La svastica
allo stadio 3
La squadra del ghetto
di Giovanni A. Cerutti
In questa terza (e penultima) puntata dei suoi articoli su “calcio e nazismo”, il direttore scientifico dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “P. Fornara” si occupa dell'Ajax. E dei mondiali di calcio Argentina '78. E di altre vicende, alcune allucinanti.
Domenica 25 giugno 1978, ore
15.00. Allo stadio Monumental di Buenos Aires stanno per entrare
in campo le nazionali dell'Olanda e dell'Argentina per disputare
la finale del campionato mondiale. Tra i due capitani, Ruud
Krol e Daniel Passarella, non c'è, però, l'arbitro
designato originariamente dalla Fifa, la Federazione internazionale,
ad arbitrare la partita. La federazione argentina, infatti,
aveva fatto pressioni per ottenere la sostituzione dell'israeliano
Abraham Klein, sostenendo che i rapporti politici troppo stretti
tra Olanda e Israele potevano condizionare la sua capacità
di garantire un arbitraggio imparziale. In realtà gli
argentini temevano un arbitro che aveva dato prova di non essere
assolutamente influenzabile, dirigendo in modo impeccabile Argentina
- Italia, vinta dagli azzurri per 1-0 nel corso del primo turno.
Con quella vittoria la nazionale italiana aveva conquistato
il primo posto nel girone, accedendo in tal modo al girone A
di semifinale, che si giocava a Buenos Aires, e costringendo
gli argentini a spostarsi a Rosario, per disputare le partite
del girone B. Oggi abbiamo numerose prove, comprese le ammissioni
di alcuni calciatori argentini, di quanto quel mondiale fu,
invece, condizionato dalla volontà del regime del generale
Videla di ottenere con ogni mezzo una vittoria che pensava gli
avrebbe consentito di consolidare una popolarità traballante.
Clamorosa, in questo senso, la combine con il Perù, battuto
6-0, per eliminare il Brasile grazie alla differenza reti.
Ma né gli argentini né Klein in quel momento potevano
avere coscienza di quanto quella decisione annodava in un groviglio
inestricabile il passato più tragico della storia europea
con un presente che dava mostra di non averne appreso la lezione.
È probabile, invece, che Ruud Krol lo avesse intuito,
pur non conoscendo ancora una circostanza significativa di quella
vicenda.
Kuki Krol, il padre di Ruud, era stato un centrocampista molto
popolare nella regione di Amsterdam, grazie al suo gioco fantasioso,
molto distante dall'elegante potenza atletica grazie al quale
il figlio sarebbe diventato uno dei calciatori più forti
della sua generazione. Dopo la capitolazione olandese del 14
maggio 1940, Krol aveva costituito insieme a Leo Horn uno dei
gruppi più tenaci della Resistenza olandese. Nel dopoguerra
Horn sarebbe diventato un famoso arbitro internazionale, dirigendo,
tra l'altro, il 25 novembre 1953 Inghilterra - Ungheria che
vide la storica vittoria a Wembley per 6 a 3 della squadra di
Puskas e Hidegkuti, prima nazionale a battere i maestri inglesi
in casa. Il salvataggio e la protezione della popolazione ebraica
costituivano uno dei nuclei principali dell'azione svolta da
quel gruppo, e da Krol in particolare. Nel 1941, infatti, ad
Amsterdam risiedeva più della metà dei circa 140.000
cittadini definiti ebrei dall'estensione delle leggi di Norimberga
al territorio olandese. Si trattava di circa il 13% della popolazione
cittadina. La maggior parte di essi viveva nello Jodenbuurt,
il quartiere ebraico, dove avevano vissuto Rembrandt e Spinoza.
Tre chilometri più ad est sorgeva lo stadio dell'Ajax,
una delle squadre più prestigiose del paese fin dalla
fondazione nel 1900. Krol e Horn erano soci del club biancorosso
e una parte significativa della Resistenza di Amsterdam si aggregò
intorno a una rete che poteva essere ricondotta alla società
dell'Ajax.
