La svastica
allo stadio 1
Árpád Weisz, un maestro del
calcio europeo inghiottito nel nulla
di Giovanni A. Cerutti
Una targa lo ricorda allo stadio Meazza
di Milano. È stato l'allenatore che più a lungo
ha guidato l'Inter dopo Herrera, il Trap e Mancini. Ma era ebreo
e con le leggi razziali del '38 perse lavoro e diritti, fino
all'ultima destinazione: Auschwitz.
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Árpád
Weisz (Solt, 16 aprile 1896-
Auschwitz, 31 gennaio 1944) |
Árpád Weisz era
nato a Solt, un paese che oggi conta circa settemila abitanti
situato a settantatré chilometri da Budapest, il 16 aprile
1896. Il padre, Lazzaro, e la madre, Sofia, facevano parte della
comunità ebraica della cittadina. Cresciuto in un ambiente
culturale sensibile ai fermenti del primo socialismo, dopo aver
conseguito il diploma liceale Árpád si iscrisse
alla facoltà di giurisprudenza dell'Università
di Budapest, ma dovette quasi subito interrompere gli studi
per lo scoppio della prima guerra mondiale. Suddito dell'Impero
austro-ungarico, combatté sul Carso contro l'esercito
italiano, che lo fece prigioniero nel corso dell'offensiva successiva
alla disfatta di Caporetto.
Weisz arrivò in Italia nella stagione calcistica 1924-25,
ingaggiato dal Padova, che partecipava al campionato di Prima
divisione, equivalente all'odierna serie A. Della sua carriera
precedente si hanno poche notizie. Si sa solo che l'attività
di calciatore correva parallela a un impiego in banca. Nel 1922-23
aveva militato nel Torekves e l'anno seguente nel Makkabi Brno,
insieme a Ferenc Hirzer, il primo straniero ingaggiato dalla
Juventus della famiglia Agnelli. Nel 1924 fece parte della squadra
ungherese che partecipò alle Olimpiadi di Parigi. Ala
sinistra molto tecnica, dotato di uno scatto ficcante, a Padova
disputò solo sei partite, per motivi probabilmente non
legati al rendimento sportivo, considerato che Weisz non prese
nemmeno la residenza in città e che l'anno dopo venne
ingaggiato dall'Inter. Qui, dopo undici partite e tre gol, segnati
nel giro di una settimana, un brutto infortunio pose termine
alla sua carriera di calciatore a neanche trent'anni.
Prese avvio, invece, la carriera di uno dei più brillanti
allenatori che abbia avuto il calcio europeo, che terminerà
nell'Europa devastata dalla guerra il 31 gennaio del 1944 nel
campo di Auschwitz, senza quasi lasciare tracce. Soltanto la
tenacia - misto di passione sportiva e tensione civile - di
Matteo Marani, attuale direttore del “Guerin Sportivo“,
ha riportato alla luce quella vicenda, che ci conduce in un
viaggio vertiginoso nelle pieghe dell'Europa occupata dai nazisti
e ci consegna un punto di vista inedito e niente affatto rassicurante
sull'Italia delle leggi razziali e sulle successive difficoltà
della società italiana ad affrancarsi dal passato fascista.
Nel 1926 - l'anno in cui le cronache delle partite cominciano
a essere trasmesse per radio - Weisz iniziò il suo apprendistato
nello staff tecnico dell'Alessandria sotto la guida di Augusto
Rangone, che aveva guidato la Nazionale dal 1922 al 1924 e che
la guiderà ancora nel 1928. Alla fine dell'anno tornò
all'Inter e la stagione successiva gli fu subito affidata la
guida tecnica della prima squadra. Nel 1928 Weisz venne costretto
a diventare Veisz, così come il Genoa a diventare Genova,
il Milan a diventare Milano e l'Internazionale - concetto indigesto
al regime sotto molti punti di vista - a diventare Ambrosiana.
