dossier Piazza
Fontana & dintorni
2. La stagione della contestazione
La strage di Piazza Fontana avvenne in un contesto particolare.
Dopo il secondo conflitto mondiale il mondo finì per
dividersi in due aree di influenza: gli stati del blocco occidentale
sostenevano la politica americana e quelli appartenenti al blocco
orientale erano filosovietici. Il conflitto riguardava anche
i modelli politici, economici e sociali che i due Paesi incarnavano:
la liberaldemocrazia capitalista americana contrapposta al totalitarismo
comunista sovietico. Si entrava in quella fase storica chiamata
guerra fredda perché le due potenze in grado di giocare
una partita sul piano mondiale, Usa e Urss, non si fronteggiarono
mai direttamente con l'impiego delle forze armate.
L'Italia aderiva al blocco occidentale, ma al suo interno aveva
il partito comunista più grande di tutta l'Europa occidentale.
Gli anticomunisti temevano che in caso di una vittoria elettorale
comunista si potesse instaurare un regime simile a quello sovietico.
In molte parti del mondo la risposta al rischio di una presa
del potere da parte dei comunisti non fu democratica, ma consistette
nell'instaurazione di regimi autoritari.
La politica dei blocchi continuò fino al 1989, anche
se in precedenza si erano avuti dei periodi di distensione,
soprattutto dopo la «destalinizzazione» voluta da
ChrušËcëv con il ventesimo congresso del Pcus (Partito
Comunista dell'Unione Sovietica) nel 1956. Nello stesso anno
in Ungheria scoppiò una rivolta contro il regime stalinista;
le truppe sovietiche intervennero per bloccare l'insurrezione,
ma il Partito comunista italiano, sulle pagine de «l'Unità»,
parlò dei disordini ungheresi come di una controrivoluzione
mossa dai reazionari. Tesi in contrasto con le notizie che arrivavano
dalla capitale ungherese: persino la Cgil sconfessò la
tesi de «l'Unità». Questo episodio fece perdere
consensi al Pci, ma soprattutto provocò una profonda
frattura tra comunisti e socialisti, che condannarono senza
reticenze l'intervento sovietico e modificarono la loro politica
nei confronti dello stato e della sociètà italiana.
Dopo questo fatto si cominciò a parlare della cosiddetta
«apertura a sinistra», cioè di una collaborazione
di governo tra Dc e Psi. Nel febbraio 1962 i parlamentari socialisti
si astennero nel voto di fiducia al quarto governo Fanfani e
infine i socialisti entrarono nel primo governo presieduto da
Aldo Moro, insediatosi il 4 dicembre 1963. La creazione del
centrosinistra apparve allora come l'unica soluzione per sbloccare
senza pericoli il quadro politico italiano.
Il primo governo di centrosinistra non durò però
a lungo: nel giugno 1964 Aldo Moro dovette presentare le dimissioni
perché il Psi votò contro un provvedimento che
prevedeva l'aumento dei contributi statali alla scuola privata.
Questo fu solo un pretesto: il malcontento socialista era dovuto
alla sospensione dell'attuazione dei provvedimenti riformisti
del programma governativo.
Attraverso la mediazione di Moro la rottura si ricompose e il
Psi tornò al governo rimandando però le riforme
a periodi più favorevoli. Alcuni anni dopo emerse che
sullo sfondo della crisi di governo dell'estate 1964 si era
profilato il cosiddetto «Piano Solo», che in caso
di turbamenti dell'ordine pubblico prevedeva misure straordinarie
attuate dalla sola Arma dei carabinieri, quali arresti di oppositori
e occupazione di obiettivi sensibili tipo prefetture e sedi
della Rai. L'esistenza del «Piano Solo» rivelava
la disponibilità di alcuni settori dello Stato ad agire
fuori dalla legalità pur di condizionare lo sviluppo
democratico del Paese. In ogni caso Aldo Moro presiedette altri
due governi di centrosinistra che durarono fino a dopo le elezioni
politiche del 1968. Seguì un governo monocolore di transizione
guidato da Giovanni Leone e alla fine del 1968 fu varato un
nuovo governo di centrosinistra, capeggiato da Mariano Rumor,
che però durò solo fino all'agosto 1969. Dopo
l'ennesima crisi l'incaricò passò nuovamente a
Rumor che diede vita ad un governo monocolore democristiano,
l'unica soluzione che parve allora praticabile in attesa che
maturassero le condizioni programmatiche e politiche per un
nuovo esecutivo di centrosinistra.
L'instabilità delle istituzioni e l'incapacità
di governare dei diversi schieramenti, che il più delle
volte procedevano ad un semplice rimpasto più che ad
un vero rinnovamento, rivelavano una classe politica incapace
di affrontare i grandi mutamenti che stavano trasformando il
paese.
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima
metà degli anni Sessanta ci fu il «miracolo economico»,
il più impetuoso sviluppo produttivo che l'Italia avesse
conosciuto. Si erano alimentate aspettattive di benessere più
diffuso, ma il centrosinistra, creato in teoria per non deludere
tali aspettative, non era riuscito a realizzare nessuna ridistribuzione
della ricchezza. Le strutture sociali, le condizioni di vita
e lavorative rimanevano immutate. Alla crisi dei partiti e alla
loro incapacità di far fronte ai bisogni sociali, si
aggiunsero, a movimentare il quadro italiano tra il 1968 e il
1969, la protesta degli studenti e quella degli operai.
