pedagogia
Liberare l'educazione. Appunti per una pedagogia
antisessista
di Martina Guerrini
Anche a scuola, e in genere in campo
educativo, il maschilismo impera.
Appunti per una pedagogia antisessista.
Esiste un nesso tra educazione
e sessismo? Come si riproducono gli stereotipi discriminanti
di genere nell'insegnamento? Per cominciare una ricerca su questi
interrogativi è forse utile rivolgersi alla pedagogia
e alle scuole d'infanzia, che diversamente da quanto può
apparire a un primo superficiale sguardo, sono forse i luoghi
in cui il sessismo si struttura più facilmente.
Muovendo da questa considerazione, mi sono chiesta
se e come le educatrici riproducessero stereotipi discriminanti
nei confronti delle bambine, e in caso affermativo quale fosse
la strada migliore per intraprendere un percorso formativo e
di auto-comprensione da parte del personale docente.
Per
cominciare, alcune noterelle su ricerca qualitativa
e metodologia femminista
Nel 2011 ho condotto una ricerca “qualitativa”
sul sessismo nell'educazione in un Centro infanzia della mia
città.
Ho conosciuto da vicino ciascuna delle insegnanti, 14 donne
spesso piuttosto giovani per età ma già da tempo
impegnate nel contesto educativo come precarie. L'idea che la
formazione scolastica possa essere utile indipendentemente dalla
ricerca personalizzata delle difficoltà individuali nell'insegnamento
mi è apparsa subito insufficiente, e mi sono orientata
verso una relazione personale e professionale con le educatrici.
Ho trascorso quasi un'ora con ciascuna – sono tutte donne
– partendo da alcune domande che avevo ideato per approfondire
la questione del sessismo, sorprendendomi positivamente di come
si instaurasse da subito una relazione di scambio di esperienze
di vita, ricordi dell'infanzia, impressioni sul proprio percorso
scolastico.
La ricerca qualitativa – termine sociologico per indicare
una metodologia che prediliga la qualità della ricerca
– si avvale di metodi quali le interviste, l'osservazione
partecipata, la relazione paritaria tra ricercatore e (s)oggetto
della ricerca.
In essa «non c'è mai una netta separazione tra
teoria e risultanze empiriche»1.
Infatti in questo specifico caso non si parte con chiare ipotesi
in mente, ma esse si vanno costruendo per strada. Sembra quindi
appropriato parlare di «teoria che emerge dai dati».2
Non si danno vere e proprie “variabili” in partenza:
ovvero dati dai contorni così precisati da poter essere
empiricamente rilevabili; al contrario, si usano dei sensitizing
concept, secondo la definizione che ne dà Herbert
Blumer: un concetto “orientativo”, che predispone
alla percezione - letteralmente “sensibilizzante“
- ancora da rifinire non solo in termini operativi, ma anche
in termini teorici, nel corso della ricerca stessa:
«mentre i concetti definitivi (definitive concepts)
danno delle prescrizioni su cosa vedere, i concetti orientativi
(sensitizing concepts) forniscono solo una guida di avvicinamento
alla realtà empirica (...) suggerendo le direzioni nelle
quali guardare (...) in un processo che muove dal concetto verso
le concrete distintività della realtà, invece
di cercare di ingabbiare la realtà in una definizione
astratta del concetto stesso»3.
Contestando direttamente il paradigma neopositivista dell'osservatore
“scientifico”, quindi neutrale e distaccato, al
contrario l'approccio qualitativo colloca lo sguardo dello studioso
nella prospettiva di vedere la realtà sociale “con
gli occhi dei soggetti studiati”.
In tal senso, rifiuta la neutralità “scientifica”
e tende a sviluppare con i soggetti una relazione di immedesimazione
empatica.
Scrive a tal proposito Jankowski nella sua ricerca sulle gangs
metropolitane americane, esempio al maschile di “osservazione
partecipante”: «i dieci anni e cinque mesi che ho
speso in questa ricerca sono stati un viaggio (...) Ironicamente
è stato anche un viaggio all'indietro nella mia gioventù
(...) nel corso del quale ho incontrato gente meravigliosa che
sempre ricorderò con affetto ed altra non-così-meravigliosa,
che pure mai dimenticherò»4.
Appare quindi evidente che «l'oggetto dell'analisi non
è più rappresentato dalla variabile, ma dall'individuo
nella sua interezza. Con una terminologia inglese, mentre la
ricerca quantitativa è variable-based, quella
qualitativa è case-based»5.
La narrazione – cuore sensibile delle interviste –
è il nesso che permetterà alla teoria femminista,
in particolar modo quella statunitense degli anni Settanta,
di intraprendere un percorso di rottura epistemologica nelle
scienze sociali, contro l'idea neopositivista del ricercatore
neutro, mostrando al contrario quanto lo scienziato intervenga
in modo tutt'altro che asettico nei paradigmi scientifici, nello
sviluppo delle ricerche e nell'individuazione degli stessi risultati6.
Com'è noto, questa metodologia è stata accusata
di non risolvere il problema dell'oggettività della ricerca
qualitativa.
