandese
di Boston, Jack Nicholson dichiara in apertura di non voler
essere un prodotto del suo ambiente, ma piuttosto che il
suo ambiente sia prodotto da lui stesso, dichiarazione d'intenti
che potremmo trovare quasi rivoluzionaria, se non fosse
che l'alternativa di vita mostrata da questo e dagli altri
mafia movies scorsesiani prevede sì la ribellione
violenta al proprio destino di classe (il lavoro salariato,
lo sfruttamento), ma nel quadro dell'accettazione degli
obiettivi culturalmente sanciti come desiderabili dal sistema,
ovvero sostanzialmente denaro e potere.
In queste pellicole siamo di fronte a rappresentazioni di
quel percorso sociale definito “devianza” in
quanto i mezzi utilizzati per raggiungere l'obiettivo (rapine,
omicidi, etc.) sono socialmente, e quindi giuridicamente,
condannati, ma le mete culturali perseguite sono perfettamente
in sintonia con l'ideologia dominante.
Il gangster dunque come self-made man che realizza
il suo “sogno americano” e che quindi, pur partendo
da presupposti di ribellione, finisce per confermare con
la sua stessa esistenza la pervasività e in ultima analisi
la vittoria a livello di immaginario dell'establishment.
Nella loro mimesi dei meccanismi e dei presupposti valoriali
del sistema (violenza endemica, gerarchia, competizione)
i mafiosi scorsesiani si trovano comunque sempre costretti
in una nicchia, circondati da barriere di carattere etnico
(l'essere italiani o irlandesi) che finiscono con il riprodurre
perpetrando atteggiamenti razzisti (nei confronti dei neri
e degli ebrei, per esempio), ovvero individuando un altro
su cui esercitare dominio.
E nei confronti di quella società wasp, bianca anglosassone
protestante, in cui questi malavitosi cercano di emergere,
c'è sempre un astio latente derivante dalla coscienza di
essere nati in una posizione di subordine (il ghetto italiano
o irlandese), che qua e là emerge anche quando i nostri
si sono affermati (o credono di essersi affermati).
Lo si vede in Casino nello scontro tra Robert De
Niro – gestore di casinò a Las Vegas per conto della
mafia – e il commissario della contea di Las Vegas
Pat Webb – cowboy con tanto di stivaloni e cappellaccio
– personificazione di quella società wasp assai
restia ad accettare l'ingresso degli italians dell'est
e del loro faccendiere ebreo De Niro nel suo “salotto
buono”.
Lo si percepisce anche nell'autoisolamento in cui si confina
la “società mafiosa” di Quei Bravi Ragazzi
– “eravamo sempre e solo noi, tutte le vacanze
insieme, mai nessun estraneo” – o negli sfottò
del boss psicopatico Frank Costello (Jack Nicholson) nei
confronti di quella che a Boston è un'autorità indiscussa,
la Chiesa cattolica – “la chiesa ti dice cosa
devi fare, in ginocchio, in piedi... beh, se ti piace quel
tipo di cose, non so che fare per te”.
La contraddizione fondamentale di cui i protagonisti di
queste pellicole sono vittime è l'anelito al successo in
un ordine socio-culturale disprezzato nel proprio subconscio
in quanto artefice di quelle condizioni di marginalità in
cui i nostri sono nati.
Quell'ordine non viene problematizzato sul piano, appunto,
di una presa di coscienza di sé e delle cause strutturali
della propria originaria marginalità, e viene quindi perpetuato
a livello di immaginario individuale e di gruppo sotto-culturale,
cioè la mafia, che esattamente come lo Stato mira al controllo
del territorio e delle coscienze.
Michele Lembo
La
fascinazione
dell'inganno
“La fantasia al potere” è uno slogan che conoscono
tutti. Non tutti, però, sanno che lo conosceva anche Napoleone,
anzi, che molto probabilmente fu proprio lui a coniarlo.
