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Maggio 2012/Una giornata importante per Torino
Quel giorno l'attenzione si è concentrata sulle contestazioni
a Fassino e ai bonzi sindacali di turno o sugli scontri con
la polizia davanti al comune. Merita ricordare anche P.zza San
Carlo. Nel finale del corteo, quando lo spezzone del pd -reduce
da una mattinata non proprio felice, il cui percorso può
essere paragonato ad una via crucis come metafora del disastro
di una sinistra che ha perso ogni riferimento storico-ideologico
- non è stato fatto entrare in piazza. Le macerie dei
terremoti possono rappresentare il presente di quest'area politica.
Abbiamo provato a ricordare quei momenti dove lo scontro
non si è svolto con le forze del disordine ma con il
partito dell'austerità, dei tagli responsabili, della
coesione sociale, della legalità ideologica, della magistratura
buona per montagne di arresti, delle coop rosse, delle guerre
mascherate da missioni di pace e chi più ne ha ne metta.
Queste poche righe sono il racconto di due compagni trovatisi
nel mezzo del cambiamento italiano.
Cercare strade per ritrovare la convinzione che questa società
non è la migliore possibile. Grazie a tutte le persone
presenti quella mattina.
Enzo e Sergio
È successo un giorno di maggio. Un giorno che ricorderò
con un piacere misto alla rabbia che ha suscitato in me quell'onda
di emozioni che ti prende alla gola fino alla voce trasformandola
in urlo. “ANDATEVENE!!!” Le persone intorno a me
sono sconosciute. Dove sono gli amici-che, i fratelli\sorelle
i compagni\e? Vedo giovani insanguinati. Sento la mia bocca
impastata di qualcosa che irrita. Non capisco cos'è.
Lo capirò dopo. Non riesco a controllarmi. Troppo tempo
che aspetto questo momento. Davanti a me uomini con pettorine
con scritto qualcosa. Servizio d'ordine. Non li vogliamo far
passare. Aderisco inconsciamente al mio desiderio di vedere
la loro macchina da guerra incepparsi, girare a vuoto, balbettare
confusa. Loro non capiscono. Un muro umano di un centinaio di
persone ha deciso che loro non sono parte di noi. Anni di bombardamenti
sui popoli rei di non stare agli ordini dell'occidente sono
riscattati da un deciso “basta! andatevene con il vostro
furgone funebre”. Ho paura per la mia sicurezza, se questi
cani da guardia ricevono l'ordine di fare a botte finisce male
per tutti. Non mi muovo. Un signore come me mi affronta armato
di foulard e spilla di Emergency. La solita solfa che “non
siamo democratici”. Non mi tengo gli dico che i furgoni
non possono entrare in piazza! Vorrei dire ben di più.
La dialettica è scomparsa. La nostra arma segreta sono
i i ragazzi pink. Con la musica hanno risposto agli spray al
peperoncino con le rime gioiose hanno replicato agli spintoni.
Grazie a loro abbiamo sentito il coraggio di serrare le fila.
Abbiamo costruito quel muro che sostiene le nostre convinzioni.
Sono giovani. Chissà chi sono, da dove vengono chi sono
le loro famiglie. Il mio occhio vaga alla ricerca di facce amiche.
A parte Lorenzo vedo i soliti che aspettano di mettersi d'accordo
per decidere dove andare a fare il pranzo del primo maggio.
Sono contento che Lorenzo sia qui con me\noi. Se c'è
lui vuol dire che è una cosa che va fatta, portata avanti.
Non è un momento di puro delirio estremistico. Siamo
la prova che è possibile fermarli. Fermarli con i nostri
corpi. Ecco li abbiamo fermati. La loro arroganza è bloccata.
I loro capi isterici. Ma chi sono i loro capi? Stanno festeggiando
da altre parti. I fischi di un ora prima non li hanno infastiditi.
Convinti di continuare a governare all'infinito. Quali analisi
fare? Non so, la felicità si mescola al dispiacere di
essere incattiviti.
Oggi il partito dell'ordine non vince a Torino. piazza san Carlo
è libera dalla polizia democratica.
Another brick in the wall?
Il conflitto, probabilmente, non è la mia cifra stilistica
naturale, lo auspico, ma lo patisco. Se poi rifletto, in particolare,
sulle azioni accese e violente di piazza, credo di non essere
proprio mai riuscito a provare godimento o vanto. La vicinanza
del nemico politico, con un progetto diverso dal mio, per lo
più mi conduce a immaginare e pensare alle storie di
uomini e donne altro da me. Debolezze occidentali?
