in direzione
ostinata e contraria 7
Tirai una freccia al cielo per farlo respirare
Intervista a Paolo Solari
di Renzo Sabatini
Nel disco Fabrizio De Andrè
(1981), meglio conosciuto come L'indiano, si intrecciano
due fili conduttori: la Sardegna e i nativi americani.
A colloquio con uno studioso, appassionato di cultura indigena del Nord America.
Giornalista, esperto di storia americana, ricercatore, con
una passione particolare per i popoli indigeni del Nord America.
Da dove nasce questa passione?
Nasce dall'infanzia, da una scelta di simpatia verso quelli
che una volta venivano chiamati “selvaggi”. E questa
simpatia non mi ha mai lasciato, per cui ha costituito anche
il bagaglio dei miei studi universitari, del mio lavoro di ricerca
e dell'impegno sociale e anche culturale, attraverso un'associazione
che si chiama Hunkapi1 e che
pubblica una rivista dove io intervengo sia come storico che
come redattore per la cronaca dei fatti più recenti.
Questa cosa me la porterò dietro anche nella vecchiaia,
sperando di continuare ad arricchirmi sempre di più con
la cultura dei nativi americani.
Hunkapi è nata nel 1996 a Genova. Quali sono gli obiettivi
e l'attività?
Genova è una città molto critica, nonostante possa
vantare come cittadino (anche se a me non è molto simpatico)
il presunto scopritore dell'America. L'associazione quindi è
nata sull'onda di alcune iniziative molto critiche nei confronti
delle celebrazioni del 1992, del cinquecentesimo anniversario
della scoperta. È nata da semplici cittadini, da questa
voglia di stare assieme e riscoprire la cultura e la storia
dei nativi americani, proprio a partire da un humus cittadino
molto ricco, tanto che al momento in cui si è deciso
di costituire l'associazione c'erano già duecento iscritti.
Oggi superiamo il migliaio di adesioni in tutta Italia e anche
in Germania e Francia, abbiamo rapporti diretti con quasi tutte
le nazioni di nativi americani e, oltre a raccontare la loro
realtà, cerchiamo di sostenere concretamente la loro
causa. Per esempio lavoriamo molto con le scuole, non solo di
Genova: facciamo un lavoro immenso con le scuole per far conoscere
ai bambini la realtà dei nativi americani.
Nel 1979 De André e Dori Ghezzi vengono rapiti in
Sardegna e restano nelle mani dei sequestratori per quattro
mesi. Da questa esperienza nasce l'album conosciuto come “L'indiano”,
scritto con Massimo Bubola, in cui si parla di nativi americani
e di sardi. Lei come ha reagito quando è stato pubblicato
questo lavoro?
Ne sono rimasto entusiasta. Ho avuto la fortuna di essere in
contatto con il gruppo di musicisti che avrebbero poi suonato
nell'album, quindi sapevo già che Fabrizio voleva fare
questo lavoro sui nativi americani e anche che voleva collegare
la sua esperienza sarda, mettendo assieme queste culture. Mi
ha particolarmente colpito la canzone Fiume Sand Creek,
perché ricorda un massacro efferato2,
un avvenimento tra i più tragici della storia dei nativi
americani.
L'album affianca il popolo sardo ai nativi americani. La
canzone d'avvio, Quello che non ho, evoca le grandi praterie
ma, secondo il racconto dello stesso De André, rappresenta
la psicologia dei pastori sardi che erano stati i suoi carcerieri.
La canzone è un elenco di cose che il protagonista decisamente
rifiuta della cultura arrogante del colonizzatore, dal conto
in banca alle pistole. Lei pensa che qui il cantautore abbia
colto bene il punto di vista dei nativi americani, la loro sensibilità?
O rischiamo di trovarci nel campo dello stereotipo?
Sicuramente Fabrizio è riuscito a mettere assieme in
una sola canzone alcune caratteristiche particolari, proprie
dei nativi americani. Caratteristiche che però oggi ritroviamo
soprattutto nei nativi che noi chiamiamo tradizionalisti, che
non è un termine utilizzato in senso negativo. Definiamo
tradizionalisti quelli che sono rimasti ancora oggi legati alle
loro tradizioni e così conservano la storia e la cultura
dei nativi americani.