Nella Milano che ha conquistato, il 17 giugno del 1800 il
“primo console” Bonaparte viene riconosciuto
da un gruppo di prigionieri ungheresi e tedeschi che lo
acclamano colmi d'ammirazione. Così annota: «Quanto è grande
il potere della fantasia! Ecco uomini che non mi conoscono,
che non mi avevano mai visto, che avevano soltanto sentito
parlare di me; tuttavia che cosa non provano, che cosa non
sarebbero in grado di fare per me! E lo stesso fenomeno
si rinnova in tutte le età, in tutti i paesi, in tutti i
secoli!... Ecco il fanatismo! Sì, la fantasia governa il
mondo!».
Uomini che non lo hanno mai visto, che solo ne hanno sentito
parlare come condottiero nemico geniale e invincibile, inneggiano
al futuro imperatore che – ma a questo punto sembra
cosa marginale – è poi quello che ha fatto serrare
loro i ceppi ai polsi. Nella favola di Andersen, uomini
e donne festanti rimangono a bocca aperta di fronte al meraviglioso
vestito dell'imperatore, che poi è quello che li comanda
da sempre. E, davvero, è cosa marginale che, in realtà,
quell'imperatore sia portato in parata nudo come un verme.
È la fantasia che lo riveste, la fantasia che governa il
mondo.
Nell'ultimo libro di Roberto Escobar (Eroi della politica.
Storie di re, capi e fondatori, Il Mulino, Bologna,
2012) di fantasia ce n'è tanta. Non nel senso che Escobar
faccia correre la propria, ma nel senso che l'autore traccia
una dettagliata e approfondita storia della fantasia al
potere, di quella fantasia che fa il potere e di
quella fantasia che il potere mantiene e rinsalda. L'eroe,
specie l'eroe fondatore, è “uomo eccezionale”,
ma la sua eccezionalità – il suo carisma, seguendo
Max Weber, non è nulla se non appare tale agli altri, a
coloro che lo seguono come a coloro che lo combattono. Weber
sosteneva che nel carisma vi fosse, in fondo, qualcosa di
magico. Ma forse non è necessaria la magia, perché l'immaginazione,
specie se incanalata e alimentata, è spesso più potente
di qualsiasi sortilegio.
Non tutti gli “eroi della politica” dei quali
ci racconta questo libro sono eroi in carne e ossa. Lo è
certo Napoleone; certo non lo è Prospero, il duca di Milano
fuggiasco della Tempesta di Shakespeare, non lo è
Odisseo ed è assai facile che non lo sia neppure Romolo,
il fondatore per eccellenza perché della Città Eterna. Ma
non importa essere veriper essere reali, come scriveva Robert
Nozick ormai trent'anni fa, e si può fare in modo di essere
più reali senza, per questo, diventare più veri.
Ciò vale a maggior ragione per gli eroi, “le persone
eccezionali” (Elias) rispetto alle quali il “si
dice” e il “si racconta” finiscono per
valere quanto l'aver visto con i propri occhi e l'aver appreso
da fonte certa. Questo è il tratto più eccezionale della
loro eccezionalità: veri o no, essi vivono nell'immaginario
prima ancora che nel mondo dei piedi per terra, e proprio
per questo quel mondo mette a terra anche le ginocchia
dinanzi a loro, domato e addomesticato dalla sua stessa
fantasia.
In questo senso, allora, non è poi così tanto reale neppure
il molto vero Napoleone. Ma poco importa, e tanto peggio
per il mondo reale.
L'eroico Napoleone venerato dagli stessi soldati –
questa volta: i suoi soldati – che, si dice
(ma forse pure questo è apocrifo), si vanta di potersi permettere
di mandare al macello a decine di migliaia al giorno; l'eroico
e altrettanto venerato Romolo, che fonda la città sull'inganno
e costruisce il proprio popolo sulle fondamenta del fratricidio,
del rapimento, dello stupro; ma anche l'eroico Giuseppe
Flavio, che nella Guerra giuda i casi compiace dell'inganno
con il quale fa uccidere l'un l'altro i suoi in un suicidio
collettivo e sottrae poi se stesso alla morte che aveva
loro promesso di darsi, per presentarsi ai romani come mediatore
amico; o come l'eccezionale Roi Soleil, che incatena
la propria più banale quotidianità – svegliarsi, lavarsi,
vestirsi, sorbire il caffellatte – in un rituale d'onore
al quale, onorati, partecipano in gruppi dalle entrate scandite
(chi assiste al risveglio, chi alla vestizione, chi allaccia
la manica destra e chi la sinistra, chi guarda il re mentre
fa colazione, e così via) nobili, notabili, figli e parenti.