Mi viene in mente, a questo proposito, un vecchio compagno anarchico
che ebbi modo di conoscere molti anni fa e che, proprio in un
Primo Maggio a cavallo fra gli anni '80 e '90, vidi discutere
con un poliziotto in divisa nel tentativo di fargli cambiare
lavoro. Lui - già ottuagenario, ma ancora determinato
nelle sue convinzioni, di fronte a un ragazzone non ancora trentenne
- che parlava del suo errore di gioventù: l'essere entrato
in polizia. Immaginai lo spiazzamento dello sbirro di fronte
ad una storia così insolita come quella di un uomo proletario-poliziotto
che capisce di stare dalla parte sbagliata, arrivando a compiere
una scelta concreta e radicale di militanza. (Mi chiedo che
penserebbe il Pasolini di “Valle Giulia” di questa
vicenda).
Oggi qui a Torino ci troviamo di fronte ad un servizio d'ordine
di un partito che sostiene il governo Monti; un servizio d'ordine
pagato, perché, parafrasando Gaber, il partito si rinnova...
per evidente indebolimento, e assume con “contratti a
chiamata” per mezzo di finanziamenti pubblici.
Facce spaurite, fra molti di essi, anche loro dalla parte sbagliata,
giovani con pettorina neanche troppo corpulenti, grida, insulti,
ordini dalle retrovie che comandano la resistenza contro i “nemici
della democrazia”. Partono spinte, schiaffi, pugni, poi
sangue. Una signora anziana viene portata via travolta dalla
mischia. Dopo un po' ci si ferma, ma il “muro contro muro”
prosegue con sguardi e parole.
Vedo una bandiera rossonera per terra che mi appresto a recuperare.
Schierato dalla parte di muro giusta, la tengo stretta in mano,
quando vedo un dipendente precario, in pettorina, del PD con
un labbro che sanguina e che si fa beffe di noi, mostrando un'altra
bandiera uguale a quella appena raccolta da me. Urlo che la
pretendo indietro, ma non sta guardando me e non mi sente. Grido
più forte lo stesso concetto, mi sente e risponde facendomi
capire che non ne vuole sapere. Smetto di essere muro e vado
a prenderla: ora sono un mattone che cammina.
Qualcuno non mi vuole far passare: spingo e lo mando a stendere.
Circumnavigo l'“Enemy block”, ma nell'avvicinarmi
fanno cerchio intorno al ladruncolo. Non ho paura, mi sorregge
la forza della ragione e la consapevolezza che il Partito Democratico
rimarrà fedele ai propri principi di facciata, senza
rischiare un ulteriore sputtanamento pubblico.
Riproponendomi come sempre di non iniziare per primo, si trovano
disorientati, perché si aspettano che reagisca violentemente
alle loro provocazioni verbali. Il precario si distrae per un
momento, allora provo a strappargliela, ma altri lo aiutano.
Dirigenti più corpulenti si fanno avanti: ribadisco il
motivo della mia presenza. Uso, inoltre, le loro stesse armi
e chiedo loro se vogliono picchiarmi (s'intimidiscono solo per
la presenza di una discreta platea). “Ti sei spinto troppo
oltre”, mi spiega uno, facendo sfoggio di cultura zoologica.
Curioso ma, io per loro, divento ora quello che, rivolendo la
bandiera sottratta, sta invadendo il loro territorio.
“Me ne torno a fare muro”
“Bandiera”- urlo ancora. La risolvono a modo loro,
confabulando e decidendo di nasconderla, ma me ne accorgo. A
quel punto devono portarla via e, con un colpo di genio vigliacco,
il dipendente precario PD la dà ad una ragazza, dicendomi
che mi spaccherà la faccia se proverò a toccare
la sua fidanzata. Arriva pure uno da fuori che parteggia per
loro, dicendo che siamo noi i provocatori e che ha tutta l'intenzione
di pestarmi. Ci insultiamo un po', quindi dice che mi aspetterà
dopo senza indicare le categorie fondamentali di luogo e tempo
(mai minaccia fu meno convincente). Gli dico, stando al gioco,
che va bene.
