cronache
La difesa della privacy
Nell'era di Internet
Stefano Rodotà, ex garante della privacy, in un libro
di qualche anno fa sosteneva quanto fosse difficile difendere
le ragioni della privacy nell'attuale cultura dominante
in Rete, dove tutti possono scrutare il singolo che si espone
volontariamente e con sempre maggiore piacere all'occhio
planetario. In Italia poi, la discussione sul tema della
privacy è ancora più difficile da affrontare,
in quanto tra coloro che si ergono a sua difesa, vi è
addirittura, almeno a parole, il nostro governo.
Per farsi un'idea sul tema privacy nel cyberspazio, si può
partire dal conoscere le posizioni di coloro che, per primi,
hanno con coerenza sostenuto la necessità di tutelare
la privacy in Rete: i cosiddetti cypherpunk.
I cypherpunk sono nati all'inizio degli anni ’90 come
un gruppo informale di persone di cultura anarcolibertaria,
interessate alla privacy e alla crittografia, e che inizialmente
comunicavano attraverso la mailing-list cypherpunk1.
Nel Cypherpunk's Manifesto di Eric Hughes (1993) si legge:
“Dobbiamo difendere la nostra privacy, se vogliamo
averne una. Dobbiamo unire le nostre forze e creare sistemi
che permettano lo svolgersi di transazioni anonime. Da secoli
la gente difende la propria privacy con sussurri al buio,
buste, porte chiuse, strette di mano segrete e corrieri.
Le tecnologie del passato non permettevano una forte privacy,
ma le tecnologie elettroniche sì. Noi cypherpunk
siamo votati alla costruzione di sistemi di anonimato. Noi
difendiamo la nostra privacy con la crittografia, con sistemi
di invio di posta anonimi, con firme digitali e con il denaro
elettronico”2.
Il Manifesto di Eric Hughes distingue poi la privacy dalla
segretezza: “privacy non significa segretezza.
Un argomento privato è qualcosa che si desidera far
conoscere, ma non a tutti; invece un argomento segreto è
proprio un argomento che non si vuole far conoscere, che
si vuole nascondere. La privacy è quindi il potere
di scegliere come rivelarsi al mondo”2.
È “il potere di rivelare se stessi [...]
in maniera selettiva”2.
Anche in Italia, a partire dalla fine degli anni 90, la
cultura cypherpunk ha ispirato la nascita di diverse iniziative
contro il tecnocontrollo. Tra queste, il Progetto Winston
Smith (dall'omonimo protagonista del romanzo di George Orwell
“1984”), attivo dal 1999, si propone di “sensibilizzare
ed aiutare le persone ad ottenere il grado di privacy che
ritengono necessario; costruire una risorsa «dimostrativa»
totalmente anonima, utilizzando tutti i mezzi tecnici per
la e-privacy esistenti, [...] una prova di fattibilità`
dell'anonimato tecnologico per tutti”3.
Per il Progetto Winston Smith, “la privacy nel
cyberspazio è un diritto individuale sostanziale,
inalienabile, primario”3.
Garantire la privacy non significa affatto garantire una
libertà eccessiva, bensì fondamentale.
Il problema che i cypherpunks prima (e oggi molti altri)
mettono in luce è proprio il fatto che in Rete (a
meno di non prendere le opportune precauzioni) non abbiamo
la libertà di scegliere come e cosa rivelare di noi
stessi.
Così continua il Cypherpunk's Manifesto: “quando
acquisto un giornale in un edicola o in un negozio qualsiasi,
una volta che ho pagato, nessuno ha necessità di
sapere chi io sia. Analogamente quando richiedo al mio provider
di inviare o ricevere le mie e-mail tramite i suoi server,
non è certo necessario che il mio provider sappia
a chi sto scrivendo, o cosa sto scrivendo, o chi sono coloro
da cui ricevo messaggi, quali sono gli argomenti, o i contenuti
delle mie comunicazioni. Il mio provider deve solo sapere
come recapitare o ricevere la mia posta e quanto lo devo
pagare per questi suoi servizi. Quando la mia identità
viene rivelata dai meccanismi sottostanti ad ogni mia comunicazione,
di fatto, io non ho privacy. Non posso scegliere se e cosa
rivelare di me. Devo sempre rivelarmi.”1
Senza le opportune precauzioni ed attenzioni, le strutture
attuali della Rete veicolano a potenziali terzi dati privati
senza consenso.