Che cosa c'è di eccezionale in quest'ultimo banale quotidiano?
C'è il medesimo eccezionale che fa inorridire Odisseo di
fronte alle mostruosità che vede nella caverna del ciclope
– latte, formaggio, tinozze di siero: gli stessi oggetti
della capanna di ogni pastore greco – e cioè il fatto
che l'altro, l'eccezionalmente diverso da noi faccia
le stesse cose che facciamo noi, i normali.
Come scriveva il saggio imperatore Giuliano, la finzione
è in fondo quasi sempre nota, ma “tutti partecipano
alla fascinazione dell'inganno”. Napoleone è il paladino
dei soldati che (abbia o meno pronunciato quelle parole)
manda al massacro, eppure nessuno di loro ignora la realtà
della carneficina. Giuseppe stesso racconta del proprio
vile inganno omicida, eppure proprio per questo si
presenta come uomo probo. Non c'è limite alla potenza dell'inganno,
e trattandosi di immaginazione, di “fascinazione”,
non c'è neppure il limite del principio di contraddizione,
della ragionevolezza, della plausibilità.
Sull'altopiano, in avanscoperta dietro le linee nemiche,
Emilio Lussu, guadagna un controcampo e scopre sconcertato
quello che aveva sempre saputo ma al quale non aveva mai
davvero pensato, cioè che i soldati austriaci quando non
combattono si lavano, si fanno la barba, fumano e giocano
a carte, proprio come i soldati italiani perché, in definitiva,
non c'è molto di più che la divisa a differenziarli gli
uni dagli altri. Odisseo, i nobili e i notabili di Francia
hanno il privilegio dello stesso controcampo, ma ne ricavano,
al contrario, la percezione di un'accresciuta eccezionalità,
quella del diverso (mostruoso il ciclope, meraviglioso il
Re Sole) che, per estrema eccentricità, non fa quelle cose
diverse che dovrebbe fare ma fa ciò che facciamo
noi, i normali: munge le pecore o si alza dal letto mezzo
addormentato.
Che cosa c'è, allora, di tanto eccezionale in questi uomini
eccezionali? In fondo niente, se non che essi sono creduti
tali. Napoleone ha fondato un impero, per quanto di breve
durata, e questa non è certo cosa che ciascuno di noi ha
mai fatto nel quotidiano. Eppure – e qui siamo in
un'altra finzione, quella cinematografica dei Vestiti
nuovi dell'imperatore – fuggito da Sant'Elena,
nonostante passeggi impettito di fronte all'Eliseo, non
lo riconosce nessuno, perché è tornato a essere soltanto
un ometto corso.
Gli eroi come maestri dell'inganno, dunque. Maestri come
Giuseppe Flavio e come Romolo, ma anche come Nelson Mandela,
che ingannava dal carcere i suoi intessendo trattative di
dialogo segrete con il governo dell'apartheid, certo
che sia compito di un leader fare quello che i suoi
non vorrebbero mai e poi mai che venga fatto se ciò consiste
in azioni delle quali lui, diversamente da loro, riesce
a vedere l'utilità e l'urgenza. O maestri dell'inganno come
Sisifo, che riesce a buggerare per due volte gli dèi –
perfino Thanatos, la morte stessa – ricavandone una
volta la fondazione di una città (l'acropoli di Corinto)
e una volta stravolgendo il corso della natura incatenando
la morte agli stessi ceppi che erano pronti per lui negli
inferi, così che, sia pur per poco tempo, gli dèi divennero
meno diversi dagli uomini, divenuti immortali anch'essi.
