storia
Perché rapimmo il vice-console spagnolo
testimonianza di Amedeo Bertolo
raccolta da Mimmo Pucciarelli
Nel 1962, a Milano, alcuni giovani anarchici
rapiscono un diplomatico del governo franchista, per ottenere
la cancellazione
della pena di morte per un anarchico spagnolo. Obiettivo raggiunto.
I brani che seguono
sono estratti da un'intervista più ampia realizzata nel
2003 nell'ambito di una ricerca internazionale sui percorsi
esistenziali e politici di alcuni militanti anarchici.
L'intervista completa è stata poi pubblicata in francese
nel volume L'anarchisme en personnes pubblicato dall'Atelier
de Création Libertaire di Lione nel 2006.
[...] Prima dell'estate del 1962, organizzo un'assemblea nel
mio ex-liceo «Berchet» per raccogliere fondi di
solidarietà con la resistenza libertaria nella Spagna
franchista. Con questi soldi, una somma modesta, riesco ad acquistare
un ciclostile manuale che successivamente porterò in
Spagna. Ma già da qualche mese ero entrato in contatto
con elementi di quell'organizzazione che si chiamava Defensa
Interior, in particolare con Octavio Alberola che allora si
faceva chiamare «Juan». Ed era stato allora che
io e un altro mio compagno del gruppo giovanile libertario,
Luigi Gerli, che al tempo studiava filosofia, c'eravamo impegnati
ad andare in Spagna. Si trattava di una missione clandestina
per portare dei volantini della FIJL (Federación Ibérica
de Juventudes Libertarias) e dei nuovi codici di comunicazione
(dopo una delle tante «cadute» di compagni dell'interno).
“Ero
abbastanza incosciente, sai la gioventù...”
Io viaggio da solo in motocicletta e il Gerli, anche lui in
moto, assieme a un certo Vittorio De Tassis, che si definiva
comunista rivoluzionario. Partiamo separatamente: qualche giorno
prima Gerli e De Tassis, poi io. Io passo da Toulouse, dove
incontro Alberola che mi dà tutte le indicazioni necessarie
per la missione. Porto con me il ciclostile manuale, che nel
frattempo ho camuffato da cassetta per pittore con l'inchiostro
al posto dei colori e con un quadro abbozzato per darmi una
copertura. Un quadro fatto da mio fratello Gianni, che sa dipingere
meglio di me. In quell'epoca, era sedicenne, ma già anarchico
anche lui.
Una volta arrivato in Spagna, passo da Barcellona, dove incontro
Jorge Conill Valls del Gruppo giovanile di quella città,
poi vado a Madrid, dove incontro il Gerli, che sta finendo la
sua missione. Qui non riesco a stabilire il contatto, per ben
due appuntamenti successivi, con il compagno spagnolo. Non ho
mai saputo per quale motivo, forse perché era stato arrestato
o forse perché non era riuscito ad arrivare a tempo all'appuntamento.
Dopo Madrid scendo fino a Cadice, Almería e Alicante
dove ho tre contatti a cui consegno i nuovi codici e dei volantini
firmati FIJL da me ciclostilati, una cosa che facevo a ogni
tappa con il ciclostile manuale impiegandoci due o tre ore in
camere d'albergo.
Poi inizio il viaggio di ritorno. Ripasso da Barcellona, vedo
di nuovo i compagni del luogo, dormo nella loro sede clandestina,
una soffitta nel Barrio Gótico vicino alla cattedrale,
lascio il ciclostile che avevo portato dall'Italia e riprendo
la strada del ritorno.
Questa missione dura un paio di settimane, tra fine luglio e
inizi agosto. Per poterla fare, utilizzo i soldi che mi hanno
dato i miei genitori per le vacanze. Loro sanno che vado in
Spagna e mio padre sospetta che io ci vada per motivi politici
in quanto sa che sono anarchico. Infatti, non è per nulla
contento. Mia madre non dice nulla. Dunque non ho tanti soldi.