I cypherpunks, però, non si limitano a denunciare
il pericolo dell'avverarsi della profezia orwelliana della
fine della privacy. Internet non è inevitabilmente
destinata a diventare lo strumento del Grande Fratello.
La tecnologia non è necessariamente il nuovo Moloch.
Come si legge in Kriptonite (ottimo libro prodotto in Italia
dalle culture cypherpunk e CryptoAnarchy) “la tecnologia
è come l'informazione: non è reversibile.
Non si può tornare indietro, non si può dimenticare
l'informazione o la tecnologia [...]” Le tecnologie
non hanno né un potenziale liberatorio né
un potenziale di dominio. “Libertà e dominio
sono categorie che riguardano gli uomini e non le macchine
[...] anche se ci sentiamo vicini a chi diffida della tecnologia
sottolineando la sua funzionalità al dio della produzione.”4.
È proprio grazie alle possibilità tecnologiche,
infatti, che la privacy in Rete può essere tutelata.
Per i cypherpunks questa tutela deve innanzitutto avvenire
su un piano parallelo, non necessariamente in contrasto,
con il mondo delle leggi. La privacy è un bisogno
che può e deve essere soddisfatto grazie ad un uso
intelligente della tecnologia. Soddisfare il proprio bisogno
di privacy è un atto unilaterale. Prima ancora di
essere un diritto tutelato o meno da una buona o cattiva
legge, è un esigenza primaria che ognuno deve poter
soddisfare unilateralmente.
In Rete, secondo i cypherpunks, possiamo e dobbiamo usare
programmi (ad esempio GnuPG) che ci permettano di criptare
la nostra presenza nel Cyberspazio, garantendoci, eventualmente,
anche l'anonimato. Questi programmi per la tutela della
propria privacy
-
sono utilizzabili individualmente e unilateralmente
- non richiedono la mediazione di partiti o associazioni
- il loro uso difende la sfera individuale e si affida
alla responsabilità del singolo - detto diversamente,
il loro uso può risultare sociale o antisociale
a seconda delle circostanze, dei punti di vista e degli
utilizzatori stessi.4
Gli attivisti digitali, gli hacktivisti, i cypherpunks e
molti altri legittimano e difendono l'utilizzo della crittografia
a dispetto delle scelte politiche e militari degli stati e
hanno ingaggiato un duro conflitto coi governi per garantirne
la libera diffusione. Ciò che contestano è in
definitiva la tesi secondo cui i software di crittografia,
pensati per tutelare la privacy, possono essere usati anche
da chi vuole commettere reati, rendendo necessaria una forte
limitazione sulla produzione di tecnologie crittografiche
e, come i servizi di sicurezza federali hanno proposto al
Congresso americano, l'installazione di una backdoor governativa
sugli stessi programmi di crittografia per controllarne l'uso.5
Per i cypherpunk e gli attivisti digitali la crittografia
non può essere regolamentata o proibita dalle leggi
dello stato.
“I cypherpunks condannano le regolamentazioni sulla
crittografia, dato che criptare dati è fondamentalmente
un atto privato. Quando usiamo la crittografia, infatti, non
facciamo che impedire di rendere pubbliche alcune nostre informazioni.
In definitiva, le leggi contro la crittografia mostrano solo
l'arbitrarietà dei confini dell'azione dello stato
e della sua violenza”2.
Per Il Progetto Winston Smith “segretezza ed anonimato,
riuniti in quello che chiamiamo «privacy» sono
un diritto ancora più vasto della libertà di
espressione, ed altrettanto essenziale. Per contrastare i
criminali, la società non può pretendere che
tutti vivano in case di vetro; si tratta di preservare il
bene maggiore. Diritti sostanziali ed inalienabili di tutti
*devono* avere la precedenza su situazioni in cui i diritti
altrettanto inalienabili di pochi sono minacciati, per esempio
da atti criminali. Non mancano certo le possibilità
per difendere le vittime senza limitare i diritti di tutti;
piuttosto le vittime vengono spesso portate come pretesto
per politiche totalitaristiche e liberticide.”3
Perché, come dice Paul Zimmermann, autore del più
noto software di crittografia, il Pgp: “Se la privacy
viene messa fuori legge, solo i fuorilegge avranno privacy”5.