La società italiana si ritrovò in subbuglio, molte
categorie sociali espressero il proprio malcontento con scioperi
e manifestazioni di piazza. Un sintomatico momento di tensione
si ebbe in occasione dello sciopero generale indetto per il
19 novembre 1969. Allo sciopero aderì quasi il 95 per
cento dei lavoratori e centinaia di migliaia di persone parteciparono
ai cortei e ai comizi che si tennero nelle principali città
italiane. A Milano tra polizia e manifestanti si registrarono
gravi scontri che culminarono con la morte dell'agente Antonio
Annarumma: la versione ufficiale parlò di un colpo inferto
dai manifestanti con un tubo metallico che aveva causato lo
sfondamento della scatola cranica, mentre le sinistre e i sindacati
sostennero che il poliziotto aveva sbattuto la testa contro
il montante della jeep che stava guidando dopo un urto con un
altro mezzo della polizia. La tensione era destinata a crescere
nelle settimane successive.
I grandi imprenditori manifestarono il proprio malcontento
nei confronti di un governo all'apparenza troppo aperto alle
istanze sindacali. Nell'immaginario della sinistra iniziò
a crescere l'idea che una soluzione di tipo fascista stesse
diventando la scelta della grande borghesia. I timori di uno
sbocco autoritario si fondavano sul fatto che i meccanismi di
mediazione sociale erano bloccati e di conseguenza le dinamiche
dello scontro potevano sfuggire di mano da un momento all'altro.
Questa situazione favorì il nascere di preoccupazioni
in tutte le aree politiche: a destra si immaginava che l'unica
via di scampo fosse un regime autoritario, all'opposto l'estrema
sinistra credeva che la rivoluzione socialista fosse l'unico
orizzonte possibile, mentre i moderati vedevano un attacco simultaneo
da destra e da sinistra che avrebbe posto fine alla democrazia.
Sotto la spinta del movimento operaio si assistette a nuove
conquiste sul piano dei salari industriali, che continuarono
a crescere negli anni Settanta, e all'approvazione dello Statuto
dei lavoratori, che conteneva nuove e importanti norme a difesa
del lavoratore.
Non tardarono però a manifestarsi gli effetti negativi
della mobilitazione operaia: sul piano economico si vide la
diminuzione della produzione industriale in conseguenza delle
lunghe azioni di sciopero; sul piano psicologico fu ribadita
la sfiducia imprenditoriale nelle istituzioni e la contestazione
sempre più aspra dei lavoratori nei confronti della figura
dell'imprenditore; a livello politico, come già accennato,
cresceva la paura che il movimento, che era riuscito a coinvolgere
milioni di lavoratori, potesse sovvertire le istituzioni democratiche.
In tale clima si riaffacciarono sulla scena italiana le organizzazioni
e i partiti neofascisti. Alla testa del Movimento sociale italiano,
nel 1969, alla gestione moderata di Arturo Michelini si era
sostituita quella più dinamica di Giorgio Almirante,
che tentò di fare del partito il punto di riferimento
di tutte le forze conservatrici. Il fine politico era quello
di dimostrare all'elettorato conservatore la capacità
dell'Msi di rispondere con le stesse armi all'azione dell'estrema
sinistra: per questo l'istigazione alla violenza conviveva con
l'immagine di un partito d'ordine istituzionale e democratico.
Per le forze democratiche un fattore di preoccupazione era stato
il colpo di stato militare attuato in Grecia il 21 aprile 1967:
le elezioni furono cancellate, la costituzione sospesa, migliaia
di persone che avevano mostrato simpatie per la sinistra vennero
arrestate, tra cui anche il Primo Ministro e vari dirigenti
politici.
Si temeva che qualcosa dei simile potesse accadere anche in
Italia, viste le apparenti analogie tra i due paesi: la persistenza
di aree arretrate, la presenza di dirigenti di formazione fascista
nella polizia e nelle forze armate, l'esistenza di un partito
neofascista; inoltre entrambi i paesi occupavano una posizione
di congiunzione tra il blocco orientale e quello occidentale.
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Milano,
il commissario Luigi Calabresi (al centro) |
I movimenti di protesta della fine degli anni Sessanta avevano
creato, a sinistra del Pci, una vasta area che puntava alla
creazione di un nuovo tipo di socialismo ideale e alla realizzazione
di condizioni sociali e individuali utopiche.
La strage di piazza Fontana lasciò una traccia indelebile
specialmente sull'immaginario dei militanti di Lotta Continua,
il più celebre e il più numeroso fra tutti i gruppi
dell'estrema sinistra italiana di allora, formatosi nell'autunno
del 1969 dalla fusione di alcuni esponenti del Movimento studentesco
con circoli dell'area operaista. La sua cultura politica, un
incrocio tra marxismo e anarcosindacalismo, privilegiava l'intervento
politico diretto, l'uso dell'inchiesta militante, un lavoro
connotato da una forte emotività e dall'utilizzo delle
più diverse forme espressive. Oltre che nelle fabbriche
e nelle università si diffuse nei licei, fra i detenuti,
fra i soldati di leva, fra i pescatori di San Benedetto del
Tronto, tra i disoccupati, i contrabbandieri e gli occupanti
delle case di Milano.
Il proliferare di questi movimenti con una linea autonoma da
qualsiasi partito, quindi ingovernabili da una dirigenza istituzionale,
e che portavano critiche forti all'organizzazione statale e
alla sua funzione di strumento di oppressione di classe, suscitò
forti timori nell'opinione pubblica moderata. Per alcuni la
stagione delle manifestazioni e della contestazione doveva essere
chiusa al più presto e spesso la stampa neofascista inneggiava
ad un colpo di stato ritenuto gradito dalla maggioranza dei
cittadini.
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