Dormo in ostelli della gioventù o in albergacci d'infima
categoria oppure nella tenda che ho portato con me. Ricordo
che una notte, sulla spiaggia tra Almería e Alicante,
mi sono appena messo a dormire in un sacco a pelo, quando vengo
svegliato da due Guardia Civil che pattugliano la zona e che
hanno visto le luci della motocicletta quando sono arrivato.
In quell'occasione devo dire che la mia copertura di turista
e artista ha funzionato perfettamente, non mi hanno neanche
perquisito. Per fortuna, perché avevo un pacco di volantini…
Quella sera ho avuto un po' di paura, ma neppure tanto, anche
perché ero abbastanza «incosciente». Sai
la gioventù… Avevo vent'anni…
E poi c'era anche l'Idea!
Sì, l'Idea. Pensa che all'epoca, ma questo l'ho saputo
dopo, erano in corso delle retate d'anarchici, in particolare
di quelli collegati con Defensa Interior. Comunque, io parlo
un poco lo spagnolo, perché l'ho imparato quando mio
padre aveva progettato di andare a lavorare a Portorico. Anzi,
secondo Alberola lo parlo sufficientemente bene da non suscitare
sospetti… ma è un'esagerazione. Diciamo semplicemente
che lo parlo abbastanza da intendermi con i compagni spagnoli
che vado a trovare. In conclusione, ritorno soddisfatto da questa
missione e prima di rientrare in Italia passo dal campeggio
internazionale anarchico che si tiene dalle parti di Marsiglia,
dove conosco altra gente.
Poi, a metà settembre di quel 1962, leggiamo in una breve
nota di Le Monde che sono stati arrestati tre compagni
di Barcellona, Jorge Conill Vals, Marcelino Jiménez Cubas
e Antonio Mur Peirón, uno di loro studente universitario
e gli altri due operai. Sono stati arrestati per due o tre attentati
dimostrativi, di cui uno alla sede della Falange e uno a quella
dell'Opus Dei. Qualche giorno dopo veniamo a sapere che sono
stati condannati dal tribunale militare: pena di morte per Conill
e trenta anni di reclusione per gli altri due. Allora decidiamo
di fare immediatamente qualcosa per impedire l'esecuzione di
questo assassinio.
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Vernazza
1960 (in senso antiorario): Aimone
Fornaciari, Amedeo Bertolo, non identificato,
Luigi Gerli durante una gita |
In modo
abbastanza dilettantesco
Prima di tutto decidiamo di prendere nuovamente contatto con
i rappresentanti giovanili dei partiti, questa volta persino
con i giovani cattolici (noi del Gruppo giovanile libertario
eravamo solo quattro, dunque figurati cosa potevamo fare da
soli), e cerchiamo di organizzare una manifestazione comune
o comunque di farli muovere in qualche maniera. Ma non riceviamo
nessuna risposta positiva. I giovani cattolici di «sinistra»,
o cattolici sociali, prendono contatto con l'allora cardinale
di Milano (Montini, il futuro papa Paolo VI), ma costui risponde
che la vicenda non è di sua competenza.
Viste le reazioni decidiamo di andare sul pesante, cioè
di sequestrare il console spagnolo di Milano per richiamare
l'attenzione dell'opinione pubblica sulla vicenda dei tre compagni
spagnoli e in particolare sulla condanna a morte di uno di loro.
Non ricordo esattamente come si sia arrivati a prendere questa
decisione, ma nei mesi precedenti si era parlato di cosa fare
se fossero stati condannati dei compagni spagnoli e fra le ipotesi
evocate c'era anche quella di agire sulle rappresentanze diplomatiche
e i suoi funzionari. In via teorica se n'era dunque già
parlato. Ma in sostanza, dopo la condanna a morte del compagno
spagnolo e la mancata reazione degli altri giovani a cui ci
eravamo rivolti, abbiamo deciso precipitosamente (ma i tempi
non consentivano di tergiversare) di prendere in ostaggio il
console spagnolo di Milano.