Al giorno d'oggi però il quadro è complesso: le
nazioni o alcune loro componenti sono molto diverse fra loro,
alcune hanno quotazioni in borsa, altre sono molto povere. Ecco,
forse quelle più povere sono quelle che sono rimaste
più tradizionaliste e quindi sono più vicine al
quadro tracciato da De André.
|
Manifesto della Festa Madre Terra promossa annualmente da Hunkapi, associazione
culturale per la divulgazione delle tradizioni dei Nativi Americani |
Fu un
generale di vent'anni...
Lei ha già citato Fiume Sand Creek, che senza
dubbio è la canzone simbolo di questo lavoro ed è
rimasta nelle scalette di tutti i concerti di De André.
Personalmente la ritengo una canzone simbolo anche di tutte
le violenze subite dai popoli indigeni non solo americani, tanto
che la utilizziamo spesso, qui in Australia, per parlare dei
massacri subiti dagli aborigeni. Parliamo allora di questa canzone,
dal punto di vista di uno appassionato ed esperto della tematica
come è lei.
Mi ha colpito subito e mi ha colpito anche il ritmo della musica
così legata al testo, perché rende bene la sensazione
di quei momenti tragici in cui è stato compiuto questo
massacro, che è diventato uno dei simboli di tutti i
massacri che hanno subito nella storia le nazioni americane
e anche altri popoli, inclusi gli aborigeni australiani. Quello
di Sand Creek è uno dei massacri più efferati
della storia americana: donne e bambini vennero mutilati, parti
di corpi vennero esposte e portate nei teatri come trofei.
La canzone ha questo ritmo tragico ma finisce comunque in una
speranza, che è una speranza che dura ancora oggi, perché
si parla di quelli che sono conosciuti come cheyenne, che oggi
sono una nazione molto piccola e molto sofferente. Però
è una nazione che non è ancora morta, che non
si è arresa. È una di quelle che più di
ogni altra sta lottando, per esempio per la conservazione della
lingua. E questo secondo me è un bel paragone, se vogliamo
tornare al confronto con la Sardegna, perché la Sardegna
è uno dei posti dove si conserva meglio l'eredità
culturale, anche attraverso la lingua.
Nel concerto del 1991 De André, presentando questa
canzone, polemizzava con le celebrazioni del cinquecentenario
della scoperta dell'America. Aveva proposto ai suoi concittadini
di armare due caravelle per andare a chiedere scusa agli indiani
e diceva che la sera del 12 ottobre 1992 sarebbe stato vicino
a loro per ricordare quello che loro considerano il più
grande lutto nazionale. Invitato alle “Colombiadi”
assieme a Bob Dylan rifiutò di partecipare. Qual è
stata la sua reazione?
Quando Fabrizio se n'è andato noi lo abbiamo salutato
pubblicando sulla rivista un mio editoriale, nel quale abbiamo
ricordato proprio questa cosa. Per noi, che eravamo contrari
alle celebrazioni, quella sua presa di posizione è stata
importante perché, poiché lui era un personaggio
molto conosciuto, il fatto che avesse scelto di non celebrare
ci diede un po' più di coraggio. E in effetti, poi, quelli
che non hanno celebrato erano tanti, a Genova. Noi ritenemmo
giusto che lui non celebrasse, così come non abbiamo
celebrato noi. Perché, si può dire quel che si
vuole sul presunto scopritore, ma loro, i nativi americani,
giustamente non ritengono di essere stati scoperti da nessuno!
Erano già lì, questa è una cosa evidente,
e sicuramente per loro l'arrivo di Colombo è stato un
giorno luttuoso ed era giusto chiedere scusa. Noi l'abbiamo
fatto diverse volte, nei rituali, in tutti le celebrazioni,
gli appuntamenti, i convegni, gli eventi, le manifestazioni
che abbiamo fatto. E devo dire che – Fabrizio sarà
stato contento di questo – quel giorno a Genova c'era
più gente fuori a non celebrare che personaggi nel palazzo
a celebrare, e questo nonostante una mezza alluvione. Con questo
non intendo dire che a Genova non ci siano quelle persone, magari
legate al business cittadino, che ritengono che sia giusto celebrare.