I legami tra la squadra dell'Ajax e gli abitanti del quartiere
ebraico cominciarono a svilupparsi fin dagli anni venti, quando
il calcio divenne lo sport più popolare del paese. All'interno
della comunità erano sorte cinque piccole squadre ebraiche,
ma la popolazione del quartiere era in prevalenza di modesta
estrazione sociale. Fino all'avvento del professionismo, far
parte di una squadra – o di un club, come si diceva allora
– era piuttosto costoso, un po' come oggi far parte di
un club di golf o di tennis. Erano molto pochi, quindi, gli
ebrei che potevano permettersi di far parte di una di quelle
squadre; meno che meno di far parte dell'Ajax. Il più
famoso di questi fu Eddy Hamel, un esterno destro dallo scatto
veloce, che militò tra i biancorossi dal 1922 al 1930,
disputando 125 partite e segnando 8 gol.
Intorno alle squadre di calcio, però, si creò
subito un legame che dava luogo a fenomeni di identificazione
collettiva, diventando in breve tempo un elemento non secondario
della vita sociale. Da subito la maggior parte degli abitanti
dello Jodenbuurt che si interessavano di calcio cominciarono
a tifare per l'Ajax, anche coloro i quali non avrebbero mai
potuto permettersi di andare allo stadio. La domenica pomeriggio,
le tribune di legno dello stadio dell'Ajax diventavano un luogo
di incontro tenuto insieme da un'idea di appartenenza comune.
Tanto che quando nel 1938 si disputò la partita con l'Admira
Vienna, nel momento in cui i giocatori austriaci fecero il saluto
nazista alla bandiera tedesca, lo stadio esplose in una selva
di fischi e molti spettatori abbandonarono polemicamente le
tribune.
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Amsterdam, Jodenbuurt (quartiere ebraico), 1942 |
Nazione
tollerante?
L'occupazione tedesca pose fine a questa consuetudine, lacerando
in modo irrimediabile il tessuto umano e sociale di Amsterdam,
e del resto del paese. Tra il 1940 e il 1945 in Olanda vennero
deportati nei campi di sterminio circa 107.000 persone di origine
ebraica; soltanto 5.450 riuscirono a sopravvivere. Si tratta
della percentuale più alta di deportati rispetto al complesso
della popolazione ebraica e della percentuale più alta
di morti rispetto al numero dei deportati registrata nei paesi
occupati dell'Europa occidentale. Questo dato impressionante
è il risultato della combinazione di diversi fattori.
Innanzitutto lo spietato regime di occupazione diretto da Seyss-Inquart,
il fanatico antisemita austriaco che Hitler aveva posto al vertice
dell'amministrazione civile olandese, all'interno del quale
il comandante supremo delle SS e della polizia Rauter –
anch'egli parossisticamente antisemita – non aveva avuto
alcun tipo di ostacolo nel porre l'eliminazione degli ebrei
come obiettivo prioritario. La comunità ebraica, di contro,
era attraversata da linee di divisione sociale piuttosto marcate,
soprattutto quella di Amsterdam, divisa tra una maggioranza
di piccoli commercianti dal reddito prossimo alla soglia della
povertà, con stili di vita conseguenti, e una classe
media e un'alta borghesia proprietaria di ingenti fortune.
Questa frammentazione impedì di percepire la vera natura
della minaccia, che, invece, prescindeva completamente da considerazioni
sociali o di status, ma si muoveva seconda la logica razziale,
anzi ancora più sinistramente biologico-razziale. Il
consiglio ebraico, inoltre, si lasciò manipolare completamente
dalla strategia di intimidazioni e lusinghe utilizzata dalla
polizia tedesca, finendo per facilitare nei fatti la deportazione
della propria gente. Ma il fattore probabilmente decisivo fu
la collaborazione prestata dall'amministrazione olandese, in
modo particolare dagli uffici delle anagrafi, che permisero
ai tedeschi di individuare facilmente i cittadini ebrei, e dalla
polizia, che affiancò con zelo non richiesto le operazioni
di prelevamento eseguite dalle SS e dalla polizia tedesca.