Organizziamo quest'azione in modo abbastanza dilettantesco,
ma la cosa funziona ugualmente. Il nostro gruppetto di libertari
milanesi – ovvero io, Luigi Gerli, Gianfranco Pedron e
Aimone Fornaciari – decide di coinvolgere nel progetto
anche De Tassis, che ha partecipato alla missione in Spagna,
e un paio di giovani socialisti di sinistra veronesi che studiano
all'università di Milano, con i quali abbiamo già
avuto diversi incontri e discussioni. Decidiamo di coinvolgerli
non solo perché non siamo sufficienti per compiere quest'azione,
ma anche perché ci serve qualcuno che abbia la patente
per poter guidare un'automobile. Inoltre abbiamo bisogno di
una pistola...
Una sola?
Una l'avevamo già... un residuato della Resistenza...
Il 27 settembre 1962 arriviamo davanti al consolato spagnolo
con un'automobile noleggiata a Verona su cui all'ultimo momento
è stata attaccata una targa falsa. O meglio una targa
di cartone provvisoria tolta a un'altra automobile (una volta
davano delle targhe provvisorie di cartone per i primi mesi
di circolazione delle automobili). Il progetto è di entrare
nel consolato e lì fare il necessario per prendere in
ostaggio il console. Ma quando arriviamo il consolato è
già chiuso perché siamo arrivati con cinque o
dieci minuti di ritardo sull'orario d'apertura degli uffici.
Come ti ho detto, eravamo dilettanti... ma forse la fortuna
assiste i dilettanti perché ripieghiamo agevolmente su
un altro piano.
Andiamo dapprima a casa del vice-console, perché nel
frattempo abbiamo saputo che il console è in ferie e
il suo posto è attualmente occupato dal suo vice, che
si chiama Isu Elías. Quando arriviamo in Via Vincenzo
Monti, dove abita questa persona, non ci sembra granché
opportuno tentare di rapirlo lì perché il suo
palazzo è proprio di fronte a una caserma dei carabinieri...
Allora ripieghiamo su un piano più fantasioso. Telefono
al vice-console spacciandomi per il segretario del vice-sindaco
di Milano e lo invito a pranzo il giorno successivo dicendogli
che sarei andato a prenderlo con un autista per portarlo al
ristorante.
Il giorno dopo telefoniamo per conferma al consolato. L'autista
è un veronese, Alberto Tomiolo, che ha noleggiato l'automobile
solo per un paio di giorni perché i soldi che abbiamo
a nostra disposizione non sono tanti. È l'unico della
«banda» che ha la patente per guidare un'automobile.
Per l'occasione indossa il mio vestito grigio scuro (quello
che mettevo per andare alle «feste») e un berretto
d'autista che ero andato a comprare il giorno prima.
Arrivati al consolato, Aimone Fornaciari rimane a fare il palo
all'angolo di Via Ariberto. De Tassis, che è quello che
ha l'aria più matura fra di noi, sale negli uffici per
andare a prendere il vice-console, proprio come se fosse il
segretario del vice-sindaco. Ridiscende, infatti, con il vice-console.
L'autista, Tomiolo, allora esce dall'automobile, apre la portiera
e fa salire il vice-console Elías. De Tassis si siede
davanti e ai due lati del vice-console saliamo io e Pedron,
impugnando le pistole...
Gran
clamore della stampa
Partiamo verso una baita situata in un paesino vicino alla
frontiera svizzera che abbiamo da un anno circa in uso gratuito.
Si tratta di un rustico, una ex-stalla. È lì che
abbiamo deciso di tenere sequestrato il nostro ostaggio. Senza
entrare in ulteriori dettagli della vicenda, diciamo che abbiamo
tenuto lì il vice-console per tre giorni. Naturalmente
sulla stampa c'è un gran clamore. Infatti, rivendichiamo
subito il sequestro in nome della Federazione internazionale
della gioventù libertaria, chiarendone le motivazioni,
cioè la condanna a morte del compagno spagnolo, e chiedendo
come contropartita una commutazione della pena.
Ma la faccenda si fa subito un po' intricata perché il
Tomiolo, tornato a Verona e forse impaurito, anziché
starsene buono com'era stato programmato e lasciarci gestire
il seguito della vicenda, si confida con un avvocato suo amico.
Il quale gli dice di non fidarsi degli anarchici, perché
sarebbero inaffidabili e la cosa potrebbe volgersi in dramma,
e gli suggerisce di far liberare di sua iniziativa il vice-console
prendendo contatto con i giornalisti di un quotidiano paracomunista,
Stasera, che usciva allora a Milano.