Per scongiurare il tecnocontrollo, il Progetto Winston Smith,
che ogni anno organizza il convegno “E-privacy”
(nel 2012, a Milano, il 21 e 22 giugno), considera fondamentale
affermare e difendere i seguenti diritti nell'Internet quale
è oggi (diritti che potranno modificarsi con la sua
evoluzione):
- la possibilità di inviare e ricevere posta
senza che nessuno la possa leggere (diritto alla
riservatezza) e, nel caso lo si ritenga necessario,
senza che nessuno possa risalire all'identità del
mittente e del destinatario (diritto all'anonimità)
- la possibilità di pubblicare e diffondere
informazioni su Internet senza che nessuno le possa cancellare
(diritto alla libertà di parola)
e senza che sia possibile risalire all'identità
di chi le diffonde e di chi le legge (diritto
a non essere censurati e libertà di scelta dell'informazione)
- la possibilità di agire in Internet come siamo
oggi abituati a fare, surfando, chattando, mandando posta,
senza che nessuno possa registrare le nostre azioni (diritto
alla privacy).3
Luca Cartolari
1 http://en.wikipedia.org/wiki/Cypherpunk
2 http://www.activism.net/cypherpunk/manifesto.html
3 http://pws.winstonsmith.info/
4 http://www.ecn.org/kriptonite/
5 A. Di Corinto e T.Tozzi - Hacktivism. La libertà
nelle maglie della rete - Manifesto Libri (2002)
Bologna. 1/
Un fiore per Edera
Nel tardo pomeriggio di sabato 7 luglio una quindicina
di noi hanno voluto portare un fiore sulla lapide che ricorda
Edera De Giovanni. Lì, sul muro della Certosa di
Bologna, fu fucilata 1°aprile del 1944, insieme ad altri
cinque compagni, tra i quali l'attivissimo anarchico Attilio
Diolaiti.
Edera fu la prima donna resistente a finire, a Bologna,
davanti a un plotone d'esecuzione fascista durante la Repubblica
di Salò. Coinvolta nella lotta clandestina e nel
sabotaggio nella zona di Monterenzio, in collegamento con
le brigate Garibaldi, il 25 marzo 1944 fu arrestata dalle
brigate nere sotto le Due Torri, torturata per una settimana
nel carcere di San Giovanni in Monte e poi fucilata. Edera
era una ribelle due volte: ribelle all'oppressione
fascista e ribelle all'ideologia sessista che il fascismo
aveva ulteriormente rafforzato in una società già
patriarcale come quella italiana.
Sotto un sole cocente Pino Cacucci ha letto le pagine che
le ha dedicato nel suo ultimo libro Nessuno può
portarti un fiore. Una lettura sentita e commovente,
forte, incisiva come sa essere l'arte. Altri compagni hanno
spiegato le ragioni della continuità dell'impegno
contro ogni fascismo e hanno ricordato brevemente la figura
del compagno Diolaiti. Poi, riavvolta la bandiera della
Federazione Anarchica Bolognese, siamo tornati al Circolo
Anarchico Berneri di Porta S. Stefano, dove si è
aperta una tavola rotonda di discussione sulle donne nella
resistenza e sull'antifascismo di ieri e di oggi. È
stato distribuito lo scritto di Martina Guerrini Donne
di “contegno ribelle” e Marco Rossi, da
cui era partita l'idea di ricordare Edera, ha introdotto
la chiacchierata, che si è protratta fino a tarda
sera. Ora e sempre Resistenza!
I compagni e le compagne del
Circolo Anarchico Berneri
circoloberneri.indivia.net
Bologna. 2/
Quarant'anni del Cassero
Il 2 giugno 2012, nella piazza di Porta Santo Stefano a
Bologna, è stata una bella giornata: in tutti i sensi.
Il clima caldo, afoso come si conviene alla città;
la partecipazione, che non è eufemistico definire
massiccia; lo stupore di chi transitava nei viali di circonvallazione
o sugli autobus che passavano per la via nel vedere quell'assembramento
di cui non c'era traccia sui giornali, hanno caratterizzato
la giornata di festeggiamenti per i quarant'anni di attività
del circolo anarchico Camillo Berneri.
Il programma è stato seguito con rigore e puntualità,
senza nulla togliere ai contributi spontanei e alla convivialità.