Alla fine gli eroi muoiono, come gli altri. Muore Artù,
muore Napoleone, muore Beowulf, l'uccisore di orchi divenuto
re saggio, e muore Sisifo. La vendetta divina è nota: per
l'eternità Sisifo sospingerà un masso su per una ripida
china, con il solo risultato di farlo cadere dallo strapiombo
dietro alla vetta, vederlo rotolare ai piedi del monte e
dover ricominciare da capo. La vendetta è davvero diabolica
e raffinata: tu che in vita hai costruito, da morto sei
condannato a lavorare senza costruire nulla. Tuttavia, nemmeno
questa vendetta, per quanto divina, è perfetta. Anzi, essa
offre a Sisifo una nuova occasione. Mollato il masso, sporco
di sudore e di polvere, Sisifo deve torna a valle sgombro,
una volta dopo l'altra. E per l'eternità, libero dal fardello,
bestemmia e maledice gli stessi dèi che magari ha invocato
durante la fatica inumana della salita. E forse non bastandogli
quelli che ci sono ne inventa di nuovi ogni volta, perché
l'ingannatore degli dèi non può non avere “indole
di bestemmiatore d'ogni cielo e d'ogni assoluto”.
Gli eroi fondatori o difensori dell'ordine che già c'è sono
gli eroi normali, e nella loro normalità, tolta la finzione
e tolto l'artificio, c'è davvero qualcosa di poco eroico.
L'eroe eccezionale, che alla fine è il solo che possa essere
detto eroe, è quello che, una volta dopo l'altra, ricomincia.
Persio Tincani
Voce
libertaria
compie 5 anni
Riproduciamo lo scritto di un membro del collettivo
redazionale del periodico anarchico ticinese “Voce
libertaria”, apparso sull'ultimo numero. Si tratta
di una vivace pubblicazione che merita di essere conosciuta
e sostenuta. Magari anche abbonandosi (in coda allo scritto
i dati per farlo).
Questo Primo maggio 2012 il nostro periodico anarchico compie
i suoi primi cinque anni. Era proprio nella giornata dei
lavoratori e delle lavoratrici del 2007 che questa testata
ha iniziato a farsi conoscere. In cinque anni, progressivamente,
il giornale ha aumentato i suoi abbonati, ha un sito internet
dove si possono trovare tutte le annate, ha promosso degli
incontri libertari su varie tematiche legate al nostro movimento.
Insieme alla costanza, alla regolarità delle quattro pubblicazioni
annue, tutte le compagne ed i compagni della nostra regione
lo hanno sfogliato, letto, diffuso, apprezzato o criticato.
Anche oltre Gottardo e in Italia, in diversi circoli anarchici
è conosciuto.
Apprezzato e criticato, inutile dirlo, è normale per un
giornale ed è forse ancora più “normale” per
un periodico anarchico, con una redazione composta da sette
persone – purtroppo in maggioranza uomini e solo una
donna – con sensibilità, interessi, età diverse, ma
con la convinzione che ciò può essere una ricchezza e non
un limite.
Chi ci legge sa che Voce libertaria è una pubblicazione
plurale, con articoli di vario genere. Dall'esito di una
manifestazione, alla storia e teoria dell'anarchismo a opinioni
personali che non per forza rispecchiano il pensiero dei
singoli redattori ma che la redazione tutta, dopo una valutazione,
decide di pubblicare perché considerati interessanti, eventualmente
anche per innescare un dibattito. La varietà degli articoli
proposti rispecchia l'eterogeneità, oltre che degli interessi
del gruppo redazionale e della cerchia dei collaboratori,
anche dell'antagonismo in Ticino e delle sue lotte e speranze,
quindi è inevitabile che gli articoli pubblicati in questi
cinque anni siano vari, interessanti, criticabili, originali,
a volte contraddittori tra loro.
Personalmente ho sempre concepito il nostro periodico per
un pubblico non anarchico, vario, più o meno giovane ed
incuriosito positivamente dall'anarchismo, e oltre a ciò
credo che dovrebbe essere anche uno strumento di riflessione
che possa interessare a tutte le compagne ed i compagni
che nella nostra regione sono attive/i in gruppi che prediligono
l'azione diretta, l'auto-organizzazione per dei fini anche
parziali ma comunque animati dal desiderio di giustizia
sociale.