Noi veniamo a sapere di questa «interferenza» e
decidiamo di accelerare i tempi della liberazione per anticipare
le mosse del Tomiolo e dei giornalisti di Stasera. Noi
nel frattempo avevamo preso accordi con alcuni compagni spagnoli,
con Alberola in particolare, per consegnare il vice-console
a loro affinché lo portassero a Ginevra e lo rilasciassero
nella sede di qualche organizzazione delle Nazione Unite chiudendo
così la vicenda con un atto clamoroso. Sennonché
dobbiamo rinunciare a questo piano perché c'è
l'interferenza dovuta ai timori del Tomiolo. Allora decidiamo
di liberarlo per conto nostro. Prendo contatto con il giornalista
Nozzoli del quotidiano milanese Il Giorno (un giornale
all'epoca di centro-sinistra) e salgo con lui alla baita per
liberare il vice-console in sua presenza. Ma, quando arriviamo
lassù, il vice-console non c'è più e neanche
De Tassis che era il suo guardiano.
Infatti nel frattempo si è messa in moto un'ulteriore
interferenza: un giornalista di un settimanale scandalistico,
ABC, ha raccolto voci a sufficienza nell'ambiente frequentato
dai veronesi e dal De Tassis – un ambiente d'artisti e
finti artisti, gente di sinistra, sfaccendati, eccetera –
da risalire fino alla baita e al vice-console. E costui arriva
sul posto mezz'ora prima che arrivassimo io e Nozzoli. Il De
Tassis, convinto che fosse il giornalista mandato da me, gli
consegna il vice-console...
All'epoca non c'erano i telefonini...
Non c'era neanche quello fisso nella baita, dove mancava anche
una parete... E così, convinto che questo giornalista
fosse mandato da me, gli consegna il vice-console e scende con
lui fino a Varese dove si fa lasciare, mentre il giornalista
conduce il vice-console a Milano e fa lo scoop. Ho saputo solo
recentemente che questo giornalista, Nino Pulejo, era all'epoca
stipendiato dai servizi segreti. Non so se questo c'entrasse
con la liberazione del vice-console... certo c'entrava con il
suo orecchiare i discorsi nell'ambiente di Brera.
Dunque, arrivato alla baita e scoperto che non c'è più
nessuno, torno a Milano dove ci dormo un poco sopra. La mattina
dopo, sul presto, contatto Gerli e Pedron, li avviso di quanto
è avvenuto e suggerisco loro di tagliare la corda. Gerli
decide di scappare per conto suo e con i suoi mezzi, mentre
Pedron decide di non scappare e di rischiare l'arresto, come
poi puntualmente è avvenuto. Io mi affido per la mia
fuga al movimento anarchico, soprattutto a Franco Leggio e ai
compagni da lui conosciuti. In effetti, riesco ad andarmene
da casa qualche ora prima che arrivi la polizia, dopo un ultimo
abbraccio a mia madre piangente, cui avevo raccontato della
mia responsabilità nel sequestro. Nel frattempo la polizia
ha identificato la baita e Pedron, che è il nipote di
un abitante di quel paese [Cugliate Fabiasco]. Dopo averlo fermato
lo interroga, e lui quasi immediatamente racconta la vicenda.
Del resto non ha indicazioni di tacere perché a quel
punto, una volta trovata la baita, si trova anche il gruppo
di giovani che lì si riunivano e quindi la loro identificazione
è solo questione di tempo.
Quel
conto aperto con l'oste anarchico
Come ho detto, io riesco ad allontanarmi da Milano e vado
a Genova, dove resto un paio di giorni a casa di Carlo Boccardo,
un operaio metallurgico, poi da lì passo alla casa di
Dino Fontana, un compagno individualista, un tipo pittoresco:
esperantista, naturista, vegetariano, sarto, fautore del libero
amore, cioè quel tipo d'individualismo all'E. Armand.
