società
Lo Stato “suddito”
di Andrea Papi
Anche lo Stato si è andato trasformando e le vecchie
strategie di lotta devono tenerne conto.
È necessario ricercare nuove vie, a partire dall'organizzazione
dal basso di alternative concrete (per esempio, nel campo del
credito).
L'andamento nevrotico di quello
che stiamo subendo sovrasta con violenza i tantissimi che non
sono speculatori finanziari e non posseggono banche, che non
hanno ruoli dirigenti, né potere, né grandi ricchezze
a disposizione. È una tirannia devastante.
L'“eletta schiera” dei pochissimi che “hanno
sanno e possono” domina, incontrastata e spietata, l'“innumerevole
schiera della gente normale”, che possedendo poco, o addirittura
nulla, non può che uscirne succube e vilipesa. Viviamo
e subiamo una situazione economica ed esistenziale sotto attacco
permanente. I potenti non fanno altro che estorcere ai non abbienti
quel pochissimo che ancora possiedono, rendendo sempre più
povere le popolazioni sottomesse, mentre i pochi e intempestivi
interventi dei politici che governano hanno tutto l'aspetto
di non servire praticamente a nulla.
Un numero sempre maggiore di persone si chiede allora se lo
stato e le sue istituzioni servano a qualcosa. La risposta che
sorge spontanea è che non servono proprio a nulla. Eppure
non è così. E lo dico da anarchico. Certo che
lo stato serve! Se non servisse, se fosse totalmente inutile,
sarebbe come se non ci fosse e non darebbe alcun fastidio. Purtroppo
invece c'è e crea grossissimi problemi. Il problema principale
è che non serve a noi “gente normale”. Anzi!
Per noi rappresenta una vera iattura da cui non riusciamo a
liberarci. Con sempre più evidenza serve solo alle oligarchie
dominanti, che in questa fase stanno attuando con grande spietatezza
una recrudescenza autoritaria e oppressiva che sta schiacciando
le categorie sociali più deboli ed esposte.
Storicamente per ogni anarchico che si rispetti lo stato, qualsiasi
stato, da sempre è il nemico principale da combattere,
anzi da abbattere, praticamente il “male assoluto”,
il demone autocratico da demolire se si vogliono avere concrete
e realistiche speranze per riuscire a realizzare l'anarchia.
Questo perché gli anarchici lo hanno sempre giustamente
considerato il luogo del potere supremo per eccellenza, nel
quale sarebbero concentrati tutti gli altri poteri, indispensabile
per dominare senza remissione. Una visione senz'altro realistica
quando l'anarchismo cominciò ad emergere come coscienza
di ribellione che voleva emancipare i popoli dalla sottomissione
politica e dallo sfruttamento economico. Si era reso conto che
l'umanità era oppressa da diversi stati/nazione che esercitavano
tutto il loro potere attraverso le strutture statali.
Gettando uno sguardo disincantato e non ideologico sulle cose
del mondo, alla ricerca di una comprensione veritiera di ciò
che ci circonda, mi sembra di poter affermare con sicurezza
che oggi le cose non stanno più in quei termini originari.
Da diversi decenni lo stato non è e non rappresenta più
il potere incontrastato per eccellenza, abbattuto il quale sarebbe
spianata la strada verso l'emancipazione. Questa visione prospettica
dell'intervento rivoluzionario è superata perché
sono completamente mutate la fisiologia e la fisionomia del
dominio.
Gli stati-nazione, in origine tendenzialmente autocratici e
in competizione tra loro, da tempo non sono e non rappresentano
più la concentrazione del potere sommo egemone su tutto
e su tutti, il momento strutturale fondamentale attraverso cui
il dominio s'impone. Oggi abbiamo a che fare con interventi
simultanei di un intreccio di poteri non strutturati, che agiscono
al di sopra e oltre gli stati in ogni parte del globo. La propensione
a dominare ha cambiato completamente qualità nell'esserci
e nell'operare e si è trasferita in pieno alle oligarchie
finanziarie. La supremazia finanziaria, ben lungi dall'essere
composta da rigide strutture di comando che s'impongono attraverso
apparati gerarchici, non è racchiudibile in classi o
categorie sociali, mentre si muove ed opera con agile fluidità
sovrastando le strutture nazionali e le politiche governative.