L'anarchismo sicuramente non lo si fa semplicemente con
un giornale e credo che le anarchiche e gli anarchici, nel
caso la situazione lo richiedesse, debbano concentrarsi
su cio che è più importante: agire concretamente nel contesto
dove è auspicabile la loro presenza. Il periodico, in generale
tutta la nostra stampa è per noi un mezzo, non un fine.
Oggi, a mio avviso, è importante far conoscere il pensiero
e l'azione libertaria, riflettere su come si potrebbe farla
finita con la società gerarchica, del dominio, e come poter
costruire una società dove la libertà dell'individuo venga
garantita dall'uguaglianza e dalla libertà di tutte e tutti,
senza sfruttati né sfruttatori, stati, chiese, banche, e
tutto ciò che oggi rende schiava la maggioranza della popolazione
mondiale. Retorica? Beh, continuare a credere nella bontà
dell'azione parlamentare, della delega, in un mondo dominato
dalla finanza, dalla corruzione, dalla devastazione sociale
ed ambientale, questa sì che è una pia illusione.
La storia dell'emancipazione umana ci mostra che è solo
con la lotta, l'azione diretta e la volontà di affrancarsi
dall'ingiustizia che realmente possiamo spezzare le catene
– una volta e per tutte – per una società egualitaria
e libertaria.
D.B.
Voce
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Voce libertaria è pubblicato da anarchiche e anarchici
in Ticino. Esce quattro volte l'anno per diffondere
l'idea anarchica, riflessioni e azioni libertarie.
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Prove
concrete
di organizzazione orizzontale
Capita di trovarsi tra le mani l'ultimo 7” del Kalashnikov
Collective, eclettico collettivo milanese che da più di
un decennio allieta gli squat italici.
Vampirizzati oggi: quattro canzoni che parlano di
morte quotidiana e di speranza di riscossa. Dell'alienazione
che avanza, iniettata nelle vene umane da un modo di vivere
che mette sopra ogni altra cosa la corsa al profitto, una
spoglia mosca cieca il cui premio è la sopravvivenza. Di
lavoro che, nato come mezzo, diventa fine (senza fine) che
assorbe e annichilisce. Mentre per un altro giorno, per
un altro giorno ancora, si arriva al domani per inerzia,
anche se il futuro non riserva un granchè. Mentre il lavoro,
l'istituto scolastico che diventa suo precursore, con la
stessa dinamica asettica dell'allevamento intensivo, del
carcere, del manicomio, del lager, dello stabulario vivisettorio,
tagliano il legame fra la possibile utilità di un'azione
e la mansione concreta che invece ci si ritrova costretti
a svolgere, fra la possibilità creativa e la lobotomizzazione
forzata, “perchè farsi troppe domande rende meno competitivi
sul mercato”.
E sono solo orde, orde di morti viventi che marciano verso
le bocche del forno crematorio perchè è stato detto loro
che va bene così, che lacrime e sangue saranno il prezzo
da pagare. Non si accorgono di quel che è sepolto negli
occhi del vicino: ormai è solo un avversario nella corsa.
Corrono, corrono per arrivare primi, o forse perchè per
fermarsi è troppo tardi, corrono perchè se tutti intorno
a loro stanno correndo un motivo pure ci sarà – quale
non è chiaro. Corrono, corrono, e al traguardo non trovano
ad aspettarli altro che una tomba vuota con il loro nome
scritto sopra.
Se nel più vecchio Dreams for super-defeated heroes
i protagonisti erano supereroi strappati al loro mondo di
cellulosa e costretti ad affrontare la dura realtà, in Vampirizzati
Oggi al centro dell'obiettivo ci sono coloro che si
oppongono, in un modo o nell'altro, all'oscura magia che
sta trasformando ogni persona si trovi loro attorno in un
morto vivente. Formiche che cercano di resistere alla vampirizzazione
delle loro vite. Si nascondono negli anfratti del tempo
e dello spazio, fuggono verso Croatan o cercano di creare
una effimera zona autonoma, la notte escono allo scoperto
per ballare ritmi di vendetta, scandendo le ragioni della
loro estraneità. Come scoiattoli si arrampicano con un sasso
fra le mani fin sulle pareti delle fabbriche di morte, confidando
che quel semplice ordigno possa incepparne i meccanismi,
che continuano incessantemente nel frantumare le ossa dei
padri e dei figli. Sono solo formiche e scoiattoli, ed è
qui che sta la loro forza.