Noi però abbiamo detto che non è giusto, perché
si celebra così il più grande massacro della storia
e perché Colombo sicuramente non è andato là
per fare il bene dei nativi americani. Basti ricordare che i
Taino, i primi che Colombo ha incontrato, sono estinti. E non
erano una piccola etnia: erano centinaia di migliaia di persone!
Eh, già, Cristoforo Colombo: “chioma fluente,
occhio sognante e piede sicuramente fetente”, così
lo definiva De André nei concerti di quel tempo. Bruno
Lauzi però ha polemizzato con questo atteggiamento di
De André che vede Colombo come invasore di terre abitate
da altri. Lauzi sosteneva invece che Colombo era un viaggiatore,
un sognatore, e che le critiche fatte 500 anni dopo non tengono
conto del contesto storico. Che ne pensa di questo “scontro”
fra cantautori genovesi?
Io non vorrei polemizzare con Lauzi, ma penso che noi di Hunkapi
abbiamo una migliore conoscenza storica. È vero che Colombo
era un viaggiatore anche se sulle tre barchette che ha armato
c'erano personaggi poco raccomandabili. Comunque non si può
dire che sia andato a portare la civiltà. È andato
là per prendere possesso di territori, qualunque essi
fossero (perché lui pensava di essere arrivato nelle
indie, questo lo sanno tutti, ed è per questo che i nativi
sono stati chiamati indiani). Lauzi3
comunque non potrà negare che quello che è
successo ai nativi americani dopo l'arrivo di Colombo è
fondamentale e corrisponde ad avvenimenti storici importanti
in Europa: la costituzione del Regno spagnolo, la cacciata dei
mori e degli ebrei dalla Spagna. Insomma, bisognerebbe andarsi
a rileggere nei documenti storici i veri motivi per cui questo
personaggio è partito.
De Andrè:
una sensibilità maggiore
Il tema dei selvaggi sanguinari da film di John Wayne nel
1980 era stato già superato da un pezzo. Film come Soldato
Blu e Il piccolo grande uomo e libri come Seppellite
il mio cuore a Wounded Knee avevano offerto un punto di
vista nuovo. Pensa che il lavoro di De André abbia aggiunto
qualcosa o tutto sommato questo album è arrivato un po'
tardi?
Seppellite il mio cuore a Wounded Knee è stato
il libro che ha consentito a una generazione di scoprire cosa
è realmente accaduto ad alcune nazioni indigene del Nord
America, soprattutto degli Stati Uniti. Quindi certamente rispetto
al libro e anche rispetto ai due film Fabrizio De André
arriva dopo. Però De André porta su questo tema
una maturazione di comunicazione come solo lui sapeva fare.
Anche rispetto alle immagini finali di Soldato Blu, orrende
ma vere, o rispetto al libro, la poesia in note di De André
ha dato un corpo maggiore, una maggiore sensibilità,
una maggiore coscienza, maggiore opportunità e anche
maggiore immediatezza. E c'è qualcuno, magari appartenente
alla generazione successiva alla mia, che ha scoperto la storia
dei nativi americani così.
Parlando di questo, Mariano Brustio, della Fondazione De
André, ha scritto: “Fabrizio De André ha
tentato di aprire la mente a qualcuno, lo ringrazio perché
l'ha aperta anche a me”. Una canzone come Fiume Sand
Creek potrebbe aver aperto la mente a qualcuno più
di quanto poteva fare il libro di Dee Brown?
Qualche beneficio è arrivato anche alla nostra associazione,
ma sono sicuro che proprio a livello di massa, come fenomeno
generale, questa canzone ha avvicinato molta gente alla causa
dei nativi americani. La stessa immagine scelta per la copertina
dei disco4, i testi delle canzoni...
sono sicuro che molti si sono avvicinati o riavvicinati allo
studio delle culture native proprio grazie a questo disco, come
per altre cose del lavoro di De André. Pensi al fatto
che lui, dopo questo lavoro, ha riscoperto il genovese antico5:
in molti qui a Genova, io per primo, abbiamo riscoperto la voglia
di parlare nella nostra lingua nativa. Anche dalla nostra volontà
di salvaguardare le culture dei nativi americani è nata
la voglia di riscoprire le nostre radici e questo penso che
sia in sintonia con il messaggio di Fabrizio.