Più difficile dire quale fu il comportamento complessivo
degli olandesi. Al mito della nazione tollerante che si prodiga
naturalmente per salvare i propri cittadini ebrei perseguitati
è subentrata nel tempo la consapevolezza della sostanziale
indifferenza che circondò la deportazione. Significative
in tal senso le parole pronunciate dalla regina Beatrice nel
discorso tenuto alla Knesset il 28 marzo 1995, nel quale riconosceva
che il popolo olandese non era stato in grado di impedire lo
sterminio dei propri concittadini ebrei, pur rendendo omaggio
al valore di chi si era messo in gioco dando vita a forme di
resistenza coraggiose. Oggi questi comportamenti tendono ad
apparirci poco giustificabili e difficilmente riusciamo a comprendere
la sostanziale inerzia che permise la realizzazione del progetto
di sterminio nazista. Ci manca – possiamo dire fortunatamente
– la capacità di riuscire a valutare compiutamente
il ruolo svolto dalla pressione della violenza esercitata dal
regime di occupazione nel coartare le volontà individuali,
impedendo soprattutto che riuscissero a confluire in una dimensione
collettiva. Ma resta la sensazione di fondo dell'inadeguatezza
prima ancora che nel fronteggiare, nel comprendere compiutamente
quanto stava accadendo, la natura della minaccia che la deportazione
e lo sterminio ponevano all'idea stessa di umanità. Fattore
decisivo fu la disgregazione di qualsiasi struttura collettiva
sotto l'urto delle armate tedesche. Stati e società vennero
disarticolati, privando le persone delle coordinate entro le
quali incardinare i propri comportamenti. Restavano le scelte
morali di ciascuno, fondamentali nel conservare un'idea di umanità,
troppo deboli per impedirne lo scempio. È forse è
proprio questa la lezione che dovremmo imparare.
Direzioni
diverse
Le stesse dinamiche hanno investito il mondo che ruotava intorno
alle squadre di calcio. L'Ajax in particolare, dato che al momento
dell'occupazione era la società che vantava il maggior
numero di iscritti di origine ebraica. Nel 1941 i soci ebrei
della società furono espulsi, in ossequio alle disposizioni
del regime di occupazione; molti altri si dimisero prima di
dover subire il provvedimento. Accanto a questa neghittosa acquiescenza
conviveva la volontà di mostrare la propria disapprovazione
per quanto stava avvenendo, come mostra uno stralcio del resoconto
dell'attività 1941-42 pubblicato da Simon Kuper nel suo
Ajax, the Dutch, the War, in cui si allude chiaramente
alle deportazioni in corso, mostrando solidarietà e trepidazione
per il destino dei propri soci. Tra questi c'era anche Eddy
Hamel. Sebbene fosse nato a New York nel 1902 e avesse mantenuto
la cittadinanza americana, nel 1942 venne deportato a Birkenau,
dove morì il 30 aprile 1943.
Anche le scelte individuali presero direzioni diverse sotto
l'urto dell'occupazione. Il capitano della squadra che vinse
i campionati nel 1918 e nel 1919, Joop Pelser, che dal termine
della carriera faceva parte del consiglio direttivo come socio
onorario, fin dalla fine degli anni trenta si era iscritto al
partito nazionalsocialista olandese con la moglie e il figlio
Harry, anch'egli giocatore dell'Ajax. Un altro figlio, Jan,
si era arruolato volontario delle Waffen SS, finendo sul fronte
orientale. Nel 1942 Pelser incominciò a lavorare per
la Lippman Rosenthal Bank, una banca che era stata sottratta
ai proprietari ebrei e trasformata in un'agenzia che valutava
i beni delle persone avviate ai campi di sterminio. Piet van
Deijck, titolare della prima squadra, fece parte di una banda
che razziava le case degli ebrei deportati. Nel dopoguerra fu
anche accusato di aver denunciato alla Gestapo dei cittadini
olandesi, anche se l'accusa non venne mai provata. Foeke Kermer,
mediano di una squadra cadetta e allenatore delle giovanili,
aveva catturato ad Harlem cinquanta persone che si stavano nascondendo
e aveva prestato servizio quale sorvegliante nei campi, dove
si era segnalato per i maltrattamenti che aveva inflitto ai
prigionieri.