I due casseri (il Berneri e l'Atlantide) erano addobbati
da striscioni già nelle prime ore del pomeriggio
e la mostra era già allestita quando, alle 17.00,
è partita la presentazione del libro Case del
Popolo, case di tutti? con interventi di Alberto Ciampi,
Marco Rossi e Sergio Mechi, fra gli autori del volume. Il
dibattito è andato avanti fin quasi alle 19.00, con
la partecipazione di una cinquantina fra compagne e compagni,
alcuni venuti da altre città, che hanno ripercorso
e approfondito i temi e le storie suggerite da questo bel
libro, collegando le esperienze delle vecchie Società
di Mutuo Soccorso alle Case del Popolo, alle Camere del
Lavoro, per arrivare, in anni relativamente vicini, ai Festival
del Proletariato Giovanile ed ai centri sociali occupati
ed autogestiti.
|
Bologna,
2 giugno 2012 - Il Cassero
di Porta Santo Stefano, da 40 anni
storica sede anarchica |
Intanto in strada si cominciava a raccogliere una piccola
folla. Era arrivata la Banda Roncati (che festeggia i suoi
vent'anni di attività) e, poco dopo, si sarebbe riunito
anche un ensemble dell'Hard Coro De' Marchi (entrambe
le formazioni sono colonne portanti della scuola popolare
di musica Ivan Illich). Fra suonate e canzoni (da quelle
anarchiche, alle immancabili anticlericali, a quelle dei
partigiani bolognesi o delle risaie della “bassa”)
si era giunti quasi alle 21.00 quando è iniziato,
dentro Atlantide, il concerto di Alessio Lega, da tutti
definito toccante ed entusiasmante. Nei portici del Berneri
funzionava il buffet e la distribuzione di bevande. Ma i
convenuti erano troppi per essere contenuti nei due casseri,
per cui parte della via Santo Stefano era di fatto occupata.
Alcune centinaia le persone che hanno circolato all'interno
dell'iniziativa, che ha preso i veri e propri colori della
festa, protraendosi fino a tarda ora. Molti i compagni e
le compagne delle varie realtà bolognesi che hanno
partecipato all'iniziativa con gioia e solidarietà:
dal Vag61 all'XM24, dall'Iqbal alla Casa del Popolo di Ponticelli
e alle compagne ed i compagni del collettivo Malasorte,
che hanno supportato Atlantide per tutta l'attività
di service ai concerti.
L'altro elemento caratterizzante è stata la massiccia
presenza di giovani compagne e compagni, tanto che chi non
lo sapeva non poteva immaginare che si festeggiassero quarant'anni
di vita del circolo anarchico ma, forse, un'occupazione
appena avvenuta.
Una saldatura fra storia e attualità, fra memoria
e voglia di futuro che è il migliore testimone della
vitalità delle idee e delle pratiche anarchiche a
Bologna.
Quarant'anni e non li dimostra il nostro circolo: già,
perché la sua storia è un pezzo della storia
del movimento a Bologna e nella sua provincia. Erede della
“vecchia” Camera del Lavoro di via Lame, dove
prese vita l'Unione Anarchica Italiana nel 1920, dopo la
ristrutturazione dei locali nel 1972, sotto la guida attenta
di Alfonso “Libero” Fantazzini, è diventato
“sede del movimento anarchico internazionale”
(come recita lo statuto), nell'ottica di un patrimonio collettivo
inalienabile e indivisibile.
Qui, nel corso degli anni, hanno svolto la loro attività
innumerevoli compagni e compagne: il gruppo Autogestione,
alcuni collettivi studenteschi, il gruppo di Comunismo Libertario,
la Federazione Anarchica Bolognese aderente alla FAI, la
redazione di “Umanità Nova” tra il 1978
e il 1980, quella de la “Questione Sociale”
e del “Cattivo Pensiero”, il collettivo di Aradio
Ricerca Aperta, il Telefono Viola, poi più recentemente
i collettivi Magma, Antigone, quello del giornale murale
“Atemporale Anarchico”, il gruppo serigrafia
ecc... Qui hanno suonato e stampato anche gruppi punk come
i Raf Punk e i Nabat e uno dei tavolacci che usiamo per
le riunioni è stato il loro palco...