Fiume Sand Creek, pur parlando di un terribile massacro,
è delicata nella scelta dei termini, ricca di riferimenti
poetici e immagini evocative. Crede che De André abbia
volutamente utilizzato un linguaggio evocativo per avvicinarsi
alla spiritualità dei nativi americani?
Sicuramente sì. La canzone, nel ritmo e nel testo, è
molto evocativa della ritualità e della spiritualità
dei nativi americani, basti pensare a quando ricorda il gioco
delle frecce: una freccia verso al cielo, una freccia al vento...
è molto spirituale.
Parlando di spiritualità, la vostra associazione è
anche impegnata a diffondere la conoscenza della spiritualità
dei nativi americani. De André affida la chiusura dell'album
a una canzone come Verdi pascoli che si ispira a una
danza rituale. I verdi pascoli ci appaiono come una sorta di
Paradiso, un sogno di futura liberazione dall'oppressione e
dall'annientamento.
È una canzone piena di speranza, come sono pieni di speranza
anche i nativi americani, pur essendo la minoranza per eccellenza,
soprattutto in Nord America (per l'America del Sud l'analisi
è diversa). Può sembrare un'immagine un po' stereotipata,
questa dei nativi che parlano sempre dei pascoli celesti, dei
verdi pascoli, ma è sicuramente un'immagine che rappresenta
la speranza, perché i nativi americani alcuni anni fa
hanno avuto un rinascimento piuttosto consistente, paragonabile
al nostro Rinascimento, e oggi certe cose non si possono più
fare in Nord America. Non si può più dire che
sono dei selvaggi, non si possono più dire certe cose
o usare certe parole offensive.
Allora i verdi pascoli oggi non sono più quelli del nativo
americano stereotipato, ma rappresentano una speranza legata
a questo rinascimento che chiede il rispetto della cultura,
che invoca una sopravvivenza anche fisica, che chiede il rispetto
della lingua. Basti pensare che al confine con il Canada c'è
una nazione composta oggi solo da 900 individui e una sola persona
che ancora parla la lingua indigena di questo gruppo! Quando
morirà questa persona, che oggi ha 89 anni, morirà
quella lingua e morirà quella cultura.
Oggi allora la speranza dei verdi pascoli è questa: quella
di riconquistare un'identità e di avere dei diritti sacrosanti.
I nativi americani sanno di essere pochi, numericamente, quindi
per esempio il loro peso elettorale è nullo. Però
la speranza c'è.
Una
spiritualità libertaria
Per completare il quadro spirituale, l'album contiene anche
Se ti tagliassero a pezzetti, una canzone che, nelle
parole di De André “è ispirata al tema della
libertà che, minacciata dalla civiltà, sopravvive
sempre nel cuore dell'uomo”. Un tema che era già
caro al De André libertario e anarchico. Un indiano si
sarebbe ritrovato in queste definizioni?
Ricordo che un paio di mesi dopo la morte di Fabrizio è
venuto a Genova Gilbert Douville6,
un amico Lakota che doveva tenere delle conferenze nelle scuole.
In quella occasione gli abbiamo raccontato di Fabrizio, gli
abbiamo fatto vedere le immagini del funerale con quella grande
partecipazione di popolo, abbiamo provato a spiegargli chi era,
raccontando proprio di questa spiritualità in senso libertario.
Lui ha molto apprezzato. Non è stato semplice, perché
bisogna tener conto che il nostro concetto di libertà
non è facilmente comprensibile per loro. I nativi americani
non hanno vissuto le esperienze della nostra società
industriale, se non come vittime della conquista. Certo, capiscono
la libertà suprema della poesia, ma sicuramente bisogna
spiegarglielo cos'è un anarchico! Comunque Gilbert mostrò
grande apprezzamento per Fabrizio.
La canzone si apre e si chiude con una strofa molto poetica,
di quelle che, come si dice oggi spesso parlando di De André,
“reggono il foglio” anche senza bisogno di spartito.
Ci troviamo il vento, il regno dei ragni, la luna, i capelli,
il viso, il polline di Dio e il suo sorriso. È tutta
fantasia degli autori o lei ci riconosce anche uno studio accurato
del modo di esprimersi dei nativi americani?