È
un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi
sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo
affrontiamo questa realtà? E…quanti di noi lo sanno?
Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure
può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo
che solo poche persone si rendano conto di tutto questo.
Persone isolate, qua e là. Ma le masse…che cosa pensano?
Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città.
Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure
intravedono, intuiscono in qualche modo la verità? Ma, pensò,
che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale.
E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che
cos'è? È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È
la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza
degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno
agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno
ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo
sento, lo intuisco, ma…sono volutamente crudeli…è
quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire
il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c'è
di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista
dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come
lo è stata la loro conquista dell'Africa, e prima ancora
dell'Europa e dell'Asia. [...] Quello che non comprendono
è l'impotenza dell'uomo. Io sono debole, piccolo, senza
la minima importanza per l'universo. L'universo non si accorge
di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve
essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro
di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla
gelosia di chi è grande. (La svastica sul sole, Philip K.
Dick)
Un disco che abbandona lo slogan per tentare di sussurrare
all'orecchio parole che insinuino il dubbio, al ritmo di
ballate post-industriali. Coerenza fra fini e mezzi, scardinamento
della concezione dell'artista come eletto, o come idolo
da inseguire: l'arte ritorna ad essere pure urgenza esistenziale;
la musica va al di là dei clichè di genere, così da potersi
focalizzare sul contenuto e sul modo migliore per veicolarlo.
Rifiuto delle logiche commerciali in favore di un'autoproduzione
vista in primo luogo come necessità di riappropriarsi della
propria vita, di non delegare la propria capacità creativa
a terzi ma di usarla invece come trampolino di lancio per
la creazione di nuove relazioni umane.
Poi ti capita di assistere ad un loro concerto, coinvolgente
come pochi. E, quando tutto è finito, di avvicinarti al
banchetto della distro: cd, vinili, fanzines e libri, con
a fianco una cassetta per le donazioni. Prezzo libero. Completa
fiducia nei confronti dei ragazzi (di ogni età) che sono
andati a incontrarli. E la cosa bella – la cosa che
ti colpisce – è che, di fronte ad una distro incustodita
con un cartello che invita a lasciare quel che si può/vuole
(sia questo denaro o un altro oggetto di scambio) si vede
comunque la gente capire il legame di reciproca fiducia
e rispetto che questa visione sottende e non approfittare
della situazione. Come dire, prove concrete di organizzazione
orizzontale. Ed è qui, in queste “piccole” cose
– piuttosto che nella (straordinaria) musica in sé
– che va forse cercato un senso in quello che i ragazzi
del Collettivo portano avanti.
Valentino Giorgio Rettore
Una
religione
senza le religioni
È da poco uscito il volume No man's land. Elogio
e critica del religioso contemporaneo (presso l'editore
Ipoc di Milano) del nostro collaboratore Federico Battistutta,
il quale sulle pagine di “A/Rivista anarchica”
si è spesso occupato di tematiche connesse all'anarchismo
religioso. Nel testo in questione si riprendono e si approfondiscono
tali argomenti, anche attraverso un confronto/scontro con
alcuni autori moderni e contemporanei appartenenti a campi
del sapere e a coordinate culturali assai diverse: da Raimon
Panikkar a Raoul Vaneigem, da Tolstoj a Simone Weil, da
Martin Buber a Ferdinando Tartaglia e a Peter Lamborn Wilson
(alias Hakim Bey), da Luce Irigaray a Jiddu Krishnamurti,
per citarne qui solo alcuni.
Di seguito pubblichiamo la prima parte dell'introduzione.
Per ulteriori informazioni rimandiamo al sito dell'editore
www.ipocpress.it
dove è possibile visionare, oltre alla versione integrale
dell'introduzione, l'inizio del primo capitolo, la bibliografia
utilizzata e altro materiale ancora.