Dal 1972 a oggi il circolo continua a ospitare riunioni
su riunioni: quelle dei comitati contro il nucleare civile
e militare, contro la guerra, la repressione e ancora riunioni
del sindacalismo di base, antifasciste, dei migranti. E
poi cinema, performances teatrali, musica, laute
cene sociali sempre affollate e presentazioni di libri:
il circolo Berneri è questo e molto altro. Come abbiamo
scritto sul sito (circoloberneri.indivia.net)
guardiamo avanti “tutti decisi a metterci del proprio
per l'anarchia! Almeno per altri quarant'anni.”
I compagni e le compagne del
Circolo Anarchico Berneri
(Bologna)
USA/Ancora
Sulle cooperative
Enrico Massetti, nostro collaboratore, residente da anni
negli USA, autore per “A” di numerosi articoli
e di un dossier a puntate riguardanti le cooperative gestite
dai lavoratori attive negli Stati Uniti, ci propone questa
volta l'esperienza emblematica di due imprese, sorte rispettivamente
a Chicago e Cleveland, attraverso le parole di Gar Alperovitz,
professore di Economia Politica presso l'Università
del Maryland.
I lavoratori della neonata cooperativa New Era Windows di
Chicago, gli stessi lavoratori che hanno scioperato e costretto
Energy Serious, i proprietari attuali, a fare marcia indietro
nei confronti di una frettolosa chiusura dei loro impianti
a Goose Island pochi mesi fa e che hanno occupato la fabbrica
per sei giorni nel dicembre 2008, stanno mettendo insieme
un piano audace, che potrebbe suscitare l'attenzione nazionale,
spronando altri a seguire il loro esempio. Nonostante la
brillante partenza, avranno bisogno di tutto l'aiuto che
possono ottenere, sia finanziario che politico.
Io sono stato tra gli artefici di un tentativo di fondare
un'acciaieria di proprietà dei lavoratori in Youngstown,
Ohio, nel tardo 1970: un piano che ha avuto inizio con intenzioni
potenti, il sostegno finanziario dell'amministrazione Carter
e l'appoggio di leader religiosi e politici, in Ohio e nella
nazione. Il piano era in corso, compresa la promessa di
100 milioni di dollari in garanzie sui prestiti dall'amministrazione
Carter, fino a che, in qualche modo, coloro che si opponevano
al piano sono riusciti a distruggere lo sforzo, e il denaro
promesso è scomparso convenientemente subito dopo
le elezioni del 1978.
I lavoratori di Chicago hanno una possibilità di
successo decisamente maggiore. Hanno le competenze necessarie
per gestire un business produttivo. Hanno un buon mercato
- una finestra ad alta efficienza energetica è un
buon investimento nell'inverno di Chicago e le pesanti,
fragili, finestre costruite su misura sono molto meno esposte
alla concorrenza globale rispetto ad altri prodotti - inoltre,
grazie alla loro lotta ispiratrice per mantenere i propri
posti di lavoro, possono contare su un notevole sostegno
pubblico. Essi godono anche dell'appoggio del United Electrical
workers (UE): un sindacato indipendente e fieramente democratico;
e il sostegno del Working World, un'organizzazione non-profit
che ha contribuito a concedere centinaia di prestiti alla
fiorente rete Argentina, che lega imprese “recuperate”
di proprietà dei lavoratori.
Questi ultimi stanno prendendo la situazione molto sul serio:
dopo tutto, è il loro mezzo di sussistenza che è
in ballo. Nei mesi scorsi, sono stati impegnati nell'acquisizione
delle competenze di cui avranno bisogno, non solo per costruire
le finestre, ma anche per commercializzare il loro prodotto
e garantire e rispettare i contratti. Sono stati racimolati
1000 dollari a testa per acquistare la cooperativa appena
formata. E sono stati scoperti aggiornamenti tecnologici
- come un progetto di isolamento acustico dell'aeroporto
Midway.
Eppure, questo è un business difficile. Se c'è
una lezione che è parsa chiara fin dai primi esperimenti
di realizzazione di cooperative di proprietà dei
lavoratori, è che la costruzione di un potente gruppo
di sostegno locale e nazionale, composto da figure pubbliche,
organizzazioni non-profit, dirigenti sindacali nazionali
e religiosi e altri, possono essere di grande ed inaspettata
importanza. Può aiutare a mantenere in vita la storia
nei momenti critici, e anche aiutare a creare e sostenere
un mercato (le chiese, ad esempio, comprano un sacco di
finestre, come fanno molte altre organizzazioni non-profit).