L'illusione
del riformismo socialdemocratico
L'imposizione finanziaria non comanda direttamente. Esercita
invece una diversa qualità d'imposizione attraverso una
notevole capacità d'influenza, inducendo gli operatori
governativi a fare scelte obbligate, costringendoli potentemente
col ricatto di situazioni economico/finanziarie che non sono
in grado di governare. In questa fase il dominio supremo, cioè
la capacità di assoggettare senza condizionamenti alla
propria potestà, non si esercita tanto attraverso gli
apparati di governo e di comando, come nell'“era del male
assoluto” degli stati/nazione, ma attraverso il controllo
e la manipolazione dei movimenti finanziari, che determinano
i vincoli oggettivi con cui ricattare e imporre le condizioni
annichilenti che sacrificano le popolazioni all'ingordigia degli
speculatori globali. Un'evidente prevalenza della dimensione
finanziaria su quella politica, in cui però lo stato
non ha affatto smesso di avere una grossa funzione di potere
e continua a svolgere un ruolo di elevatissima importanza. Ha
solo cambiato di posizione preminente, perché si trova
soggiogato da forze di potere molto più potenti che lo
costringono ad esser funzionale a loro.
In questa fase l'economia che conta è sovranazionale
e non ruota più attorno ai rapporti di produzione, ma
li condiziona facendoli diventare un'appendice della speculazione
internazionale. Lo stato non è e non può più
essere, come credevano i fanatici di un marxismo superficialmente
interpretato, il “gendarme della borghesia”. Attraverso
i governi, oggi non fa altro che gli interessi non dichiarati
delle oligarchie globali che hanno in pugno i nostri destini.
Il suo ferreo potere di comando sulle popolazioni sottomesse,
più saldo che mai, è però sempre meno dovuto
alla salvaguardia del proprio potere e sempre più, attraverso
l'imposizione di condizioni frequentemente devastanti, per salvaguardare
gli interessi dell'alta finanza, cui non riesce a sottrarsi.
Così non riesce più ad essere il luogo del welfare
(lo stato sociale), supposto erogatore di servizi e attento
allo sviluppo del benessere dei cittadini. Questa è stata
l'illusione del riformismo socialdemocratico che ha continuato
a vedere nell'economia reale, legata alla produzione, l'unico
supposto potere economico che conta. Accettando di convivere
con le leggi di mercato, il riformismo si era illuso di non
essere travolto dalle strette maglie di una preponderante propensione
al dominio egemonizzata dall'ingordigia dell'accumulazione finanziaria,
sorretta dal miraggio del “fare soldi attraverso i soldi”.
Sullo scacchiere internazionale la funzione degli stati è
praticamente diventata quella di amministrazioni territoriali,
gendarmi di fatto, esattori forzati per il campo sterminato
della speculazione finanziaria globale.
Oggi l'amministrazione statale e le sue istituzioni sono sempre
meno in grado di fornire servizi efficienti in cambio delle
tasse che incamerano, mentre quei pochi che forniscono li fanno
pagare cari e li offrono con un progressivo aumento di inefficienza.
Sono ormai diventate una pura idrovora, che succhia senza sosta
ricchezze e benessere ai cittadini per versarli nel gorgo vorace
e spietato dell'accaparramento finanziario. Non solo non risolvono
più i problemi sociali, bensì sono diventati a
loro volta creatori di problemi. Rivolgersi alle istituzioni
è sempre più difficile, perché si sono
quasi completamente disumanizzate, circondate da un tale reticolato
di leggi, leggine e regolamenti da risultare impenetrabili,
mentre tutte le occasioni sono buone per trasformare ogni intervento
in forme di tassazione, per riscuotere veri e propri tributi
balzelli e gabelle. Il loro vero e unico scopo è ormai
puramente quello di controllare ed di estorcere denaro.