Ambrosiana che in quella stagione utilizzò una casacca
bianca con una croce rossa al cui centro spiccava un fascio
littorio, rinunciando alla tradizionale maglia nerazzurra. Sono
gli anni in cui bisogna darsi del voi e salutarsi romanamente,
ma gli italiani sono troppo navigati per dare importanza a dettagli
così irrilevanti. E poi, si sa, un conto sono le imposizioni
ufficiali, un conto è il comportamento quotidiano...
L'inventore
degli schemi
Nel 1929-30, dopo un quinto posto nel campionato di esordio
1926-27 e un settimo posto nel campionato 1927-28, l'Inter di
Weisz - che nella stagione 1928-29 aveva compiuto un soggiorno
di studio e aggiornamento in Sud America su cui si hanno notizie
quasi evanescenti - vinse il primo campionato a girone unico
- che da allora viene definito, per l'appunto, “girone
all'italiana“ - nella storia del calcio italiano, disputato
per la prima volta con la denominazione, utilizzata ancora oggi,
di Serie A, a cui allora prendevano parte diciotto squadre.
A partire dalla stagione 1919-20, la prima disputata dopo tre
anni di interruzione a causa della prima guerra mondiale, infatti,
il campionato era stato assegnato alla vincente dello scontro
diretto tra la vincitrice del campionato della Lega sud e quella
del campionato della Lega nord. Nel 1926 il regime fascista
aveva provveduto alla riforma del campionato, la cui formula
era ritenuta incompatibile con il credo nazionalista. Alla guida
della Federazione era stato designato Leandro Arpinati - squadrista
della prima ora e federale di Bologna, successivamente caduto
in disgrazia dopo essersi scontrato con Achille Starace e inviato
per due anni al confino, quindi tenuto costantemente sotto sorveglianza
fino al 25 luglio 1943, per finire ucciso il 22 aprile 1945
probabilmente da partigiani comunisti, anche se non aveva accettato
la proposta di Mussolini di aderire alla Repubblica sociale
- che aveva introdotto la Divisione nazionale, che prevedeva
due gironi interregionali, non più costituiti su base
geografica, e un girone finale tra le prime classificate dei
due gironi, in conseguenza del fatto che la finale con partita
unica era ormai diventata un problema di ordine pubblico di
difficile gestione, per le rivalità sempre più
accese tra le tifoserie avversarie.
La vittoria nel campionato 1929-30 vale di per se stessa un
posto nella storia del calcio italiano, posto che invece Weisz
non ha mai occupato. Ma i meriti sportivi di Weisz vanno molto
oltre. In anni in cui gli allenatori dirigono gli allenamenti
in giacca e cravatta al centro del campo, Weisz è il
primo a guidare personalmente i giocatori in pantaloncini e
maglietta e a provare in allenamento i movimenti della squadra,
applicando quelli che molto tempo dopo verranno chiamati schemi.
È il primo, anche, a introdurre carichi di lavoro appositamente
elaborati e a studiare la composizione delle diete. La cura
con cui svolge il suo lavoro lo porta a non trascurare nessun
dettaglio, fino a visionare personalmente gli allenamenti e
le partite dei ragazzi del settore giovanile, i boys,
come si diceva allora con anglismo sgradito al regime. È
in questo modo che scopre un ragazzino di sedici anni, che fa
debuttare in prima squadra l'anno successivo e che nella stagione
dello scudetto vincerà, a neanche vent'anni, la classifica
dei cannonieri: Giuseppe Meazza. Ma Weisz è soprattutto
un innovatore sul piano tattico: esponente di quella che allora
veniva chiamata la scuola danubiana - molto apprezzata in Italia,
tanto che nel campionato del 1935 su sedici allenatori di serie
A, ben sette erano ungheresi, contro i soli cinque italiani
- che sostituiva con passaggi precisi e rasoterra gli avventurosi
rilanci che caratterizzavano il gioco di allora, introduce nel
campionato italiano il famoso sistema, detto comunemente
WM, dalla disposizione dei giocatori in campo. La M identifica
i cinque difensori, la W i cinque attaccanti. Nasce il quadrilatero
di centrocampo, avanzando i due mediani e arretrando le due
mezzeali, il peso del gioco viene redistribuito in modo equo
tra tutti e dieci i giocatori, che hanno compiti sia offensivi
che difensivi, e si vedono i primi terzini che attaccano. Inventato
dal leggendario allenatore dell'Arsenal Herbert Chapman - il
cui busto in bronzo si trova ancora oggi all'ingresso del nuovo
Emirates Stadium, trasferito dal vecchio stadio di Highbury
- è il modulo di gioco che farà grande il Torino,
grazie a un altro ebreo ungherese, Ernest Egri Erbstein, e che
sarà adottato quasi universalmente fino agli anni sessanta,
quando Helenio Herrera si inventerà il libero, arretrando
un mediano.