Intanto i lavoratori sono occupati a Chicago con la miriade
di attività che gravitano attorno alla raccolta di
fondi, negoziando con il loro ex datore di lavoro, Serious
Energy, per l'acquisto delle attrezzature dello stabilimento
e per il riavvio della produzione (per non parlare di imparare
a gestire democraticamente il proprio posto di lavoro!),
inoltre costruiscono alleanze locali e nazionali per sostenere
il loro lavoro, un compito fondamentale che può essere
assunto dagli “alleati”.
Quello che sta succedendo a Chicago fa parte di una tendenza
nazionale molto importante; in molte zone del paese si è
alla ricerca di soluzioni simili: le cooperative gestite
dai lavoratori possono essere interpretate come un modo
per favorire il radicamento dei posti di lavoro nelle comunità
che ne hanno bisogno.
L'esperienza in Ohio
A Cleveland, per esempio, una fondazione della comunità,
con il supporto delle università e degli ospedali
locali, contribuisce a creare una rete verde di cooperative
di lavoro interconnesse come parte di una strategia di sviluppo
economico progettato per aiutare a migliorare i quartieri
devastati dalla povertà. Con una lavanderia su scala
industriale e un impianto solare e di protezione invernale
già operativi, e con una serra urbana di 3,5 ettari
il cui lancio è previsto in pochi mesi, il modello
di Cleveland è quello che molte altre città,
comprese Pittsburgh, Atlanta e Washington DC, stanno oggi
attivamente esplorando. Fondamentalmente, il modello sviluppato
a Cleveland guarda al di là della singola cooperativa
di proprietà dei lavoratori per capire come una comunità
sia in grado di sostenere le imprese e i lavoratori che
a loro volta la supportano: in questo caso, il potere d'acquisto
delle istituzioni più grandi della città,
le cosiddette “istituzioni di ancoraggio”, si
mobilita per lo sviluppo di posti di lavoro di proprietà
dei lavoratori nei quartieri stessi che queste istituzioni
chiamano casa.
Inoltre vi è ora una silenziosa tendenza nel movimento
sindacale, lontano dal disinteresse in nuove forme di proprietà
e verso un aiuto positivo. La United Steelworkers, in collaborazione
con Mondragon (la nota Cooperativa che raccoglie di 80Ë000
soci nei Paesi Baschi), ha preso l'iniziativa nel proporre
e sviluppare “cooperative sindacali”, che combinano
proprietà dei lavoratori ed il processo di contrattazione
collettiva. Il sindacato Service Employees union (SEIU)
ha intrapreso anche alcuni passi interessanti, con il programma
di lancio a Pittsburgh, previsto per quest'anno, di una
lavanderia di proprietà dei lavoratori e appartenenti
al sindacato, e di un partenariato innovativo con Cooperative
Home Care Associates di New York City, una cooperativa di
assistenza domiciliare, la più grande cooperativa
di proprietà dei lavoratori negli Stati Uniti.
Da notare è anche una crescente attenzione tra i
sindacati in merito a una forma molto più comune
di proprietà dei lavoratori degli Stati Uniti, la
proprietà ESOP o piano di azionariato dei dipendenti
(che coinvolge 10 milioni di lavoratori): sindacati come
la United Food and Commercial Workers (UFCW) stanno assumendo
un ruolo forte nel fare sì che gli interessi dei
lavoratori siano protetti quando le aziende si convertono
in azionariato ESOP di proprietà dei lavoratori.
Lo sforzo dei lavoratori di Chicago è importante,
non solo in sé e per sé, ma come faro di speranza
e opportunità di diffondere un modello di economia
più democratico. È tempo che altri soggetti
– individui, gruppi, attivisti, chiese, organizzazioni
non-profit – si adoperino per quanto è in loro
potere al fine di aiutare e garantire il successo di questa
iniziativa.
Gar Alperovitz
traduzione di Enrico Massetti
Chiapas/ Una vittoria
A metà
Giovedi 26 luglio 2012, San Cristobal de las Casas
È una vittoria a metà, però è
una vittoria di tutti e tutte.