Abita in provincia di Novara, a Carpignano Sesia, dove rimango
per una quindicina di giorni. Poi passo a Domodossola, vicino
alla frontiera, a casa di un altro compagno, Dante Remi, e ci
rimango il tempo necessario per organizzare il mio espatrio.
Passo le Alpi. Mi guida un compagno esperto di passaggi in queste
montagne perché è un raccoglitore d'erbe medicinali
che va a cogliere in Svizzera, un'attività che non credo
fosse «legale». In ogni modo, grazie a questa sua
attività conosce bene i passaggi. Mi accompagna dunque
dapprima in motoretta, poi facciamo due ore a piedi fino a un
rifugio dove passiamo la notte. La mattina successiva mi accompagna
al colmo di un passo dove mi lascia da solo. Nel frattempo,
sul versante svizzero ha incominciato a nevicare e la neve mi
arriva già a metà polpaccio. A quel punto lui
ritorna indietro e mi dice di andare sempre dritto che avrei
trovato la strada. E io vado avanti. Vestito da città,
procedo con qualche difficoltà aiutato da una borraccia
d'acquavite. Mi ricordo che a un certo punto quasi cado in un
ghiacciaio perché, camminando dritto nella neve, mi trovo
a scivolare a qualche metro da questo ghiacciaio.
In ogni caso l'acquavite mi aiuta a superare senza timore l'avventura,
cioè aggiunge alla mia incoscienza giovanile anche un
poco d'incoscienza etilica, e arrivo infine, bagnato, inzuppato,
alla strada. Lì faccio l'autostop e riesco a farmi accompagnare
fino alla stazione ferroviaria di Briga. Qui mi asciugo alla
stufa della stazione e prendo il treno per Ginevra, dove sono
ospitato da Pietro Ferrua, che il giorno successivo mi accompagna
in automobile attraverso la frontiera fino in Francia. Di lì
parto per Parigi, dove sono preso in consegna dai compagni spagnoli
che mi danno in uso un mini-appartamento in una delle loro «case
sicure», dove rimango fino alla vigilia del processo.
Nota di colore che si aggiunge alla vicenda: avevo allora un
«conto aperto» con il gestore di una trattoria di
Parigi che era un anarchico italiano abbastanza anziano di cui
ora non ricordo il nome. Costui mi dava da mangiare gratuitamente
ogni qual volta mi presentavo nel suo locale sapendo i motivi
per i quali mi trovavo a Parigi. Ecco, tutta la mia fuga è
stata costellata da anelli di solidarietà anarchica.
Sono rimasto a Parigi fino alla vigilia del processo, che è
stato fissato con una rapidità straordinaria per la metà
di novembre. Decido quindi di ritornare in Italia, ma prima
rilascio un comunicato stampa all'AFP dove preannuncio che mi
costituirò. Rifaccio il percorso a ritroso, ma questa
volta attraverso il confine a Lugano, o meglio a Chiasso e più
precisamente attraverso un valico minore vicino Chiasso...
Viaggiavi sempre con la pistola che avevate usato per
il sequestro?
No, l'aveva seppellita mio fratello in un campo vicino a casa
mia. E devo dire che quando un giorno siamo andati a riprenderla
non l'abbiamo più trovata...
Attraverso quindi questo valico minore con uno dei miei due
avvocati, dormo a casa sua e il giorno dopo mi presento clamorosamente
all'udienza fingendo di essere il suo giovane d'ufficio che
gli portava la borsa in tribunale. Una volta entrato mi consegno
ai giudici. A quel punto c'è subbuglio in aula perché
la polizia aveva fatto blocchi stradali e ferroviari per prendermi
dopo che avevo annunciato il mio ritorno. Come ultima beffa
c'è dunque stata questa mia libera consegna, e non l'arresto,
com'era capitato a tutti gli altri attori e complici (conosciuti).
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Varese,
novembre 1962: Amedeo
Bertolo e Gianfranco Pedron
ammanettati durante le fasi del processo |
Il processo,
un successo
Il processo è una grande occasione di propaganda antifranchista.
C'è un gran clamore sulla stampa... Ma non dimentichiamoci
che a questo punto la notizia più importante è
che la condanna a morte è stata nel frattempo commutata.