Kuki Krol e Leo Horn, invece, come abbiamo visto, avevano scelto
di entrare nella Resistenza, costituendo un gruppo che svolse
un'attività costante fino al termine della guerra. Fu
un'esperienza che segnò in maniera indelebile entrambi.
Horn dovette ricorrere a un potente sonnifero fino al termine
della sua vita per riuscire a domare i lancinanti ricordi che
gli facevano puntualmente visita ogni sera. Krol non riuscì
mai a lasciarsi veramente alle spalle gli anni della guerra.
Intervistato lungamente da Kuper nel 1999 quando stava scrivendo
il suo libro sull'Ajax, era ancora così scosso emotivamente
che alla fine non se la sentì di concedere l'autorizzazione
a utilizzare le informazioni che riguardavano la sua vicenda
e di permettere di venire citato ufficialmente. Il gruppo era
formato da dieci persone che agivano nella più assoluta
clandestinità, svolgendo azioni militari, soprattutto
di sabotaggio alle linee di comunicazione dell'esercito tedesco,
e provvedendo a mantenere in vita una rete di alloggi dove era
possibile tenere nascosti per lunghi periodi gli ebrei che erano
riusciti a sfuggire alla deportazione, cercando di organizzarne,
quando possibile, la fuga. Uno dei centri organizzativi era
il negozio di Kuki Krol, che venne individuato dalla polizia
tedesca. Krol sfuggì alla cattura, perché nel
momento dell'irruzione casualmente non si trovava nel negozio.
Venne, però, perquisito il commesso, un giovane comunista
che militava anch'egli nel gruppo. Lo tradirono le tre diverse
carte d'identità che gli vennero trovate addosso. Non
tornò mai dal campo in cui fu deportato. Si creò
anche una rete informale tra molti dei soci che partecipavano
più attivamente alla vita della società, che dispensò
aiuti di ogni genere non solo agli ebrei perseguitati. Questa
rete fu attiva soprattutto nell'ultimo terribile inverno di
guerra, l'Hongerwinter, quando ad Amsterdam più
di un migliaio di persone morirono di fame e di stenti, procurando
e distribuendo aiuti alimentari e vestiario.
L'Ajax, però, incominciò a essere identificata
con gli ebrei a partire dagli anni sessanta, quando le tifoserie
delle squadre avversarie cominciarono a definire i biancorossi
“squadra di ebrei” con intenti non proprio celebrativi,
fino, in anni più recenti, a invocare dalle curve una
nuova Auschwitz o a riprodurre il sibilo delle camere a gas
all'ingresso dei calciatori in campo. Per inciso, non solo in
Olanda: quando nel 2003 l'Ajax giocò a Roma una partita
di coppa, i tifosi giallorossi accolsero gli olandesi con uno
striscione che recitava: «And now... go to have a shower».
Ben presto i tifosi dell'Ajax rivendicarono con orgoglio l'identificazione,
cantando a squarciagola “Ebrei!” mentre sventolavano
bandiere con la stella di David, meglio nota negli stadi come
la stella dell'Ajax, o srotolando in curva un'immensa bandiera
israeliana.
Unica
possibilità: l'Ajax
L'Ajax, però, non era più la squadra degli ebrei
dello Jodenbuurt degli anni trenta. Durante l'occupazione
il quartiere era stato trasformato in un ghetto dai tedeschi,
che lo avevano recintato con il filo spinato per rendere più
spedite le operazioni di prelevamento delle persone da avviare
alla deportazione. Come abbiamo visto, al termine della guerra
non era tornato quasi nessuno. Il quartiere era diventato un
ammasso di rovine e le case lasciate vuote erano state saccheggiate;
persino gli stipiti delle porte erano stati usati come legna
da ardere. E anche delle cinque squadre di calcio ebraiche non
era rimasto niente.
Così i ragazzi delle poche famiglie ebree sopravvissute
che volevano giocare a calcio cominciarono a bussare timidamente
alle porte dell'Ajax. Era una scelta quasi naturale.
Nel 1949 due ragazzini, Sjaak Swart e Bennie Muller, furono
accettati nelle giovanili dell'Ajax. Il padre di Swart vendeva
aringhe al mercato, la famiglia di Muller aveva un banco di
frutta e verdura.