Non poteva essere diversamente. I confini statali si sono ristretti
a tal punto che non sono più in grado di racchiudere
ed esaurire le tensioni, gli interessi e i desideri degli esseri
umani. In un mondo diventato una grande rete di comunicazione,
in cui si intrecciano in continuazione spostamenti, azioni e
scambi, le frontiere sono del tutto obsolete e non trattengono
più. Gli stati nazionali hanno esaurito la propria specificità
di gestione e di riferimento autocratico, mentre al di sopra
di essi si è formata e si muove con grandissima fluidità
una complessa trama multiforme di forze potenti e anonime che,
forse proprio per la loro inafferrabilità, sono diventate
egemoni a livello planetario. La lotta antistatalista di conseguenza
ha smesso di essere il momento privilegiato della rivoluzione,
perché, anche nel caso si riuscisse ad abbattere uno
stato, com'è da sempre nei sogni di tutti i “bakuninisti”,
non avremmo affatto risolto il problema di fondo: l'eliminazione
delle forme operanti del dominio e della matrice principale
dell'autorità.
Possibili
alternative sociali autogestite
Se si vuole perciò riuscire a prefigurare le prospettive
di un movimento radicale di lotta che voglia realisticamente
emanciparsi, diventa indispensabile essere consapevoli che gli
stati non sono più il luogo del potere sommo, abbattuti
i quali sarebbe spianata la strada verso l'anarchia o comunque
una nuova società liberata. In un contesto complessivo
in cui risulta evidente che non c'è uno specifico nemico
diretto da colpire (un re, un esercito, un tiranno, una concentrazione
totalitaria, ecc.), dalla cui precisa e univoca responsabilità
dipendono le condizioni che viviamo, non esiste di fatto un
vero ed identificabile obbiettivo da abbattere. Possiamo abbattere
tutti gli obbiettivi che pensiamo di identificare, il potere
non ne sarà scalfito che in minimissima parte e continuerà
imperterrito ad imporsi, rimanendo praticamente intatte le vigenti
prerogative del dominio.
Qualsiasi strategia rivoluzionaria che scegliesse come prerogativa
fondamentale della propria azione lo scontro diretto militare
coi poteri supposti dominanti, nell'illusione di abbatterli,
per eliminarli o per sostituirsi ad essi non ha importanza,
non potrebbe perciò che esaurire la propria propulsione
perché rischierebbe di trovarsi invischiata in un reiterarsi
all'infinito di poteri che decadono e risorgono, mentre rimarrebbe
intatta la matrice che li alimenta e li perpetua. Diventerebbe
solo un agire estenuante e inconcludente che non farebbe altro
che organizzare e produrre, inconsapevolmente, la propria autodistruzione.
Una prospettiva di lotta radicale che continui a fondarsi sullo
scontro per abbattere il nemico, come quella classica rivoluzionaria-insurrezionale,
non sceglie altro in definitiva che la propria radicale sconfitta.
Insegue continuamente illusori nemici senza riuscire mai a identificare
e trovare quello vero, perché in definitiva il nemico
vero, quello che una volta sconfitto puoi veramente dichiararti
vincitore, non c'è. Fare la guerra a un nemico sfuggente,
che non si riesce a identificare e che si ripropone continuamente
in modo multiforme e mai definitivo, rischia di ritorcersi contro.
Il potere oggi è ben contento di trascinare la ribellione
in uno scontro bellico contro di lui, perché così
avrà tutti i mezzi e le possibilità per controllarla
e annientarla. La guerra è il terreno preferito di chi
detiene il dominio, perché storicamente è lo strumento
principale di conquista e sottomissione, che ha sempre permesso
agli stati d'imporsi, comandare e soggiogare.
Una lotta e una prospettiva efficaci per procedere verso l'emancipazione
non possono più farsi incuneare all'interno di un tunnel
senza vie d'uscita, perfettamente prevedibile e sotto controllo.
Una strategia d'attacco al sistema di dominio vigente non può
più essere essenzialmente di attacco militare da parte
di chi si ribella.
Al contrario bisognerebbe procedere su più campi d'intervento,
privilegiando la molteplicità della sperimentazione propositiva,
avendo presente che sono sostanzialmente due i momenti di fondo
che qualificano la prospettiva dell'azione. Da una parte una
serie d'interventi di difesa sociale che riescano a sottrarre
il più possibile le persone dalle maglie tentacolari
e avvolgenti del potere. Creare per esempio casse di mutuo soccorso,
banche di solidarietà e quant'altro permetta di autogestire
direttamente i piccoli e fragili guadagni ottenuti con sudate
vite di lavoro, senza dover più ricorrere al sistema
bancario di rapina legalizzata. Dall'altra mettere in moto processi
di costruzione di possibili alternative sociali autogestite.
Andrea Papi
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