Iniziamo con un racconto. C'è un aneddoto che si narra riguardo
a Wittgenstein. Lo riferisce un amico di lunga data del
filosofo austriaco. Siamo agli inizi degli anni Trenta,
all'incirca. Un giorno Wittgenstein aveva consegnato all'amico
un libro di preghiere e questo fatto fornì ai due l'occasione
per una discussione sulle liturgie antiche, in particolare
sulla messa in latino. All'affermazione da parte del suo
interlocutore dell'importanza che venissero ordinati sacerdoti
a garanzia della prosecuzione delle tradizioni religiose,
Wittgenstein replicò che, sebbene l'idea apparisse meravigliosa,
sino ad allora la cosa pareva che non avesse funzionato
più di tanto, aggiungendo che la religione del futuro sarebbe
stata senza sacerdoti e, per queste ragioni, era quanto
mai opportuno per entrambi imparare a vivere senza la consolazione
di appartenere ad una Chiesa.
Senza la consolazione di appartenere ad una Chiesa, questa
è la conclusione di Wittgenstein. Oltre tre quarti di secolo
sono trascorsi da quell'episodio, sobriamente riferitoci.
Di ciò e di altro parleremo in queste pagine, compiendo
una serie di variazioni sul tema. Secondo il punto di vista
di un'esposizione impersonale ci troviamo oggi di fronte
ad uno degli effetti del fenomeno chiamato ‘secolarizzazione',
il quale ha investito tutto il sistema dei valori contemporanei,
modificandoli e, con essi, ha trasformato identità e appartenenze
delle parti in gioco; mettendo in crisi, oltre alle Chiese,
anche altri soggetti, come lo stato, i grandi partiti e
i movimenti di massa, in quanto ha eroso la pretesa da parte
di questi attori sociali di presentarsi sullo scenario della
storia come luogo di transito obbligato, come centro sacrale
nelle vicende dell'uomo e del mondo. Dal canto loro le istituzioni
religiose, con il patrimonio storico (a volte ingombrante)
che le accompagna, si autocomprendono sempre più come istituzioni
e sempre meno come religiose. E il fine ultimo di un'istituzione,
lo sappiamo, è garantire quell'insieme di condizioni che
consentano, a dispetto di tutto e di tutti, di riprodurre
sé stessa. Sono vittime di sé stesse, si potrebbe anche
aggiungere. Ma, a dirla intera, non è questo il versante
del discorso che ci interessa indagare; lasciamo ad altri
verificare sia tale ipotesi, sia la possibilità di rianimare
il soggetto in questione.
Quello di cui si sta parlando tratta di un processo lungo,
proveniente da lontano e tuttora in corso, che ci tocca
e coinvolge direttamente. La questione, dunque, non può
essere studiata in vitro, trattata con il distacco
dell'osservatore imparziale. Parla di noi, ne siamo attraversati.
Non basta il logos – e neppure l'ethos
– per venire a capo del discorso, se non è accompagnato
dal pathos, da una qualità del sentire in grado di
risuonare con chi è vicino, con chi ascolta. Per questo
è bene collocare noi stessi al centro del discorso religioso.
Rinunciare a ciò è rinunciare a venire a capo del rompicapo
che ci abita. Si parla di noi, qui, dei nostri interrogativi,
delle passioni che ci spingono ad agire e ad attribuire
senso a quello che facciamo.
Per secoli le religioni sono state un immenso serbatoio
di speranza e di significato, riuscendo a vivere anche momenti
festivi. Oggi, il contenitore non contiene più, l'aura che
lo avvolgeva è andata persa, definitivamente. Tutte quelle
energie per lungo tempo hanno trovato lì ospitalità; ora,
dopo periodi di opacità e silenzio che sembravano senza
fine e ove pareva che la domanda di senso languisse inerte,
tali forze paiono riemergere, come fiumi carsici stanno
cercando nuove strade, nuovi canali di espressione. “Per
dove?” è la domanda del viandante di fronte alla quale
è giusto porsi. Molto di quello a cui si assiste, ciò che
cerchiamo di fare, sembra poco più di un bricolage,
sono tentativi vani di cercare una forma – osservano
in molti, gli osservatori, gli studiosi, i cinici di turno,
quelli per cui o l'apocalisse non verrà mai o, se dovesse
sopraggiungere, non lascerà comunque traccia di salvezza
per nessuno.