Uomo colto e di buone letture, dallo stile brillante, nel 1930
Weisz, insieme al dirigente dell'Inter Aldo Molinari, pubblicò
presso l'editore milanese Alberto Corticelli un manuale intitolato
Il giuoco del calcio, prefato da Vittorio Pozzo, il commissario
tecnico della nazionale italiana che vinse i mondiali del 1934
e del 1938, suo grande ammiratore. Nel manuale - una copia è
conservata presso la Biblioteca braidense, collocazione 23.4.A.0031
- Weisz espone i principi del gioco, le basi tecniche, i ruoli
dei giocatori e i metodi di allenamento, mentre Molinari si
occupa degli aspetti regolamentari.
Dopo
l'Inter, il Novara e il Bologna
Dopo un quinto posto nella stagione 1930-31, nel campionato
successivo l'Inter non rinnovò il contratto di Weisz,
che si trasferì al Bari. È iniziato il ciclo della
Juventus di Rosetta e Calligaris, che vincerà cinque
scudetti consecutivi, fondando il mito della signora del calcio
italiano. Ma il nuovo allenatore, Istvan Toth, un altro ungherese,
non riuscì a portare la squadra oltre il sesto posto
e l'anno dopo Weisz venne richiamato dal club milanese, ottenendo
due secondi posti sempre dietro la squadra bianconera, costruita
grazie alla competenza di Carlo Carcano, ma anche alle risorse
finanziarie di Edoardo Agnelli, che gli permettevano di avere
in squadra i migliori campioni in circolazione. L'Inter, invece,
era da tempo in grandi difficoltà economiche, che si
risolsero nel 1932, quando alla presidenza del club arrivò
Ferdinando Pozzani, uomo ben introdotto nel regime e dai molteplici
e redditizi interessi economici, dall'agricoltura al petrolio.
Pozzani rappresenta un punto di svolta nel calcio italiano:
è il primo presidente a multare i giocatori e a controllare
la loro vita privata, impedisce ai giornalisti sgraditi di assistere
alle partite casalinghe all'Arena e, soprattutto, interferisce
pesantemente nel lavoro degli allenatori, imponendo loro le
formazioni. In dieci anni di presidenza ne cambierà ben
otto, esonerando persino Castellazzi subito dopo la vittoria
del campionato. Weisz, timido e riservato come lo ricordano
tutti, era però uomo di grande dignità e non poteva
gradire. Ragion per cui alla fine del campionato 1933-34 lasciò
l'Inter prima della scadenza del contratto, pur non avendo nessuna
prospettiva concreta. Ancora oggi con 212 presenze sulla panchina
dell'Inter occupa il quarto posto nella relativa classifica
degli allenatori del club nerazzurro, dietro a Helenio Herrera,
Giovanni Trapattoni e Roberto Mancini.
Trovatosi improvvisamente senza squadra, Weisz accettò
l'offerta del Novara, che militava in serie B. A Novara restò
circa sei mesi, poco più di metà stagione, costruendo
la squadra che conquistò il secondo posto del girone
A, a soli tre punti dal Genova 1893 - che era retrocesso per
la prima volta al termine della stagione precedente dopo aver
dominato i primi quarant'anni del calcio italiano - e che l'anno
successivo conquistò la prima promozione in serie A.
Nel gennaio del 1935, infatti, Weisz venne chiamato a sostituire
Laojos Kovács - un altro ungherese - alla guida del Bologna,
con cui sarebbe entrato definitivamente nella storia del calcio
italiano, ed europeo, proprio mentre gli anni più bui
della storia europea stavano per travolgere lui e la sua famiglia.