Io riconosco lo studio e so anche, da quello che si racconta
nell'ambiente musicale genovese, che lui si era documentato
molto, aveva fatto delle ricerche, voleva capire. Col suo spirito
di poeta è andato a interpretare dei messaggi, delle
parole che sicuramente fanno riferimento ai nativi americani,
perché davvero i nativi americani hanno questo modo di
esprimersi, spesso anche molto legato a simboli naturali o spirituali.
Quindi le immagini della canzone le vedo tutte bene con riferimento
ai nativi americani. Basti pensare al ragno: ci sono culture
native che hanno proprio delle leggende legate ai ragni.
Queste canzoni potrebbero superare i confini della questione
nordamericana e diventare simboli dell'oppressione di tutti
i popoli indigeni? Abbiamo già detto che parlando dell'Australia
ci viene spontaneo riferirci agli aborigeni.
Sicuramente sono canzoni simbolo, forse non tanto per gli indigeni
stessi, quanto per noi europei, per spingerci a ricordare quelle
culture, quelle popolazioni e quella volontà di continuare
ad esistere nella loro diversità. Fabrizio dava dei messaggi
forti, ma questi messaggi soprattutto dobbiamo recepirli noi,
perché i popoli indigeni hanno già i loro messaggi.
Ma le canzoni di De André possono servire a noi, per
farci capire cosa abbiamo sbagliato nei confronti di queste
popolazioni.
Ricordo di aver letto, qualche anno fa, su un giornale, che
alcuni esponenti dei movimenti dei nativi americani avevano
fatto dei complimenti a De André per questo disco. Però
poi questo dato è scomparso dalle biografie dedicate
al cantautore. Lei che si occupa di queste cose ha qualche elemento?
Può confermare questo dato oppure è solo una mia
allucinazione?
Posso confermarlo, ma solo a un livello molto generico: so che
questa cosa è accaduta però, pur essendo un discreto
ricercatore, che accumula molto materiale sui nativi americani,
un riferimento scritto su questo non l'ho ancora trovato. Però
so che c'erano state queste prese di posizione. Ma soprattutto
posso dire che le abbiamo verificate direttamente noi, dopo
la morte di De André. Prima ho citato Gilbert Douville,
ma noi annoveriamo fra i nostri collaboratori anche altri nativi,
di altre nazioni e a tutti abbiamo spiegato chi era Fabrizio
De André e gli elogi ci sono stati, veramente, perché
capiscono anche la spiritualità del messaggio e la volontà
dell'autore. Capiscono che finalmente qualcuno, anche a questi
livelli, si è accorto che i nativi americani esistono.
L'ultimo
grande capo
Durante questa intervista l'ho sentita riferirsi sempre
molto affettuosamente a De André, chiamandolo Fabrizio,
quasi fosse un vecchio amico. Se lei avesse avuto la possibilità
di conoscerlo, dopo Fiume Sand Creek, da appassionato e studioso
dei nativi americani, cosa le sarebbe piaciuto dirgli?
In effetti io Fabrizio l'ho conosciuto, qualche anno prima di
quel disco. Ero entrato in contatto con lui tramite il gruppo
musicale con cui cantava all'epoca e quando l'ho incontrato
era già una persona di grande spiritualità. Se
lo avessi incontrato nuovamente dopo la pubblicazione del disco
probabilmente gli avrei detto quello che ho scritto sulla nostra
rivista, nell'editoriale dedicato al suo ricordo. L'editoriale
s'intitolava: Oka Eja, che, in lingua Lakota, è
una sorta di invito a continuare, anche se non c'è più.
Si trattava di una incitazione per i giovani guerrieri, un invito
ad andare avanti, a continuare comunque. Nell'editoriale io
avevo citato anche una frase a cui tengo molto, una frase pronunciata
da Alce Nero7, cugino di Cavallo
Pazzo8 (dico Alce Nero e Cavallo
Pazzo per chiarezza, ma in realtà noi ormai tendiamo
a utilizzare i nomi veri e non questi nomi strani che hanno
inventato i bianchi). Cavallo Pazzo è stato l'ultimo
grande leader dei nativi americani, tanto grande che adesso
gli stanno facendo il monumento più grande del mondo,
una montagna intera! Si tratta di un progetto completamente
autofinanziato. Quando Cavallo Pazzo è stato assassinato,
Alce Nero ha pronunciato questa frase, che io ho voluto dedicare
a Fabrizio: “non importa dove giace il suo corpo, ma dove
vola il suo spirito, sarebbe bello stare”. Ecco, questo
è proprio quello che pensiamo di Fabrizio.