Non sappiamo quello che accadrà, certo preferiamo metterci
in cammino e provare, con gli attrezzi e le conoscenze che
abbiamo a disposizione, sicuri comunque che quanto verrà
fuori da questi laboratori saranno pezzi unici, autentici,
risultato vero dei desideri, dell'intelligenza e della cooperazione
dell'uomo e della donna, ben differente dai pezzi anonimi,
in serie, partoriti dalle megamacchine istituzionali.
È vero, in alcuni frangenti la speranza e il senso paiono
spenti, sembra di girare a vuoto o di toccare un punto morto.
Dire tutto lo smarrimento e il dolore è dire solo la verità
del momento. Da qui partiamo. Giungere a toccare e a sperimentare
questo bordo estremo può condurre anche a un punto di svolta,
ad un rovesciamento di prospettiva. Come ricordava Hölderlin,
“dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”.
Di fronte a ciò non esistono scorciatoie o alternative,
sia nel caso delle opzioni fondamentaliste (religiose, ma
non solo), tanto più rassicuranti quanto più rigide e ottuse
nella loro ostinazione, sia nelle liquidatorie reazioni
laiche e illuministiche al sentire religioso, che, il più
delle volte, nonostante le immani offerte elargite dal sistema
degli oggetti e del consumo, sanno proporre solo un cono
di luce fissa e ristretta che tanto più impoverisce quanto
meno sa riscaldare. Ci siamo messi in cammino, pur consapevoli
che il possibile guadagno in questa ricerca non è un bene
da trattenere, che si accumula e si custodisce nei forzieri
del proprio foro interiore, ma è praxis, azione,
premio da cedere, dono da scambiare, testimone da passare,
guadagno come perdita.
Religione senza religioni: è allora questa la strada da
percorrere? Se le istituzioni religiose, i luoghi di culto
abituali con i credo ivi proclamati appaiono sempre più
come rivestimenti vuoti, simulacri dei fasti di un passato
remoto, non per questo, gettando l'acqua sporca che conserva
tutto ciò, dev'esser gettato via anche il bambino in essa
contenuto. Ma quale bambino? Se il passato è passato per
sempre, bisogna riandare a ciò che viene prima del passato,
prima di ogni ingombrante eredità. Si tratta di risalire
il fiume fino alla sorgente, per andare alla sorgente della
sorgente. Ignoriamo quanto potrà durare il cammino, né dove
ci porterà. È vero, chi cerca trova – dice il proverbio
– ma quello che troveremo avrà poco a che vedere con
l'idea coltivata al momento della partenza. Ingenuità degli
inizi! L'idea ci dà la spinta, ma si dovrà lasciarla cadere
una volta intrapresa la strada, e l'esperienza insegna che
più si è leggeri, meglio si viaggia. Il cammino si fa percorrendolo,
pezzo per pezzo, costruendolo ex novo, con tutti gli andirivieni,
le impasse, le soste, gli imprevisti e i pericoli del caso,
provando a percorrere non i consueti sentieri battuti, ma,
senza voltarsi indietro, saper osare, con la necessaria
determinazione, un inoltrarsi in ciò che deve ancora venire.
Terra incognita, vergine, terra nullius, no man's
land è quella in cui ci troviamo; non per colonizzarla
e predarla, ma per riceverne quell'energia e quel nutrimento
che mai si esauriscono.
Una religione prima e dopo le religioni. Perché l'homo
religiosus viene prima di qualsiasi religione: noi siamo
orientati verso questo testimone, custodito all'interno
di ogni uomo (homo absconditus), nella storia e oltre
la storia, e ad esso intendiamo rivolgerci. Come non condividere
e non collocarci sul medesimo solco di quanto scriveva Ferdinando
Tartaglia – un autore che ha anticipato molte delle
tematiche di cui parleremo – agli inizi del secondo
dopoguerra: “chi predice religione può oggi anche
sputare sulla propria vita, e sputando sulla propria vita
può aspirare senza orgoglio a diventare più che il Buddha,
più che il Cristo (guai se tutti noi non aspirassimo a essere
più che il Buddha, più che il Cristo)”.
Federico Battistutta
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