Me ne torno a fare muro, mentre nel frattempo la celere, prima
impegnata a caricare davanti al Comune, arriva a fare da intercapedine
di parte per evitare infiltrazioni fra i mattoni degli schieramenti.
Il partito si defila di lato e tutto termina con un applauso
liberatorio.
Incontro l'amico di sempre che mi racconta di lui, mentre io
di me. Prima di ricomporci, cercando di fare ordine con i nostri
pensieri, abbozzo un sorriso pensando al precario, stasera a
casa, con la sua ragazza e la bandiera anarchica rubata.
Enzo Gregori e Sergio Gambino
Torino
A proposito delle librerie Feltrinelli/amareggiato e infastidito
Gentile Paolo,
(...) volevo sottolinearti una mia amarezza. Un'amarezza che
riguarda il fatto che i circuiti librari della Feltrinelli non
saranno più disponibili ad esser punto vendita di “A”.
La cosa non solo mi ha amareggiato ma mi ha profondamente infastidito.
Io da abbonato sostenitore continuerò a diffondere la
rivista (e qualche volta a chieder ospitalità per qualche
mio piccolo scritto sulle avanguardie giovanili) e soprattutto
continuerò ad invitare i miei amici, colleghi universitari,
studenti e chiunque mi capiti “a tiro” (soprattutto
ai credenti di una sinistra sempre più addomesticata
e massacrata dalla storia) di leggere la rivista e di entrare
nel vivo di un pensiero e di un agire (quello Anarchico) che
oggi più che mai è un respiro di vita.
A presto.
Alfonso Amendola
Salerno
A.A.A.
Estrema destra cerca idoli
Ieri fascisti, oggi fascisti del terzo millennio, cosa è
cambiano durante tutti questi anni? L'estetica è la stessa,
la retorica anche, i simboli e gli slogan urlati durante i loro
raduni hanno tutti i sapori nostalgici del ventennio ma, i loro
idoli oggi sono diversi.
In questi ultimi anni, in Italia, abbiamo assistito alla nascita
di nuove organizzazioni neofasciste, fra le più note
alla cronaca ricordiamo CasaPound, alla quale era iscritto Gianluca
Casseri lo squilibrato che a Firenze il 13 Dicembre dello scorso
anno uccise 2 senegalesi e ne ferì gravemente 3; gli
atti di violenza sono un abitudine alla quale non riescono proprio
a sottrarsi i camerati del terzo millennio, come il revisionismo
storico che adottano per modificare a proprio piacimento la
vita di personaggi illustri, per poterli infine usare nelle
loro campagne propagandistiche.
Quando ha inizio questo “taglia e cuci” di notizie
senza alcun fondamento storico l'impossibile diviene realtà,
così una persona dapprima contestata dall' estrema destra,
come Ernesto “Che” Guevara è sempre stata,
vive inconsapevolmente un'altra vita e diviene così “l'altro
Che” custode dei valori di una destra in calo di notorietà,
la stessa triste sorte è toccata a Rino Gaetano, utilizzato
come volto per numerosi manifesti affissi da estremisti di destra
forse ignari delle simpatie esplicite che nutriva il giovane
cantante e menefreghisti delle denuncie inviate dalla famiglia
del cantautore. La falsificazione è così esplicita
che lascia increduli e sbigottiti, come l'uso improprio di una
frase tratta da “la locomotiva” celebre canzone
del cantautore Francesco Guccini, frase che è stata dedicata,
dai camerati, ai soldati di Salò e provocatoriamente
riportata su numerosi manifesti in giro per le città
durante il 25 Aprile, giorno nel quale cade la ricorrenza della
liberazione italiana dal nazifascismo, inutile dire che Guccini,
il cantautore divenuto famoso negli anni delle lotte studentesche
antifasciste, ha preso prontamente le distanze da questa provocazione
e condannandola ha ribadito le sua appartenenza antifascista
per la quale non ha mai nutrito alcun dubbio. Altre simpatie
unilaterali furono rivolte al protagonista del fumetto “Corto
Maltese” disegnato da Hugo Pratt, uomo dall'animo libertario
e dalle forti simpatie per le lotte studentesche antifasciste
negli anni 70, anche in questo caso l'idea del “pirata
camerata” non è andata giù ai suoi collaboratori
Vianello e Fuga e alla figlia del disegnatore Silvia Pratt.