Ma la forza del rovesciamento di prospettiva operato dal pensiero
femminista risiede proprio nell'aver mostrato che anche il paradigma
quantitativo incorre nel medesimo rischio di invalidazione dell'oggettività
della analisi scientifica. E' infatti pur sempre un uomo –
maschio, bianco, di classe media, eterosessuale, abile –
a condurre ed ideare una ricerca basata su fondamenti di carattere
scientifico. Caratteri a propria volta condizionati da uno sguardo
maschile, falsamente neutro e fondati spesso su binari duali
che co-stringono la realtà in una semplificazione deduttiva,
forzandone quanto meno la complessità della sua “fenomenologia”.
Irene Biemmi ha individuato molto chiaramente questo passaggio
cruciale, centrale nella riflessione femminista sul metodo:
«dalle due funzioni esaminate dalle narrazioni (produzione
di senso, costruzione dell'identità) ne discende una
terza, fondamentale: quella di costituire eccezionali strumenti
di ricerca. Le storie offrono un accesso privilegiato al mondo
cognitivo degli individui e al loro modo di dare senso e
significato all'esperienza. Assumendo che il ricercatore
si ponga l'obiettivo di studiare, non tanto la realtà,
ma la rappresentazione che di questa danno i soggetti, è
evidente il vantaggio di utilizzare le narrazioni nell'ambito
delle scienze sociali»7.
La mia
ricerca
L'intervista che ho raccolto è semi-strutturata
e consta di circa trenta domande rivolte rispettivamente a nove
educatrici della scuola materna e cinque del nido d'infanzia.
Ho scelto di trascrivere di volta in volta i colloqui, iniziando
subito una informale riflessione sul materiale raccolto, utile
alla riformulazione o aggiunta di nuove interrogazioni.
L'unico accorgimento che ho predisposto, prima di iniziare,
è stato quello di tentare di stimolare un'(auto)riflessione
sulla professione da parte delle intervistate: volevo capire
come vivessero il lavoro a scuola e fuori, il rapporto con le
colleghe e con i genitori, il problema del maternage e la relazione
con i-le bambini-e, come spiegassero l'assenza (o scarsissima
presenza) di colleghi maschi e se la ritenessero un problema.
Solo successivamente ho proposto interrogativi più mirati
sul sessismo8.
La questione del maternage è la prima ad emergere:
quasi tutte le educatrici spiegano che “l'istinto materno”
le ha indotte a scegliere la professione, e che esso è
in qualche modo “propedeutico” all'educazione dell'infanzia.
E come la mettiamo con gli educatori maschi? Tutte rispondono
che sarebbe importantissimo che vi fossero in maggior numero,
perché capaci di capire meglio il corpo dei bambini e
di portare un “diverso” punto di vista professionale9.
Gli educatori sono “più pratici”, “si
preoccupano meno se i bambini si fanno male giocando”...
L'elemento più pericoloso che ho riscontrato, tuttavia,
riguarda l'identità maschile. Quasi tutte le educatrici
sostengono che solo un corpo adulto maschile sia adatto a fornire
la corretta identità sessuale ai più piccoli,
dimostrando di non saper distinguere l'identità sessuale
da quella di genere, ed in ogni caso implicitamente proponendone
un'immagine rigida e del tutto estranea alla realtà:
si passa rapidamente dal sessismo all'etero-sessismo e all'omo-discriminazione.
Naturalmente a questo errore gravissimo corrisponde un altro
stereotipo: il fatto che le educatrici donne ritengono avere
un “corpo accogliente“ e attribuiscono agli educatori
“un corpo dinamico”, concludendo che addirittura
siano proprio i bambini a subire una discriminazione nel processo
di costruzione della propria identità sessuale, a causa
dell'assenza di uomini docenti!
Volendo estremizzare, o semplicemente spingendo a fondo tale
logica, arriveremmo a immaginare una scuola nella quale sia
giusto ritenere di dividere docenti e alunni per sesso: pensiamo
a quanto sbagliato pedagogicamente, prima che sessista, sia
una prospettiva tanto conservatrice e lesiva della capacità
di sperimentazione e trasformazione culturale e politica riposta
in ciascuno di noi.
Molto
poco di “naturale”
Il fraintendimento risiede nella equivalenza
che le educatrici intervistate operano tra differenza sessuale
e differenza di genere, identità sessuale e identità
di genere, diventando inconsciamente i vettori di normalizzazione
sessista e discriminatoria nella scuola.
La giustificazione addotta è spesso rintracciata nella
coincidenza tra l'inizio dello sviluppo sessuale e l'approfondirsi
dei ruoli stereotipati di genere, ma è un'obiezione infondata:
non può essere attribuibile alla crescita sessuale, quanto
a una maggiore permeabilità e capacità imitativa
del mondo adulto, che si accresce negli ultimi anni della scuola
d'infanzia; a due anni i-le bambini-e sono meno capaci, rispetto
ai quattro/cinque, di riprodurre ruoli, gerarchie, discriminazioni
sessuali conosciute grazie ai molti cattivi maestri sociali
che incontrano nella quotidianità, oltre all'osservazione
permanente del sessismo familiare (quando non la violenza!)
nel quale assai spesso crescono..