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Il
Novara nel 1934. Árpád Weisz
è il secondo da sinistra
(Archivio privato Gianfranco Capra) |
Solo
un ebreo di nazionalità straniera
Weisz si era sposato con Ilona Rechnitzer, più giovane
di lui di dodici anni, il 24 settembre 1929 a Szombathely, la
città più antica dell'Ungheria, capoluogo della
provincia di Vas, situata al confine con l'Austria. Elena, come
si faceva chiamare Ilona in Italia, e Árpád ebbero
due figli, Roberto, nato a Milano il 7 luglio 1930, e Clara,
nata anch'essa a Milano il 2 ottobre 1934, che decisero di fare
battezzare. La dimensione religiosa gli era indifferente e non
sembra che abbia frequentato le comunità ebraiche delle
città italiane in cui ha vissuto.
A Bologna Weisz trovò una squadra in crisi. Affacciatosi
alla ribalta nazionale negli anni Venti, vincitore del campionato
nella stagione 1924-25 e in quella 1928-29, anche il Bologna
stava soffrendo la superiorità della Juventus di Carcano.
Weisz riuscì a rimettere in carreggiata una stagione
iniziata con quattro sconfitte consecutive e a chiudere al sesto
posto. E l'anno successivo sotto la guida di Wiesz, il Bologna
interruppe il dominio juventino, vincendo lo scudetto. Era stato
l'ultimo allenatore a vincere prima del quinquennio bianconero
ed è l'allenatore che pone fine a quel ciclo. L'anno
dopo non solo si ripeté, ma portò il Bologna a
vincere a Parigi il Trofeo dell'Esposizione, una sorta di Champions
League ante litteram. Dopo aver eliminato il Sochaux e i cecoslovacchi
dello Slavia, il Bologna batté in finale i londinesi
del Chelsea per 4 a 1. È il 6 giugno del 1937. Tre giorni
dopo a Bagnoles-de-l'Orne vengono assassinati Carlo e Nello
Rosselli.
Weisz è all'apice della fama, ora anche internazionale.
Ha vinto tre scudetti con due squadre diverse - impresa che
ancora oggi celebratissimi e strapagati allenatori non sono
riusciti a eguagliare - e battuto in un trofeo internazionale
i maestri inglesi. La stagione 1937-38 vide il Bologna sempre
tra i protagonisti, anche se alla fine arrivò solo un
quinto posto, nell'anno del ritorno dell'Inter. Weisz, in scadenza
di contratto, ricevette un'offerta economica estremamente allettante
dalla Lazio, ma il Bologna rilanciò e riuscì a
trattenere il suo allenatore.
Ma nell'Italia del 1938 Weisz diventa improvvisamente solo un
ebreo. Anzi, un ebreo di nazionalità straniera. Nell'allucinata
realtà delle leggi razziali non contano doti e talenti,
né conta essersi conquistate con il proprio lavoro stima
e popolarità. Non contano più le esistenze individuali:
si diventa un numero senza importanza, perché altri hanno
deciso così sulla base di incredibili presupposti ammantati
di sinistra scientificità. E tutti si adeguano, senza
avvertire il minimo disagio. Così nessuno fiatò,
nemmeno a Bologna, la città di allora poco più
di trecentomila abitanti che le imprese della squadra di Weisz
avevano reso celebre in tutta Europa. Non fiatò il presidente
del Bologna, Renato Dall'Ara, industriale reggiano ben introdotto
nel regime, cui ancor oggi è dedicato lo stadio di Bologna,
dove pure dal 2009 è stata posta una targa che ricorda
Weisz e la sua famiglia. Non fiatarono i dirigenti, non fiatarono
i suoi giocatori, non fiatarono i tifosi, che lo avevano idolatrato.