Alberto Patishtan, prigioniero politico emblematico in Messico
e fondatore e integrante dell'organizzazione “La voz
del Amate” e appartenente all'Otra Campagna, è
ritornato in queste ore al Carcere No.5 di San Cristobal
(Chiapas), dal quale venne violentemente portato via all'alba
del 20 ottobre del 2011, durante uno sciopero della fame
che stava portando avanti con i suoi compagni del collettivo
“Solidarios de la voz del Amate”. Alla fine
il governo ha dovuto accettare la sentenza del giudice del
tribunale di Tuxla del 13 luglio 2012 riguardo un ricorso
portato avanti dal centro diritti umani Frayba che ha dichiarato
inaccettabile il trasferimento di Alberto al carcere di
massima sicurezza di Guasave, Sinaloa.
Dopo 9 mesi il professore e compagno Alberto Patishtan torna
a condividere la cella, i pasti, le riunioni, le iniziative,
l'allegria, i sogni e le speranze di libertà con
i suoi compagni di lotta, fra i quali Francisco Santiz Lopez
base di appoggio dell'EZLN. Finalmente la sua famiglia non
dovrà più percorrere 2200 km per visitarlo.
Finalmente anche noi torneremo ad abbracciarlo e ad ascoltare
le sue parole sagge e confortanti.
È una vittoria a metà perché Alberto
non doveva essere punito con questo trasferimento forzato,
organizzato dal governo messicano su richiesta del segretario
del governo di Chiapas, Noe Castanon. In più, Alberto
non deve stare dietro le sbarre; è un maestro elementare
e attivista sociale legato alla sua comunità tzotzil,
El Bosque. Là lo stanno aspettando, lo esigono...
lo esigiamo.
Per questo il ritorno in Chiapas del Profe Alberto è
il risultato di uno sforzo coordinato e globale. Dai famigliari
ai compagni/e di molti angoli del pianeta, da diversi gruppi
anarchici ad organismi di difesa dei diritti umani del Messico
e non solo, includendo tutte le organizzazioni dell'Otra
Campagna. Dal suo villaggio natale nella montagna ai quartieri
della metropoli di New York, per arrivare simbolicamente
in Palestina. Questo dimostra che la giustizia si tesse,
si esercita e perfino si impone ai chi comanda con la lotta
dal basso.
Con questo vogliamo ringraziare con il cuore in mano e con
un po' di commozione a tutte le persone che si sono unite
alle campagne per la liberazione del Profe Patishtan e degli
altri prigionieri politici. Con la vostra partecipazione
abbiamo distrutto un pezzetto di carcere, come hanno suggerito
i compagni/e dell'Otra di New York.
La lotta continua, Alberto e i nostri/e compagni/e indigeni/e
sono ancora imprigionati nelle carceri in Chiapas e per
questo dobbiamo continuare ad organizzarci e coordinarci
come abbiamo fatto finora; ancora una volta gridiamo LIBERTÀ
IMMEDIATA per:
Alberto Patishtan Gomez, Rosario Diaz Mendez (Voz del Amate)
Francisco Santiz Lopez (membro del EZLN)
Pedro Lopez Jimenez, Alfredo Lopez Jimenez, Rosa Lopez Diaz,
Juan Collazo Jimenez, Alejandro Diaz Santiz, Enrique Gomez
Hernandez, Juan Diaz Lopez (Solidarios de la Voz del Amate)
Antonio Estrada Estrada, Miguel Vazquez Deara, Manuel Demeza
Jimenez (San Sebastian Bachajon)
E per tutti e tutte le prigioniere ed i prigionieri politici
del Messico e del mondo.
Abbattere i muri delle prigioni!
Red contra la represion - Chiapas
Grupo de trabajo “No Estamos Todxs”
Espacio de Lucha contra el Olvido y la Represion
per ulteriori info:
http://www.autistici.org/nodosolidale/news_det.php?l=it&id=2194
India
Dopo il blackout
Se il primo blackout del 30 luglio 2012 aveva colpito 300
milioni di persone, con quello del giorno successivo la
cifra era raddoppiata. In India le interruzioni di corrente
costituiscono un evento quotidiano e gli impianti di grandi
dimensioni (ospedali come supermercati) sono equipaggiati
con generatori di elettricità alimentati con motori
diesel.
Ma questa volta la paralisi è stata senza precedenti.
Più di 300 treni rimasti in panne e 300 mila passeggeri
bloccati nelle stazioni (dati del quotidiano Times of
India). Nel nord-est del paese, 200 minatori sono rimasti
segregati per ore nel sottosuolo mentre nei crematori elettrici
si allestivano roghi improvvisati per smaltire i cadaveri.