Nel 1956 Swart debuttò in prima squadra a soli diciotto;
l'anno dopo toccò a Muller. Swart – il cui soprannome
divenne significativamente Mr. Ajax – avrebbe giocato
596 partite ufficiali con la maglia dell'Ajax, vincendo otto
campionati, tre coppe dei campioni e una coppa intercontinentale;
Muller divenne il capitano dei biancorossi e della nazionale
olandese. Era nata la squadra del ghetto. L'identificazione
divenne ancora più stretta qualche anno dopo, quando
un gruppo di imprenditori ebrei cominciò a entrare nel
consiglio direttivo dell'Ajax e a investire massicciamente nella
squadra, che divenne in breve tempo la più forte d'Europa,
segnando un'epoca del calcio mondiale.
Nel 1964 venne eletto presidente della società Jaap van
Praag. I suoi genitori e la sorellina erano morti nei campi
di sterminio ed egli era riuscito a salvarsi grazie all'aiuto
della rete dei soci dell'Ajax, che lo avevano tenuto nascosto
per due anni e mezzo. Tra i principali finanziatori della squadra
c'era Maup Caransa, immobiliarista e proprietario di vaste zone
di Amsterdam. Anche i suoi genitori e i suoi quattro fratelli
non erano mai tornati dai campi. Figlio di un commerciante di
carbone, Caransa aveva cominciato a lavorare a dodici anni girando
per il quartiere ebraico con un carretto per vendere petrolio
e carbone.
Ma gli altri grandi finanziatori della squadra erano diventati
i fratelli Freek e Wim van der Meijden, che ad Amsterdam tutti
chiamavano significativamente “i costruttori del bunker”.
Titolari di una piccola impresa di costruzioni, durante l'occupazione
si erano messi al servizio dell'amministrazione tedesca, costruendo
caserme, postazioni di artiglieria lungo la costa e, appunto,
bunker, accumulando una fortuna ingente e sviluppando una delle
società edili più rilevanti del paese. Dopo la
liberazione, vennero condannati a tre anni di carcere per collaborazionismo.
Accesi tifosi dell'Ajax, scontata la pena ricominciarono a frequentare
le tribune dello stadio De Meer e a sostenere economicamente
la squadra, accollandosi numerose spese e aiutando i calciatori,
ancora semiprofessionisti, a trovare adeguate sistemazioni.
Ma l'infamante pena subìta divenne un ostacolo insormontabile
all'ingresso ufficiale nel consiglio direttivo della società.
Fino all'elezione a presidente di van Praag. L'uomo che si era
salvato dalla morte nascondendosi per due anni mezzo e la cui
famiglia era stata sterminata nei campi, tendeva la mano a chi
aveva collaborato attivamente con la macchina dell'occupazione.
Qualche tempo dopo Freek e Wim van der Meijden restaurarono
a proprie spese una vecchia sinagoga che stava cadendo a pezzi.
Il 15 novembre 1964 sul campo di Groningen debuttò in
prima squadra il diciassettenne Johan Cruijff. Due anni dopo,
il 7 dicembre 1966, nella partita di andata degli ottavi di
finale della coppa dei campioni, l'Ajax sconfisse per 5 a 1
il Liverpool, grande favorito per la vittoria finale. Quel gruppo
di ragazzi cresciuti intorno al vecchio stadio aveva iniziato
a scalare il mondo.
Ruud Krol tutta questa storia la conosceva bene. Fino alla sua
morte, avvenuta nel 2003, suo padre aveva tenuto su un tavolino
in soggiorno la fotografia del ragazzo catturato dai tedeschi
nel suo negozio. Non poteva, però, sapere che nel 1947
il tredicenne Abraham Klein, profugo dall'Ungheria e dalla Romania,
sulla strada per Israele era stato ospitato per un anno in Olanda,
insieme ad altri cinquecento bambini, frequentando la scuola
nella città di Apeldoorn. Lo avrebbe raccontato soltanto
anni dopo a Simon Kuper. Né Klein poteva sapere del ruolo
avuto dal padre di Krol durante l'occupazione nel salvare dalla
deportazione gli ebrei che si trovavano in Olanda. Lo avrebbe
saputo da Leo Horn soltanto nel 1994, nel corso di una conversazione
addentratasi accidentalmente nelle vicende della guerra, svoltasi
durante uno dei suoi periodici viaggi ad Haifa per rendere visita
al suo grande amico.