Non fiatarono i suoi colleghi allenatori, non fiatarono i giornalisti
che ne avevano magnificato le gesta. E non fiatarono nemmeno
i genitori dei compagni di scuola di suo figlio, quando improvvisamente
non si presentò più a scuola, né fiatarono
i suoi vicini di casa. Il 22 agosto 1938 Árpád
ed Elena, insieme ad altri ottocentomila cittadini stranieri,
vennero registrati nell'elenco degli ebrei stranieri residenti
nel Regno, voluto da Mussolini in persona con una informativa
del 5 agosto. Un elenco così vergognoso, che lo stesso
ministero dell'interno pensò di dover secretare. Un elenco
che durante l'occupazione tedesca permetterà alle SS
di avviare molti ebrei ai campi di sterminio.
Il 16 ottobre 1938, Weisz prese parte all'ultima partita ufficiale
nel campionato italiano. Dopo un avvio contrastato, due vittorie
e due sconfitte, il Bologna batté in casa proprio la
Lazio 2-0. La settimana successiva il campionato si fermò
per permettere lo svolgimento di una partita della nazionale,
neocampione del mondo per la seconda volta. Nella pausa il Bologna
concordò di disputare una partita amichevole, senza i
nazionali, contro l'Inter, all'Arena. Il 22 ottobre Weisz si
dimise: il 7 settembre il Regio - ah, la monarchia... - decreto
legge n. 1381 stabiliva che gli ebrei stranieri che avevano
fissato la residenza in Italia dopo il 1 gennaio 1919 avevano
sei mesi di tempo per lasciare il paese. Aveva stabilito anche
che veniva «considerato ebreo colui che è nato
da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi
religione diversa da quella ebraica». Dunque chi è
ebreo viene stabilito dai persecutori; si costruisce una categoria
astratta, cui vengono attribuite arbitrariamente caratteristiche
di pericolosità sociale senza alcun rapporto con la realtà,
e si decidono arbitrariamente i criteri di appartenenza alla
categoria. Il 30 ottobre il Bologna vinse 3-1 a Novara, con
in panchina l'allenatore austriaco Felsner, con cui la squadra
felsinea aveva vinto i primi due scudetti, che evidentemente
non si pose troppe questioni. Lazio, Inter, Novara: in pochi
giorni, tornano tutte le squadre che hanno scandito la carriera
di Weisz. Alla fine della stagione il Bologna vincerà
il suo quinto scudetto. Ma Weisz è già lontano
e già dimenticato. “Il Resto del Carlino“
liquida l'avvicendamento in poche righe, alludendo a ciò
che tutti sanno, ma è meglio non scrivere esplicitamente.
Figurarsi se vale la pena spendere qualche riflessione. Addirittura
solo una la riga che gli dedica il “Calcio Illustrato“,
dopo aver annunciato l'arrivo di Felsner: «Quanto a Veisz,
sembra che lascerà l'Italia a fine anno». E dire
che al settimanale milanese Weisz aveva collaborato a più
riprese, con articoli di tecnica e di tattica di grande profondità,
frequentandone assiduamente la redazione durante il soggiorno
a Milano.
Vessazioni
sempre più umilianti
Weisz e la sua famiglia lasciarono l'Italia il 10 gennaio
del 1939 per sistemarsi a Parigi. Qui Weisz cercò di
trovare un ingaggio, contando sulla sua fama e sulle sue conoscenze.
Riuscì ad accasarsi in Olanda, a Dordrecht, città
in cui arrivò ai primi di aprile, grazie a Karel Lotsy,
dirigente del Dordrechtschte football club. Il calcio olandese
era totalmente dilettantistico - il primo calciatore professionista
sarà il giovane Johan Cruijff a metà degli anni
sessanta - e la squadra di Dordrecht, una città di poco
più di cinquantamila abitanti situata al confine con
la Germania, lottava costantemente per evitare la retrocessione;
ma per Weisz l'offerta rappresentava l'unica possibilità
di dare una sistemazione alla sua famiglia. Lotsy, che nel dopoguerra
allenerà la nazionale olandese, era un profondo conoscitore
del calcio internazionale e, saputo dei problemi di Weisz, si
impegnò a fondo per riuscire a portarlo in Olanda, con
l'obiettivo principale di migliorare il livello del calcio olandese
in generale, più che quello della sua squadra in particolare.