Il revisionismo tocca in tutti, da Peppino Impastato a Bobby
Sands, perfino Mary de Rachewilt figlia di Ezra Pound, uomo
dal quale prende nome l'associazione CasaPound, li ha denunciati
per l'uso improprio del nome del padre, ma nulla scoraggia i
camerati che per protesta decisero di cambiare per 24 ore il
nome della loro associazione da CasaPound a CasaBene in ricordo
dell'artista Carmelo Bene, ma la scelta risultò poco
furba perché sia la figlia Salomè che la vedova
Raffaella Baracchi denunceranno l'associazione per l'inopportuna
idea.
Cosa hanno trovato in Carmelo Bene di fascista, forse il rifiuto
per lo Stato, per la famiglia e per la religione? Questo non
ci è dato sapere, ma qualcosa invece è più
che chiara, l'estrema destra soffre la carenza di “eroi”
e personaggi da idolatrare e questa “goliardia”
opportunistica con la quale giustificano ogni loro provocazione
è la constatazione che dietro ogni slogan frase fatta
dell'estrema destra si nasconde una abissale mancanza di cultura.
Giuseppe Di Giulio
Potenza
Botta.../Ma
Brassens non era «reazionario e moralista»
Spett. A,
non sono una abbonata alla vostra rivista ma la conosco, la
apprezzo e la compro occasionalmente.
Ho apprezzato il dossier
su Georges Brassens (“A” 371, maggio 2012),
non voglio fare le pulci ad alcune imprecisioni non determinanti.
Quello che mi ha lasciata veramente perplessa è il contributo
di Alessio Lega, un autore che stimo. Cose come Brassens
«reazionario e moralista» nella canzone Le mouton
de Panurge? C'è qualcosa di moralistico nel dire
che l'amore si può fare per amore, per soldi o per piacere,
come pare e piace, come la canzone (e non solo questa, anche
altre) racconta? Brassens non è forse il cantore della
libertà? C'è forse qualche forma di libertà
di pensiero nel seguire la moda senza nemmeno provare un piacere
qualsiasi nel farlo? Nessuna delle strofe di Brassens va isolata
dalle altre, Lega dovrebbe ben saperlo! Anche l'ultima strofa
è l'ironia al massimo grado: la ragazza si innamorerà
quando tornerà di moda il romanticismo. Una canzone può
piacere oppure no, ci mancherebbe, ma va comunque letta con
onestà.
Ancora più grave, il falso riporto di Les deux oncles.
Non «le idee fanno tre giretti, tre piccoli morti e poi
se ne vanno», ma è «è folle morire
per delle idee che fanno tre giretti, tre piccoli morti
e poi se ne vanno», mi sembra che la differenza non sia
da poco. I morti in guerra, si parla di quella del '40, non
sono morti per l'idea della libertà, come si racconta,
ma per le idee insensate, balorde di Adolf Hitler. È
forse rimasto qualcosa di quelle idee, oltre ai morti e all'eredità
lasciata ai naziskin, ancora più stupidi e pericolosi
del loro maestro?
Quanto a Mourir pour des idées, De André
ci teneva tanto ai garrotati spagnoli che non ha pensato a scrivere
una canzone sua sponte. Detto questo, la rima con falce
si fa solo con alce (escluso a priori), calce o salce, variante
di salice. Da qui, la scelta di una rima mancata falce/pace.
Volendo, poteva trasformare la falce in una ranza, ottenendo
qualcosa come: «La morte non ha bisogno che le si tenga
la ranza, / basta intorno ai patiboli far la danza». Rima
comunque imperfetta, una delle z è dura e l'altra dolce.
Daniela Vighesso
Agrate Conturbia (No)
...e
risposta/Brassens qualche caduta di stile, secondo
me, ce l'ha
Cara Daniela,
mi perdonerai ma, nel risponderti più che volentieri,
mi prendo la libertà di darti del tu.
Premetto che Brassens è uno dei dei miei più irrinunciabili
punti di riferimento, proprio e soprattutto perché la
sua opera porosa e aperta ben tollera la discussione, l'analisi
acuta. Malissimo invece quell'opera si dispone ai “guardiani
del tempio”, soprattutto se autonominatisi. Brassens,
fra le molte cose che è, è anche un grande provocatore,
e il non lasciarci a-criticamente a bocca aperta, ma disporci
al contempo all'ammirazione come al dissenso, è di certo
uno dei suoi scopi.
Brassens è un “moralista”, temperato dal
fatto di non voler imporre la sua morale ad alcuno. D'altronde
anch'io sarei fiero di esser considerato tale.