Le educatrici, da ottime osservatrici (una delle loro competenze
meno socialmente valorizzata), colgono esattamente forse la
questione più importante del sessismo, e aggiungerei
dell'attitudine all'autorità, ai ruoli gerarchici: il
modo in cui i corpi sessuati sono soliti essere educati a muoversi
e occupare uno spazio (fisico, di gioco, di studio ecc).
All'osservazione, però, non segue la risposta adeguata:
le bambine sono definite naturalmente meno attratte da
un gioco fisico, dal toccarsi, picchiarsi, rotolarsi a terra
e così via. Sono abituate fin da piccolissime a gestire
il proprio corpo in “modo femminile”: alcune educatrici
mi hanno riferito di richiamare più spesso le bambine
dei maschietti, quando le vedevano sudare o correre “troppo”.
A ben vedere, di “naturale” in tutto ciò
vi è molto poco.
Un corpo libero di muoversi esprime e sperimenta i propri limiti,
anche quello di sfidare la paura, di misurarsi con ciò
che non conosce, di non affidarsi ad altri per affrontare e
vivere le proprie avventure. Al contrario, un corpo già
irreggimentato, limitato nelle azioni, non è capace di
immaginarsi protagonista della propria gestione nello spazio,
così come nell'affrontare prove, avventure, incognite
che richiedono la conoscenza dei propri limiti, delle proprie
paure e della capacità di spostare sempre più
avanti la barra delle possibilità.
Trovo sinceramente incredibile che nessuna ricercatrice si sia
mai soffermata su questo aspetto macroscopico dell'osservazione
pedagogica, o che non ne abbia colto l'estrema pregnanza politica
e sociale: si può supporre che con bambine “docili”
avremo donne con deficit di sperimentazione della propria “autonomia”?
E' bene tenere presente che autonomia fa rima con autostima,
e che quest'ultima ha un ruolo essenziale nell'affrontare e
risolvere positivamente processi dolorosi di uscita da situazioni
di violenza.
Fortunatamente il corso personale della vita di ciascuna è
frutto di esperienza, capacità critica, incontri “fatali”
capaci di mutare la vita di ognun* di noi, ma è bene
tenere presente che questo ed altro (la pedagogia diffusa: il
controllo omologante televisivo, la spettacolarizzazione dei
ruoli di genere sessisti, ecc) lavorano ogni istante contro
chi lotta per una società libera dall'autorità
e dal sessismo che dell'autorità è figlio non
unico.
Martina Guerrini
Note
- CORBETTA, P., Metodologia e tecniche
della ricerca sociale, Il Mulino 1999, pag. 56.
- CORBETTA, P., op. cit., pag. 56.
- BLUMER, H., Symbolic Interactionism. Perspective and Method,
Ed. Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1969, pp. 149-150.
- JANKOWSKI, S.M., Islands in the Street. Gangs
and American Urban Society, Berkeley, University of California
Press, 1991, XI.
- CORBETTA, P., op. cit., pag. 65.
- Per approfondire storicamente e teoricamente il
dibattito femminista americano degli anni Settanta e le difficoltà
di imporsi analogamente in Italia, è utile tra i tanti
testi consultare:
TERRAGNI, L., La ricerca di genere, in MELUCCI, A., Verso
una sociologia riflessiva. Ricerca qualitativa e cultura,
Il Mulino, 1988; BOWLES, G. e DUELLI KLEIN, R., Theories
of Women's Studies, London, Routledge & Kegan Paul,
1983; ULIVIERI, S. e BIEMMI, I. (a cura di), Storie di donne.
Autobiografie al femminile e narrazione identitaria, Guerini
Scientifica, 2011; FOX KELLER, E., Sul genere e la scienza,
Garzanti, 1987; KANDALL, T.R., The Woman Question in the
Classical Sociological Theory, Florida International University
Press, 1988; HARDING, S., Is there a Feminist Method?,
in Feminism and Methodology, a cura di HARDING, Indiana
University Press, 1987.
- BIEMMI, I., Genere e processi narrativi. Sguardi
femminili e maschili sulla professione di insegnante, ETS,
2009, pag. 101.
- La scelta si è rivelata felice perché,
come immaginavo, molte delle risposte ricevute comprendevano
già implicitamente informazioni sul sessismo educativo,
e si sono rivelate di una straordinaria utilità per comprendere
quanto i meccanismi discriminatori operino a fondo nella coscienza
collettiva e si riproducano con dispositivi alienanti di soppressione
della coscienza soggettiva.
- La questione del cosiddetto “istinto materno“
contraddice sensibilmente la preparazione e l'importanza che
le educatrici attribuiscono – convintamente – ai
colleghi di sesso maschile. Tuttavia il richiamo a “presupposti
naturali o innati“, se esce dalla porta, rientra dalla
finestra con il fraintendimento (pericolosissimo) dell'identità
sessuale/identità di genere nel rapporto tra educatore
e bambino maschio.
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