Weisz arrivò a stagione in corso e riuscì a salvare
il Dordrecht dalla retrocessione, vincendo lo spareggio contro
l'Uvv Utrecht. E l'anno dopo ottenne un quinto posto nel girone
vinto dal Feyenoord, battuto clamorosamente in casa. E lo stesso
risultato ottenne la stagione successiva. Si tratta del miglior
risultato nella storia del club, che oggi milita in seconda
divisione, ottenuto con una squadra di ragazzini, studenti e
lavoratori.
Ma la storia stava precipitando. L'Europa degli anni trenta
era diventata progressivamente un luogo inospitale per gli ebrei;
il clima di esasperato nazionalismo che attraversava le società
europee aveva portato alla luce con una violenza inaudita diffidenze
e discriminazioni secolari. Ma dal marzo del 1938 cominciò
a diventare l'Europa dell'occupazione tedesca. Prima l'annessione
della Cecoslovacchia, garantita dall'effimero patto di Monaco,
quindi l'Anschluss, l'annessione dell'Austria. Poi il 1 settembre
del 1939 l'invasione della Polonia segnò l'inizio dell'offensiva
tedesca e, dopo gli otto mesi della drôle de guerre,
vennero attaccate prima la Danimarca e la Norvegia, quindi la
Francia, passando per il neutrale Belgio, il neutrale Lussemburgo
e la neutrale Olanda. È il 10 maggio del 1940. Il 14
l'Olanda si arrende. Hitler decide di gestire l'occupazione
attraverso un governo olandese, ma questa sottile intercapedine
non ha alcuna forza, e forse volontà, per mutare il corso
delle cose. Il regime di occupazione, infatti, non solo piega
la società olandese alle esigenze dello sforzo bellico
tedesco, ma dà priorità assoluta alla persecuzione
razziale. Weisz sta terminando il suo secondo campionato con
il Dordrecht. Nella prima parte del suo soggiorno olandese non
può non aver avvertito l'inesorabile avanzare della minaccia
nazista; quelli che l'hanno conosciuto, ritrovati e interpellati
da Marani quasi settant'anni dopo, sono concordi nel dire che
Weisz usciva di rado e cercava di non farsi fotografare. E nel
dire che quando si accennava all'Italia diventava subito cupo.
Ma ora incominciano uno dopo l'altro gli odiosi provvedimenti
amministrativi che restringeranno inesorabilmente gli spazi
di vita dei sempre meno cittadini ebrei, stranieri o olandesi
a questo punto non fa più differenza, fino all'annientamento.
Il campionato 1940-41, pur, come abbiamo visto, brillante sotto
l'aspetto sportivo, è scandito da vessazioni sempre più
umilianti, fino, dal maggio del 1942, alla stella gialla da
portare sulla giacca, fino a poter uscire di casa soltanto tra
le due e le cinque del pomeriggio.
Le tracce
perse
Finché il 29 settembre del 1941 dal Commissariato di
polizia arriva una comunicazione ai dirigenti del Dordrecht,
che ricorda che in forza delle disposizioni vigenti dal 15 settembre
1941 sul «pubblico comportamento degli ebrei, ad Árpád
Weisz, allenatore della vostra associazione, è proibito
di trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili
per il pubblico». Poi il consiglio-minaccia «di
non assumere o tenere nel servizio della Vostra associazione
degli ebrei, perché nelle circostanze attuali potrebbe
avere conseguenze molto dannose per la Vostra associazione».
Da questo punto in avanti le tracce della famiglia Weisz incominciano
a perdersi a poco a poco, fino a diventare evanescenti. È
stato Matteo Marani a trovare i documenti che ci permettono
di fissare i passaggi che hanno condotto i Weisz ad Auschwitz.
Ma senza avere più alcuna possibilità di disegnare
i contorni della loro vicenda umana. Vite inghiottite nel nulla
senza lasciare un segno, come milioni di altre. La famiglia
Weisz venne arrestata la mattina del 2 agosto 1942 dalla Gestapo.
Il documento è ancora oggi conservato nell'archivio della
città di Dordrecht. Non sappiamo cosa è successo
in quel lungo ultimo anno. È quasi certo che siano stati
i dirigenti della squadra del Dordrecht, benestanti, ma non
ricchi, a provvedere alle necessità economiche sopravvenute.