Nello specifico mi pare che quando canta un inno alla fedeltà
di coppia in un capolavoro assoluto quale “Saturne”
o nella bellissima “La princesse et le croque-notes”,
sia del tutto condivisibile proprio perché è lui
stesso coi suoi sentimenti al centro della questione. “Le
mouton de Panurge” invece, nella quale bistratta la riappropriazione
del corpo femminile attraverso l'uso strumentale del sesso,
continua a parermi una canzone bacchettona. Terribilmente ben
scritta e raffinata, ma bacchettona nella sostanza. Ribadisco
che la sua tirata a favore delle “veneri della vecchia
scuola” e il suo evidente disprezzo per quelle della “nuova”
- che fanno l'amore solo perché è di moda farlo
- è un atteggiamento da vecchio signore, che rimpiange
i “sani” bordelli di una volta, quando le puttane
erano delle professioniste di buon cuore. È un topos
brassensiano ripreso in un altro bozzetto a mio avviso piuttosto
mediocre: “Concurrence Déloyale”. Queste
canzoni sono delle piccole cadute di stile del “vecchio
leone”, che nulla tolgono alla sua immensa vena, alla
sua poesia fresca e minuziosa, al suo rigore impareggiabile.
A te poi queste canzoni potranno anche piacere e ci potrai leggere
tutto il contrario di quello che ci leggo io (la grande poesia
è sempre suscettibile di punti di vista alternativi),
ma è nel tacciare di disonestà la mia lettura
critica che fai un grande dispetto, non tanto a me, quanto al
menestrello libertario del quale ti ergi ad avvocato d'ufficio.
Stendiamo pure un velo sull'altra canzone di Brassens che citi
“Les deux oncles”, forse la sua più ambigua,
dove si arriva a mettere a paragone non i morti sui due fronti
del 1940, bensì quelli del '43/'45, ovvero a dire che
paiono indifferentemente biasimabili i collaborazionisti e i
resistenti (“De vos épurations, vos collaborations/Vos
abominations et vos désolations”). Io penso ancor
oggi, che quando mi si propone di mettere sullo stesso piano
i “ragazzi di Salò” e “la meglio gioventù”
resistente, faccio le barricate e mi stringo grato alla memoria
partigiana.
Temo di non aver per nulla capito i tuoi rilievi in merito a
“Morire per delle idee”. Lì, senza entrare
nel merito né della canzone di Brassens (precedente al
garrotaggio di Puig Antich) né della traduzione deandreiana,
mi limitavo a proporre quell'ipotesi intrigante, che ci racconta
solo come ogni traduzione sia un lavoro creativo, a volte più
creativo della critica propriamente detta.
Ti saluto e spero di aver confutato le tue posizioni senza minare
la stima che professi per me all'inizio della tua lettera.
Alessio Lega
Ma
io sono andato a vedere il film di Giordana
A differenza di Carlo Oliva (Ma
io il film di Giordana non lo andrò a vedere,“A“
372, giugno 2012), le cui bellissime parole condivido dalla
prima all'ultima, io il film di Giordana l'ho visto. Perché
mi hanno invitato all'anteprima. E' stata la prima volta della
mia lunga vita, non mi era mai capitato, il mondo cinematografico
mi è estraneo (anche se, negli anni '70, avevamo parlato
a lungo, io e altri avvocati, con Giuliano Montaldo che voleva
fare un film su Valpreda e Pinelli) e ne sono meravigliato ancora
adesso. Devo essere nella mailing list di qualcuno che c'entra
col film.
O forse, ho pensato, a qualcuno è venuto in mente quel
Comitato di Difesa e di Lotta contro la Repressione che il gruppo
di giovani avvocati di cui facevo parte (e che non era il “Soccorso
Rosso” con cui talvolta viene confuso, altra parrocchia)
aveva costituito per far fronte in modo organizzato alle continue
richieste di intervento di ragazzi (“compagni”,
si diceva allora), delle loro famiglie, o di organizzazioni
politiche (in particolare il Movimento Studentesco, ma non solo)
fermati, arrestati, processati a séguito di manifestazioni
di piazza che, all'epoca, erano all'ordine del giorno: persone
per lo più sconosciute che sapevano di poter chiamare
gli avvocati del Comitato, e avrebbero avuto assistenza, assolutamente
gratuita.