Infatti, dopo la vicenda del vice-console, la notizia di quella
condanna era uscita in prima pagina su tutti i quotidiani e
i partiti si erano finalmente mossi, soprattutto i comunisti
che avevano organizzato delle manifestazioni. Solo a quel punto
il cardinale Montini si decide anche lui a chiedere clemenza
al cattolicissimo Franco. Così, grazie a questa mobilitazione,
la pena di morte viene commutata in trenta anni di galera e
la pena carceraria degli altri due viene ridotta. La nostra
azione ha dunque avuto un esito positivo per i compagni spagnoli,
così come il processo lo ha avuto per la diffusione delle
idee libertarie e per la solidarietà con la Spagna antifranchista.
Il processo ha rappresentato un successo anche per noi perché
abbiamo ottenuto una pena minima, in pratica il minimo consentito
dalla legge: sei mesi di reclusione per sequestro di persona
e venti giorni per detenzione d'armi, con la concessione dell'attenuante
per aver agito per motivi di «alto valore morale e sociale».
Credo che per la prima volta sia stata concessa per fatti politici
questa attenuante, che era normalmente utilizzata per i «delitti
d'onore».
Quando lo avete sequestrato, come ha reagito il vice-console?
Era molto impaurito. Mi ricordo che quando siamo usciti dall'automobile,
su in montagna, ci ha detto: «Se dovete ammazzarmi ditemelo
prima, così prego». Noi gli abbiamo risposto: «Non
preoccuparti, non siamo fascisti [sorride], è
Franco che ammazza!». E lui: «A me non risulta...».
In ogni modo, dopo un po' si è reso conto che non avevamo
intenzione di fargli del male, oltre al fatto che lo avevamo
sequestrato...
Il processo finisce bene...
Siamo condannati come dicevo al minimo della pena e siamo scarcerati
tutti per sospensione della pena. In realtà io sono rimasto
in carcere solo il tempo del processo, una decina di giorni,
mentre gli altri sono rimasti tra un mese e un mese e mezzo
a secondo del momento in cui sono stati arrestati.
Che cosa hanno fatto durante tutto questo episodio i vecchi
anarchici?
Cosa vuoi che potessero fare... Ne hanno parlato su Umanità
Nova e su L'Agitazione del Sud, naturalmente con
termini entusiastici riferendosi a questi «bravi giovani
che riscoprono gli ideali libertari». E hanno raccolto
soldi per le spese legali.
Cosa hanno fatto in seguito Luigi Gerli, Gianfranco Pedron
e Aimone Fornaciari?
Pedron ha abbandonato la militanza anarchica dopo il processo
e ha continuato a studiare alla Facoltà di Agraria, dove
ho studiato anch'io e dove si è laureato circa un anno
dopo di me. Poi non ho più saputo nulla di lui. Gerli
ha interrotto gli studi universitari e ha svolto varie attività.
Ha trascorso un paio d'anni in Finlandia e poi è tornato
in Italia. Da allora l'ho visto saltuariamente fino al 1967
e poi non l'ho quasi più visto. Aimone Fornaciari si
è trasferito in Finlandia poco dopo il processo, dapprima
a tagliare alberi, poi con il passar degli anni a insegnare
Italiano. Continua a ricevere la nostra stampa, legge i libri
di elèuthera, è abbonato ad A e Libertaria
e periodicamente ci sentiamo.
intervista a cura di Mimmo Pucciarelli
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Questa testimonianza
di Amedeo Bertolo è estratta dall'intervista pubblicata
nel volume l'Anarchisme
en personnes, edita dall'Atelier de création
libertaire di Lyon nel 2006.
Per lo stesso volume,
oltre ad Amedeo, hanno raccontato la loro storia altri
amici e una amica ben conosciuti da “A“ rivista
anarchica: Eduardo Colombo, Ronald Creagh, John Clark,
Marianne Enkell e José Maria Carvalho Ferreira.
Per riceverne una copia (prezzo “speciale“:
€ 10,00) le richieste vanno fatte a:
ACL, BP 1186, F - 69202 Lyon cedex 01, Francia,
oppure scrivendo un'e-mail a:
contact@atelierdecreationlibertaire.com |
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