scuola
Tra Buster Keaton e Heidegger
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Questo è quello che sta
succedendo all'università: siamo fermi in un punto intermedio,
tra la filosofia della formazione e un comico del muto, ma di
quest'ultimo indossiamo soprattutto l'inadeguatezza al mondo
reale, senza riuscire a star muti. Parliamo tutti, molto e a
sproposito, nello sforzo di sedurre le nuove regole e i nuovissimi
governanti di questi efficienti, ma poverissimi, atenei del
futuro. E in questo turbine di riunioni, confronti, agglutinazioni
per fascia, Settore Scientifico Disciplinare, responsabilità
istituzionali, gusti politici, preferenze sessuali, segni zodiacali,
vizi segreti e pubbliche virtù, quel che si rischia è
la definitiva smarrizione di Nostra Signora dell'Evanescenza:
la cultura, questa sconosciuta.
Essa non è un prodotto, non si quota in borsa, non contribuisce
alla circolazione del denaro né alla risoluzione del
problema dei derivati. Sarebbe, concettualmente e come nelle
favole che qualche tempo fa erano realtà prestigiose,
un contributo vitale al processo formativo di individui completi,
qualunque mestiere o professione essi decidano poi di praticare
da grandi. Qualche tempo fa, in una scuola elementare del centro
– quindi bambini italiani, qualche presenza etnica tanto
per salvare la faccia e comunque un contesto sociale abbiente,
di qualunque colore esso fosse – una ragazzina di nemmeno
10 anni è venuta a farmi firmare un mio libro. Le ho
chiesto cosa vorrebbe fare da grande, e lei mi ha risposto:
“Mi piacerebbe fare la scrittrice, però con i libri
non si trovano fidanzati e non si costruisce niente di utile.
Perciò penso che mi concentrerò sulla Borsa”.
Buona fortuna, Angela Merkel.
E questa è una bella premessa per non studiare cose futili
(che so, Greco classico, o Lingua Ebraica) all'università:
cosa se ne fa uno studente di materie semplicemente formative,
che lo aiutano a crescere senza insegnargli come far soldi?
Almeno si iscrivessero ad Agraria, così, se non vogliono
far soldi, imparano a coltivare il pianeta. E noi umanisti,
intanto, veniamo derubricati da studiosi a panda: è un
fatto inevitabile e doloroso. E qualunque cosa il termine “panda”
finisca per designare nel nostro caso, sia che si tratti di
una metafora automobilistica o zoologica, non è escluso
che noi idealisti si preferisca comunque questa incarnazione
al confuso miraggio di una utilità economica, che ha
di recente guastato ogni prospettiva di ricerca. Il fatto è
che a quelli come me non piace per niente che l'università
diventi un progetto imprenditoriale invece che culturale. E
allora? Dove andiamo da questo strano approdo, tra Buster Keaton
e Heidegger?
“Ora te lo spiego” mi ha risposto la mia collega
associato forever (che non vincerà mai un concorso perché
ha un brutto carattere e una fastidiosa tendenza a conservare
la dignità). “Sono dieci anni che mi occupo di
Erasmus, piani di studio, colloqui di ammissione, internazionalizzazione
e chi più ne ha più ne metta. In dieci anni, sono
entrata a in biblioteca 71 volte per un totale di 878 minuti.
In assoluto, non è poco, ma se spalmi questo tempo su
dieci anni di vita, diventa l'equivalente di un contagocce per
vuotare l'oceano delle conoscenze che non ho acquisito.
Non ho scritto nessuna monografia, ho curato qualche volume
di saggi, ma mi hanno detto che non conta una cippa, ho insegnato
un numero di ore spropositato e seguito mucchi di tesi, ma anche
questo non conta. Ergo, meglio che neanche mi presento al prossimo
concorso: è come se mi fossi girata i pollici, dal punto
di vista di questa riforma. Ho pensato che potrei andarmene
in congedo, già che ci sono, così forse riesco
a scrivere un libro. Però il congedo non me lo danno:
deve essere a costo zero, e perciò il mio collega che
fa 60 ore e segue 3 tesi in un anno, se non c'è non se
ne accorgono neanche. Io invece sono insostituibile. Insostituibile
ma non promuovibile. Quindi il congedo lo danno a lui, che non
ha mai fatto una cippa, e a me no, perché lavoro. Ora,
come esco da questa situazione? Me lo dici tu, che sei intelligente?”
Non ho saputo cosa risponderle, anche perché, dovendo
scegliere tra Buster Keaton e Heidegger, io vorrei essere Maurizio
Nichetti. Sebbene non sia un atto professionalmente produttivo,
voglio dipingere affreschi anche se quel che serve per avere
successo è disegnare uno schematico alberino di design,
possibilmente senza foglie né frutti. Perciò che
potevo fare per consolare la mia collega? L'ho invitata a cena
alla trattoria mantovana, dove ci siamo riconfortate a vicenda
sull'esistenza indiscutibile delle polpette e dei ravioli, che
se ne incippano della riforma. Ci sono certezze anche nella
vita degli accademici di medio rango destinati a rimanere tali.
Però di tanto in tanto mi chiedo preoccupata quand'è
stato che ho perso il gusto del cambiamento. Una volta mi pareva
aria nuova, preziosa comunque. Forse è successo quando
mi sono accorta che nei miei ambienti di lavoro l'aria nuova
pareva quella rimescolata dal ventilatore nella stanza d'albergo
di Saigon dove Willard ha la sua agnizione sul destino che lo
aspetta. A noi non spetta neanche l'agnizione. Solo l'aria riciclata
e il ventilatore.
Tuttavia, è tempo di cambiamenti. La “riforma gelmina”
è stata per la nostra ex ministra come il tunnel dei
neutrini: è probabile, dico solo probabile, che non ci
abbia capito nulla, nel sistema formativo italiano, e nel dubbio
abbia dato una risposta a vanvera, sperando di azzeccarla giusta.
Sul foglio però non c'erano le crocette, perciò
la risposta ha dovuto essere formulata, e qui son cominciati
i guai.
E adesso noi siamo qui, che ci arrabattiamo per realizzare la
quadratura del cerchio, ovvero partorire un nuovo sistema –
di per sé non scevro di aspetti positivi – che
tuttavia viene applicato in media con uno sforzo titanico per
non smantellare il vecchio, almeno fino al momento in cui il
ricambio generazionale non sarà completo. Quel che ne
viene fuori somiglia all'armadio di mia madre: niente viene
buttato via. Ci sono dei ciclici riordini, molto distanziati
nel tempo, orientati non già a liberarsi di quel che
è diventato obsoleto ma a recuperare quello che è
stravecchio perché diventi nuovo.
Una mia collega giovane, e dotata di molto spirito, ha costatato
di essere arrivata seconda all'ennesimo concorso senza avere
neanche una vaga idea di come siano stati conteggiati i suoi
28 articoli e le sue due monografie a fronte della produzione
ben più ridotta del vincitore. Quest'ultimo aveva 16
anni più di lei. “Sai” mi ha detto, “ieri
ho visto il Papa e il Presidente affiancati e sorridenti in
TV e ho pensato: alè, largo ai giovani”.
E già, dove sono i giovani, in questa riforma? Fuori
dai giochi in via definitiva. E non ci vuole Heidegger per capire
questo elementare principio. Ma ci vuole di sicuro lo spirito
di Buster Keaton per accettarlo.
Nicoletta Vallorani
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