Daniel Passarella, invece, non avrebbe dovuto essere il capitano
della squadra argentina. Aveva ereditato la fascia da Jorge
Carrascosa, il terzino sinistro dell'Huracán, che aveva
rinunciato alla nazionale per non dover sostenere il regime
di Videla. Il posto alla sinistra della difesa, invece, era
finito ad Alberto Tarantini, che ha rivelato in un'intervista
di qualche anno fa che tre suoi amici furono sequestrati dai
militari e risultano ad oggi tra i desaparacidos. A trecento
metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires sorgeva la Escuela
de Mécanica della Marina Argentina.
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Cartolina commemorativa di Ruud Krol |
L'aguzzino
e la vittima
Nei primi giorni dopo il colpo di stato del 1976 l'edificio
era stato utilizzato per trattenere le prime persone fermate;
in seguito divenne il luogo in cui veniva rinchiuso chi era
destinato a sparire. Anche in quel pomeriggio di giugno continuavano
le torture dei prigionieri detenuti al di fuori di ogni procedura
legale, che il regime dei generali giudicava suoi oppositori.
Quel dramma che segnava il mondo lacerato dalla guerra fredda
si stava incrociando su un campo di calcio con la tragedia che
aveva distrutto l'idea stessa di civiltà. E chi stava
torturando in nome di un'altra paranoica visione del mondo negava
che chi era stato beneficiato da chi aveva tenacemente cercato
di difendere i valori umani fosse in grado di saper dirigere
obiettivamente una partita.
Molti anni dopo, nelle sue memorie pubblicate nel 2009, il centrocampista
del Tottenham Osvaldo Ardiles, dal tocco elegante e dal grande
senso tattico, proverà a mettere ordine nel tumulto di
pensieri che si rincorrono da allora su quel pomeriggio: «Stavamo
disputando la finale nello stadio del River Plate, e a tre-quattrocento
metri c'era la scuola di meccanica navale. Solo dopo abbiamo
scoperto che era il principale centro di tortura della marina.
E penso che, quando segnavamo, tutti ci potevano sentire. Le
guardie magari dicevano ai prigionieri “stiamo vincendo”,
è così che probabilmente glielo riferivano. Non
dicevano “L'Argentina sta vincendo” ma “noi
stiamo vincendo”. Uno è l'aguzzino, l'altro la
sua vittima. E poi penso: coloro che erano imprigionati come
si sentivano, felici o tristi? In un certo senso erano felici
perché erano argentini, e stavamo vincendo la Coppa del
Mondo per la prima volta nella nostra storia. Meraviglioso.
Ma sapevano che quella vittoria significava che la dittatura
militare sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero stati
rilasciati. Cosa hanno provato in quei momenti?»
Già, cosa hanno provato? Può darsi si stessero
chiedendo fino a quando la gente può continuare a voltarsi
da un'altra parte facendo finta di non aver visto. Ma ho paura
che la risposta si sia persa nel vento. Forse per sempre.
Giovanni A. Cerutti
Per
saperne di più
Le vicende intorno
alla squadra dell'Ajax sono tratte dal lavoro di Simon Kuper,
Ajax, the Dutch, the War. The Strange Tale of Soccer During
Europe's Darkest Hour, Orion, London 2003 (edizione italiana,
Ajax, la squadra del ghetto, Isbn, Milano 2005).
Le informazioni
sull'occupazione tedesca in Olanda provengono dalla voce Olanda
redatta da Werner Warmbrunn nel Dizionario dell'Olocausto,
a cura di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004.
Sullo svolgimento
dei mondiali di calcio in Argentina nel 1978 vedi Alec Cordolcini,
Pallone desaparecido. L'Argentina dei generali e il mondiale
del 1978, Bradipo libri, Torino 2011.
L'autobiografia
di Osvaldo Ardiles è stata pubblicata con il titolo Ossie's
Dream. My Autobiography, Bantam Press, London 2009.
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