Vuole concludere con una sua riflessione?
L'anno prossimo sembra che vogliano fare a Genova dei festeggiamenti
per l'anniversario della nascita di Colombo. Anche in quella
occasione inviteremo a non partecipare e a chiedere scusa ai
nativi americani. L'ha fatto anche il Papa, l'ha fatto persino
Clinton, potremmo farlo anche noi! Io sono contento di poter
riaffermare oggi, da questi microfoni, che io non partecipo
alle celebrazioni colombiane. Poi, guardi, sinceramente: c'è
questa lotta con gli spagnoli per decidere se Colombo è
nostro o è loro... ma se la Spagna lo vuole, che se lo
tenga! Che senso ha andare a celebrare l'inizio del più
grande massacro della storia? Parliamo piuttosto dei nativi,
della loro storia, di quello di cui hanno bisogno oggi.
Renzo Sabatini
Note
- Per approfondimenti: www.hunkapi.it.
- Il 29 novembre 1864 la cavalleria americana attaccò
in forze i cheyenne accampati sul fiume Sand Creek, nel Colorado,
massacrando, torturando, e mutilando brutalmente oltre 160
persone inermi. I cheyenne avevano avuto rassicurazioni sulla
propria incolumità dal comandante del vicino Fort Lyon,
da cui partirono le truppe che compirono il massacro, al comando
del colonnello Chivington. I guerrieri erano perciò
partiti per la caccia, lasciando nell'accampamento solo vecchi,
donne e bambini. Le inchieste che seguirono il brutale massacro,
sebbene forti di molte testimonianze, non ebbero alcun esito.
L'episodio è riportato ampiamente nella storiografia
americana (si veda ad esempio: Dee Brown, Seppellite
il mio cuore a Wounded Knee, USA, 1970).
- Bruno Lauzi (1937-2006) era vivente all'epoca dell'intervista.
- L'album, senza titolo, è stato popolarmente ribattezzato
“L'indiano” proprio perché sulla copertina
è rappresentato un quadro del pittore statunitense
Frederic Remington (1861-1909) raffigurante un indiano a cavallo.
- Si riferisce al successivo album di De André,
“Creuza de Ma”, scritto con Mauro Pagani, pubblicato
nel 1984.
- Nato nel 1951, membro dei Lakota. Dopo aver conseguito
una laurea in diritto penale ha fatto una scelta “tradizionalista”,
dedicandosi all'artigianato, alla poesia e alla conservazione
della cultura millenaria del suo popolo. I Lakota, sottogruppo
dei Sioux Brulé, sono originari di quello che oggi è
lo stato settentrionale USA del South Dakota.
- Black Elk o Alce Nero (1863-1950), sciamano della tribù
Oglala, della famiglia dei Sioux-Lakota, ha raccontato la
sua vita nel libro Black Elk Speaks (pubblicato in Italia
con il titolo “Alce Nero parla”), divenuto un
autentico caso editoriale, di fondamentale importanza anche
per la conoscenza antropologica della cultura dei nativi americani.
- Crazy Horse o Cavallo Pazzo (1840-1877), guerriero Oglala,
leader nella resistenza contro l'esercito americano, assassinato
a Camp Robinson, Nebraska, dopo essersi arreso.
(intervista realizzata via telefono il 30 agosto
2005. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne.
Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In Direzione Ostinata e contraria”, dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista a Paolo Solari, prosegue la pubblicazione
su “A” di una parte significativa delle 27
interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini
e andate in onda in Australia nel programma “In
direzione ostinata e contraria” sulle frequenze
di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008.
In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna
della durata di circa quaranta minuti, per un totale di
quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono
state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte
le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque
della più lunga e dettagliata serie radiofonica
mai dedicata al cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012).
la redazione di “A” |
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