Io allora ero radicale, da quando avevo 16 anni, e ho continuato
a esserlo, con variazioni di intensità, anche quando
seguivo il Movimento studentesco di Mario Capanna o quando frequentavo
gli anarchici (che avevo conosciuto alle marce antimilitariste
Milano-Vicenza organizzate dal Partito Radicale a metà
degli anni '60) o i situazionisti e altri ancora. L'idea del
Comitato mi era venuta da lì, al Partito, ne avevo parlato
con amici di diverse estrazioni, e il Comitato era nato.
Nel film, naturalmente, di questo Comitato non si parla, eppure
ha avuto un ruolo molto importante su piazza Fontana, nell'aprire
gli occhi di chi non voleva chiuderli: emettavamo comunicati
su comunicati ed eravamo un punto di riferimento anche per i
giornalisti più attenti.
Tra marce antimilitariste, Comitato di Difesa e di Lotta e conoscenze
personali, ero venuto in contatto con Pino Pinelli che mi aveva
chiesto di assistere Paolo Braschi per le bombe del 25 aprile
alla Fiera e alla stazione centrale di Milano: innocente accusato
insieme ad altri cinque anarchici in quel terribile 1969, ragazzo
mite e un po' spaesato, che sono andato a trovare a S. Vittore
proprio la mattina del 13 dicembre: “e adesso cosa ci
succederà?” era stata la sua domanda (la sua recente,
tragica scomparsa mi ha molto colpito: non l'avevo più
rivisto da allora, anche lui avrebbe avuto molto da raccontare).
E al Comitato si era rivolto anche Pietro Valpreda: aveva un'imputazione
per stampa clandestina e offesa al Pontefice, ed era stato convocato
dal Giudice Istruttore di Milano al quale avrebbe dovuto presentarsi
il 12 dicembre. Valpreda non aveva capito il perché della
convocazione, pensava alle offese al Pontefice, ma in realtà
doveva solo essere sentito come testimone nel processo per le
bombe del 25 aprile; senonché, a causa della febbre e
di uno stato di salute assolutamente non consono a una deposizione
davanti a un magistrato, il mio collega di studio Luigi Mariani
(che aveva assunto la difesa di Pietro per l'imputazione di
stampa clandestina e di offese al Pontefice), constatate di
persona le sue precarie condizioni (era venuto, febbricitante,
nel nostro studio la mattina del 12 dicembre per essere accompagnato
in Tribunale), gli aveva spostato l'udienza prima al 13 e poi
al 15 dicembre, lunedì, d'accordo con la cancelleria
del Giudice. E' per questo che Valpreda era a Milano il 12,
ed è uscendo dall'ufficio del Giudice il 15 che è
stato prelevato da due figuri in grigio che senza spiegazioni
lo hanno trascinato via (racconto della nonna Olimpia, che l'ha
accompagnato prima in studio da noi e poi al Palazzo di Giustizia).
Di tutto questo, che è un passaggio fondamentale nella
storia di Pietro Valpreda [non si dimentichi: portato dal Tribunale
in Questura, poi a Roma in auto, poi in carcere e sottoposto
al famoso riconoscimento da parte di Rolandi (anch'egli portato
da Milano a Roma) tra quattro azzimati poliziotti in giacca
e cravatta (la fotografia del “confronto all'americana”
è un piccolo capolavoro), lui che veniva da una brutta
influenza e da uno sballottamento del genere, senza riposo,
senza cambi d'abito, senza essersi potuto lavare] e delle manipolazioni
sulla strage di piazza Fontana [la magistratura di Milano, “inaffidabile”
perché garantista, scavalcata e spogliata di un processo
che era suo a favore di quella romana che poi, riconosciuta
la propria incompetenza, nel 1972 restituirà il processo
a Milano, che lo perderà nuovamente grazie al Prefetto
di Milano e alla Corte di Cassazione che, per “legittima
suspicione”, lo sposterà a Catanzaro: anche la
città di Milano era “inaffidabile”. Kafka
non avrebbe saputo inventare di meglio] nel film c'è
poco più di una battuta, fatta dire da Valpreda a una
delle “spie” del Circolo XXII marzo mentre sale
in macchina per partire verso Milano.