I compensi degli allenatori di allora, infatti, non sono nemmeno
lontanamente paragonabili a quelli degli allenatori di oggi
e in ogni caso, qualora Weisz fosse stato in grado con i suoi
guadagni di costruirsi un comunque piccolo patrimonio, non ne
avrebbe potuto disporre, poiché una direttiva del governo
olandese aveva provveduto a congelare i patrimoni dei cittadini
considerati ebrei. In queste condizioni non era possibile neanche
pensare di uscire dall'Olanda per trovare rifugio. E dove, poi.
Uniche mete sicure per sfuggire alla persecuzione nazista erano
le Americhe. In quel 1942 l'Europa era completamente schiacciata
sotto il tallone nazista; l'Inghilterra sembrava dover capitolare
da un momento all'altro e sulle possibilità della Svizzera
di far valere la propria neutralità non scommetteva nessuno.
Qualche giorno dopo, i Weisz vennero trasferiti nel campo di
Westerbork, nel nord dell'Olanda, lo stesso da cui passò
Anna Frank. Lo sappiamo perché nel museo costruito per
custodire la memoria del campo sono conservati i registri con
i nomi di coloro che vennero avviati nei campi di sterminio:
107.000 ebrei, 245 sinti e qualche decina di partigiani. Il
treno con i Weisz partì venerdì 2 ottobre. Elena,
Roberto e Clara vennero avviati alla camera a gas il 5 ottobre,
appena scesi dal treno, come risulta dal Kalendarium di Auschwitz,
la cronologia degli avvenimenti del campo redatta da Danuta
Czech, utilizzando i documenti dell'amministrazione del campo
che sono giunti fino a noi. Clara aveva compiuto otto anni da
tre giorni, Roberto aveva dodici anni, Elena avrebbe compiuto
34 anni due giorni dopo. Di Árpád non c'è
traccia. La sua morte è datata 31 gennaio 1944. L'ipotesi
più probabile è che abbia fatto parte dei trecento
uomini fatti scendere a Cosel - come risulta sempre dal Kalendarium
- per essere avviati nei campi di lavoro in Alta Slesia. In
quel 1942, infatti, Weisz è un uomo di quarantasei anni
ancora nel pieno delle forze, anche se da un anno non può
quasi uscire di casa, figurarsi frequentare i campi di allenamento.
Dunque, prima di essere annientato, può servire allo
sforzo bellico del Reich. Ma non sappiamo proprio come sia arrivato
a quel gennaio del 1944. Anzi non sappiamo proprio cosa dire.
Possiamo solo chinare il capo e cercare di non sfuggire a ciò
che è stato. Anche se a Clara, Roberto, Elena e Árpád
non potrà servire più a niente.
Giovanni A. Cerutti
Per saperne di più
La storia di Árpád
Weisz e della sua famiglia è stata raccontata da Matteo
Marani in Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Árpád
Weisz, allenatore ebreo, Aliberti editore, Reggio Emilia
2007, nuova edizione 2012.
La ricostruzione della vicenda di Weisz è basata interamente
sul racconto di Marani. Pur non avendo utilizzato regole e convenzioni
disciplinari della storiografia sull'uso delle fonti, circostanze
e fatti narrati sono sostenuti da documenti e da testimonianze
chiaramente indicate e quindi facilmente individuabili e verificabili.
La traduzione italiana del Kalendarium curato da Danuta Czech
è stata pubblicata nel 2007 dall'editore Mimesis con
il titolo Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento
di Auschwitz 1939-1945.
Giovanni
Antonio Cerutti
(Borgomanero
- 1962), direttore scientifico dell'Istituto storico
della Resistenza e della società contemporanea
nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “P. Fornara“,
è anche cultore della materia presso la cattedra
di Scienza politica del professor Luciano Fasano facoltà
di Scienze politiche dell'Università statale
di Milano.
Ha scritto
saggi e libri di argomento storico e anche musicale
(occupandosi tra gli altri di Fabrizio De André
e Bob Dylan). |
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