In un comunicato della Confindustria indiana si parla di
“danni incalcolabili per le industrie costrette a
sospendere la produzione”.
Tra le cause, secondo il ministro Sushil Kumar Shinde “gli
Stati che hanno superato la loro quantità consentita
di approvvigionamento sulla rete”. In particolare
l'Uttar Pradesh. In questo periodo, con le temperature che
oscillano tra i 35 e i 45 gradi, i consumi di energia aumentano
sensibilmente a causa dei condizionatori. Il ritardo dei
monsoni ha ulteriormente aggravato la situazione. La produzione
di energia idroelettrica è diminuita mentre gli agricoltori,
a causa della siccità, ricorrono alle pompe elettriche
per estrarre acqua dalle falde freatiche. Dal 2000 al 2010
la produzione industriale dell'India è aumentata
di 4 volte, ma la produzione di energia è soltanto
raddoppiata ricorrendo alle centrali termiche a carbone
e petrolio.
Soltanto quattro anni fa, nel 2008, l'autore di “La
speranza indiana” poteva commentare “L'odore
dell'India” scritto nel 1961 da Pier Paolo Pasolini
con queste parole: “Rileggendolo oggi sembra che parli
di un paese africano, immobile e impotente” in cui
prevaleva “l'assenza di ogni attendibile speranza”.
Invece era bastata soltanto una generazione “per capovolgere
tutto”. E dopo questa premessa Federico Rampini si
lanciava nell'elogio incondizionato dell'“India di
oggi patria di multinazionali come la Infosys che dominano
la tecnologia dell'informazione, la creazione di programmi
per computer e ogni apparecchio elettronico dell'era digitale,
quel software che è la trama invisibile e pervasiva
della nostra (il corsivo è mio nda) vita quotidiana,
dai gps satellitari ai videotelefonini, dal pilotaggio automatico
di un Airbus alla consultazione di Google e Wikipedia, You
Tube e MySpace”. Già che c'era, a quella che
definiva “la linfa vitale che scorre nelle vene della
New India”, avrebbe potuto aggiungere droni e missili
teleguidati.
Ma l'India, evidentemente, è anche altro. Nelle pagine
successive trapelava qualche disagio per i due terzi di
popolazione che vive ancora nelle campagne (più
avanti definisce l'India “un paese troppo agricolo”)
o per la presenza a fianco di contadini e popolazioni indigene
dei “ribelli naxaliti che praticano ancora
la lotta armata” (corsivi sempre miei nda). Come a
Singur dove la polizia ha massacrato una decina di contadini
che protestavano contro un impianto della Tata Motor. En
passant segnalo la preferenza di Rampini per l'avverbio
(di tempo) “ancora”, utilizzato con valenza
negativa.
In un articolo pubblicato su La Repubblica, dopo
il recente blackout ha scritto che la spiegazione ufficiale
(i monsoni in ritardo e di conseguenza i bacini delle dighe
idroelettriche sottoalimentati) “lascia attoniti”.
Ma come, si indigna Rampini “una superpotenza economica
che è la sede di colossi hi-tech come Infosys e Tata,
dipende ancora dai monsoni”. Pare proprio di
sì.
Diverso l'approccio dell'analista politico Satya Sivaraman
che ha colto l'occasione per criticare il modello di sviluppo
indiano. In particolare la liberalizzazione economica avviata
agli inizi degli anni ‘90 per opera dell'attuale premier
Manmohan Singh (all'epoca ministro delle Finanze). Alla
crescita del Pil “ha corrisposto una riduzione del
consumo pro-capite di grano”. I dati forniti dall'Oms
confermano che “ il 45% degli indiani adulti soffre
di malnutrizione” mentre secondo l'Unicef “2
milioni e mezzo di bambini indiani muoiono ogni anno per
malattie legate alla mancanza di cibo”. L'attuale
crisi immobiliare e il calo della Borsa di Munbai confermerebbero
poi che l'impennata degli ultimi due decenni era in gran
parte dovuta alla speculazione visto che “il 70% degli
scambi avviene su titoli stranieri”.
Volendo trarre una lezione da questi avvenimenti, è
chiaro che nel mondo del capitalismo reale, le strutture
economiche e finanziarie producono inevitabilmente povertà
e sofferenza da qualche parte per produrre ricchezza altrove.
Piaccia o non piaccia a Rampini & C.
Gianni Sartori
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