Non faccio il critico cinematografico, ma quando si sceglie
di far impersonare da attori “somiglianti” ai protagonisti
una sceneggiatura che si vuole “somigliante” alla
verità, si avrebbe il dovere di rispettarla, la verità,
e non di farne l'ennesima versione superficiale (e di superficialità,
nel film, ce n'è davvero tanta, forse troppa, a cominciare
dalla bibliografia).
Con questo non mi riferisco alla seconda parte del film, pura
fantasia, forse “sogno” del commissario Calabresi
se non ho interpretato male un passaggio: ma come si fa, mi
chiedo, a costruire un film che vuole essere “verosimile”
e poi ad appiccicarci una parte senza riscontri, che a me è
parsa di puro comodo per rendere credibile il salvataggio della
figura del commissario, che nel 2012 non ne aveva neppure bisogno,
e che ad ogni modo, come scrive Carlo Oliva, “nessuno
mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità
e le colpe di quel personaggio”.
Non è soltanto questo (e sarebbe abbastanza), ma anche
la ricostruzione del processo al commissario Calabresi, anzi,
scusate, al direttore responsabile di Lotta Continua Pio Baldelli
è molto, molto lontana dalla realtà. L'aula del
Tribunale era gonfia di pubblico, di avvocati, di giornalisti,
l'emozione era tangibile, in certe udienze si faceva fatica
a muoversi, ci sono stati interventi della polizia per sgomberare
la folla che si accalcava alle porte dell'aula già stracolma
(nel film c'è solo un applausino del pubblico, subito
represso dal Presidente Biotti). Bastava dare una scorsa ai
giornali dell'epoca, ottobre/novembre 1970: le fotografie parlano
da sole, il film no.
Ancora, le piantine dei locali della Questura fornite ai giudici
erano fuori scala, per cui l'ufficio dell'interrogatorio di
Pinelli sembrava una stanza grande (come è poi rappresentata
nel film), la scrivania aveva le dimensioni di un tavolino e
le sedie bastavano a stento per un gatto. Durante il sopralluogo
in Questura la realtà venne a galla: sei persone o quante
erano la riempivano tutta, seduti o in piedi e con dei mobili
di dimensioni normali [prendo il più “di destra”
dei giornali dell'epoca: La Notte, 6 novembre 1970, la cui cronaca
apre così: “La stanza è piccola, ci si muove
a fatica. Una scrivania al centro, un paio di scaffali per i
fascicoli, le scartoffie, qualche sedia e una poltroncina. E'
la stanzetta del quarto piano...dalla finestra della quale la
notte tra il 15 e il 16 dicembre dello scorso anno si buttò
il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli”].
Anche di questo nel film non c'è traccia, eppure è
stato uno dei momenti davvero significativi di quell'allucinante
processo, ed è anche lì, oltre che nelle clamorose
contraddizioni dei testimoni-poliziotti presenti al fatto, che
a una persona normale non potevano non sorgere dei dubbi che,
sempre per cercare di essere non faziosi, posso riassumere così:
“ma che cosa si vuole nascondere?”.
Senza contare tutto il resto, a partire dal fermo illegale di
Pinelli, non comunicato alla Procura della Repubblica nella
data in cui era avvenuto, ma solo il 15 dicembre con la falsa
indicazione che era stato fermato il 14 dicembre: e nessun fermo
era stato convalidato dalla Procura di Milano.
Si, nel film tutto questo non c'è, come non c'è
molto altro. Non c'è il “clima”, non c'è
l'emozione, non c'è il pathos di una vicenda che ha segnato
e stravolto storie individuali e la storia del paese.
|
Milano,
16 giugno 1980. L'avv. Luca Boneschi (foto Giovanna Borgese) |
E adesso mi arrogo il diritto di fare un po' il critico cinematografico:
non è un bel film, anche se è stato premiato dal
successo di critica e, immagino, di pubblico così come
non è un bel libro quello cui il film si ispira (anche
se, e questo è uno dei misteri del giornalismo italiano,
di tanti bei libri su piazza Fontana è il solo, che io
ricordi, a essere stato presentato e recensito in pompa magna
dal Corriere della Sera e da un suo notissimo editorialista:
forse perché semina il dubbio? è questa la chiave
del successo? forse perché raddoppia i personaggi, non
rispetta fatti veri e tende a dire che tutto è possibile?
o che la verità non esiste?): andarlo a vedere o meno
è, come scrive Carlo Oliva, una scelta personale, per
noi che quella storia abbiamo vissuto. Forse se non mi avessero
invitato non l'avrei visto neanch'io, come non ho mai letto
il libro del figlio di Calabresi.
Ma il vederlo mi ha scosso: non mi ha emozionato, per nulla;
non mi ha commosso (l'ho già detto, è senza pathos),
ma mi ha fatto tornare la voglia di parlare di quei fatti che
spesso rimuovo perché troppo lontani e perché
me li porto dietro da troppo tempo, di rimettere in discussione
figure ormai intoccabili, di ricordare i particolari, di raccontare
a chi non le sa le vicende di una storia che, a ricordarla,
è ancora oggi sconvolgente. Ecco, il punto è questo:
l'unica cosa da non fare, di fronte a quelle che si ritengono
manipolazioni della storia, è tacere.
Luca Boneschi
Milano
Ergastolo
ostativo/Un libro per una battaglia di civiltà
Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e finepenamai, edito
da Stampalternativa, e curato da Francesca de Carolis, con prefazione
di Don Luigi Ciotti, è un libro importante e necessario.
“Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà
che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo
sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra
vita e che - di fatto - ci riguardano” così Don Luigi
Ciotti nella prefazione al libro. Si tratta di una raccolta di
interventi di 36 ergastolani ostativi, quasi tutti passati per
il 41 bis, sparsi un po' in tutte le carceri italiane, nei circuiti
AS1. Per loro, dopo le leggi emergenziali in vigore a partire
dagli anni '90, e per via del meccanismo che ne deriva, scatta
quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”, perché
non sono collaboratori di giustizia: la loro situazione, insomma
“osta” a che, anche dopo lunghi anni di carcere (e
c'è chi ne ha trascorsi in carcere trenta), possano ottenere
benefici normalmente previsti dalla legge. In pratica dal carcere
non escono né usciranno mai.
In questo libro parlano della loro condizione, di quello che pensano,
di quello che chiedono. Parole che aprono uno squarcio su un mondo
complesso e contraddittorio e pongono un interrogativo: è
giusto, qualsiasi cosa sia stata commessa (e qualcuno comunque
qui si dichiara innocente) essere “condannati” per
sempre? Perché, almeno in teoria, per chiunque è
ammessa “la redenzione” e per loro no? E non è
questo in contrasto evidente con il principio, contenuto nella
nostra Costituzione, del fine rieducativo della pena? Si tratta
delle stesse persone che hanno provocatoriamente chiesto a Napolitano
di tramutare la loro condanna in pena di morte perché,
dicono, “di morte viva si tratta”.
Il libro, a distanza di vent'anni dall'inasprimento delle leggi
introdotte per combattere la criminalità organizzata, pone
una questione di diritto e di diritti, e apre a molti interrogativi
sul senso della pena. Una questione forse da non accantonare,
pur in un momento di tante polemiche a proposito di 41 bis e dintorni,
o forse proprio per questo. È un tema di cui si parla grazie
ad organizzazioni che si occupano di diritti umani, della condizione
dei carcerati, all'interno del mondo carcerario, ma che trova
una grande chiusura nella società.
Don Luigi Ciotti è firmatario dell'appello contro l'ergastolo,
iniziativa di Carmelo Musumeci, che dal carcere di Spoleto, due
anni fa, aveva lanciato l'idea da cui è poi nato “Urla
a bassa voce”. Fra gli aderenti alla campagna contro l'ergastolo,
anche Umberto Veronesi che, sostenitore dell'origine ambientale
del male, afferma che “l'ergastolo equivale alla morte cerebrale”,
mentre oggi sappiamo che il nostro cervello può rinnovarsi,
premessa che può avere forti implicazioni sul piano della
giustizia.
Per info: francesca.deca@virgilio.it;
ufficiostampa@stampalternativa.it.
I
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Sottoscrizioni. Katia Attiani (Roma) 6,00;
Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 20,00; Angelo
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Alfonso Failla, 500,00; Roberto Ceruti (Albisola Marina
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a/m G.B. Albani, Spazio “Sole e Baleno“
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(Genova) 30,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero
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dalla cena di sottoscrizione per “A“ tenutasi
il 13 luglio presso l'Archivio-Biblioteca della Federazione
Anarchica (FAI) di Reggio Emilia, 300,00; Andrea Cardin
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(Roma); Fabrizia Golinelli (Carpi – Re); Giulio
Zen (Gualdo Tadino) 250,00. Totale € 1.550,00
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