intervista
Il sonno del drago genera rivoluzione
intervista a Gianni Milano di Laura Antonella Carli
La poesia è un epitaffio, la fama è un ferro arricciacapelli e il mercato è come il mago di Oz: conversando con Gianni Milano, poeta e pedagogista piemontese.
«Lei è anarchica?»
mi domanda Gianni Milano, venendomi incontro sul ballatoio della
sua casa di ringhiera a Torino. È un tipo di abitazione
che gli si addice: gli permette di intrattenere rapporti più
personali del cordiale “buon vicinato” e avere sempre
intorno gente con cui scambiare chiacchiere, opinioni o ricette
di cucina. I musulmani del condominio lo chiamano “zio”,
un epiteto di rispetto, dice, dovuto ai suoi capelli bianchi.
A lui fa sorridere collegare il termine con la tradizione piemontese,
per cui “barba” vuol dire appunto zio e si usa per
una persona che merita rispetto (Barba Gianni racconta,
non a caso, è il titolo di una sua raccolta di novelle).
«Il piemontese – spiega – è una lingua
di castagne: è dolce, non ha suoni bruschi, è
molto contadina, dimensionata. Ma è anche una lingua
un po' bigotta, edulcorata...»
La sua casa è grande, vissuta, piena di cose. I muri
sono decorati con quadri, riproduzioni di opere famose –
tra i suoi preferiti Rousseau e Modigliani – e fotografie.
Più di tutto attira l'attenzione la biblioteca: i libri
sono presenti in ogni stanza, tra di essi anche qualche raro
cimelio del panorama underground italiano degli anni sessanta,
ma il soggiorno è letteralmente dominato dalla fornitissima
libreria che arriva quasi fino al soffitto. L'interesse premuroso
che dedica ad amici e vicini di casa lo riserva anche a me:
mi offre un buon pranzo vegetariano, a base di pasta alle cime
di rapa – ricetta di una sua vicina pugliese –,
accompagnato da buon vino piemontese. Dopo il caffè iniziamo
la nostra chiacchierata, che ruota sostanzialmente intorno a
tre temi cardine – pedagogia, poesia e anarchia –
strettamente connessi e fittamente intrecciati in una visione
olistica della realtà, che si contrappone all'immagine
parcellizzata e specialistica che molto spesso domina il nostro
modo di concepire la vita e di organizzare la nostra formazione.
Pedagogia
Chiedo a Gianni di iniziare dalla sua tesi di laurea: Per
un'educazione libertaria: la A-pedagogia. Gianni va a prendere
la tesi, la sfoglia, legge dalla premessa...
«La mia tesi voleva porsi in un'ottica inconsueta, non
deterministica e non finalistica: un lavoro aperto, perché
ogni tentativo di chiudere, di raggiungere un fine non può
che portare al radicarsi di altri schemi e modelli. Il primo
capitolo è una riflessione-spiegazione sui termini: educazione,
libertà, pedagogia.» Legge dal documento: «È
nel carattere di questa tesi non accettare le formulazioni consuete,
frutto del sistema nel quale viviamo, senza averle prima sottoposte
a delle critiche, onde far saltar fuori la contraddizione di
fondo o la politica mistificatrice che le sottende». «Alla
parola “educazione” – spiega – preferisco
“allevamento”, ovvero: “la somma di cure che
interessano un cucciolo affinché egli possa crescere,
sviluppando in pieno le sue caratteristiche e le sue facoltà”.
È un termine connotato più negativamente, perché
riferito al mondo animale, partendo dal presupposto che l'uomo
è un essere privilegiato, che non può essere allevato
ma educato, cioè “condotto fuori”, probabilmente
dal suo stato infantile o animale pre-educativo. In quest'ottica
l'essere umano però è visto come imperfetto nella
prospettiva di un modello finale in cui identificarsi, invece
l'allevamento permette al cucciolo animale di realizzarsi completamente
in base alle caratteristiche della sua specie.»
Però il titolo della tua tesi parla di “pedagogia
libertaria”: cosa intendi?
«La pedagogia può essere libera, quando non subisce
condizionamenti dall'esterno, può essere liberatrice
quando apre le porte della prigione psichica dando la possibilità
all'individuo di realizzarsi, ma un'opera educativa è
libertaria quando, incorporando le altre due qualità,
si sostanzia nella sua messa in azione permanente, per cui non
è più possibile affermare la distinzione tra un
momento educativo e uno non educativo. L'educazione libertaria
diventa una sorta di autocoscienza permanente che agisce a livello
di relazioni indirette e non più a livello di indottrinamento,
di trasmissione autoritaria dal più sapiente al meno
sapiente.»
(Sfoglio l'elaborato a mia volta) La tua è una
tesi inequivocabilmente anarchica: chiudi addirittura citando
Bakunin... Non hai avuto nessun problema a fartela accettare?
«110 e lode. Per me è stato un gran divertimento
perché ho fatto una tesi anarchica e il sistema, seguendo
le proprie regole, è stato obbligato a premiarmi.»
Quando ti sei laureato, tu già insegnavi. Parlami
del tuo lavoro pratico di maestro, del tipo di didattica che
utilizzavi e dei riferimenti (non modelli!) che hai utilizzato.
«La mia didattica era basata sull'ascolto dei bambini,
sul far emergere i loro desideri. Gli ostacoli ai desideri sono
i problemi e i problemi vanno risolti, quindi la didattica si
impernia sulla risoluzione dei problemi.
Tra i miei riferimenti c'è il pedagogista francese Freinet,
morto nel '65, che io avevo conosciuto quando ero più
giovane e che parlava di cooperazione tra i bambini e tra i
bambini e gli adulti, quindi la conoscenza nasceva dalla cooperazione
e non dalla consegna da parte dell'insegnante al bambino.
Altro riferimento: un americano dell'inizio del '900, Kilpatrick,
(sorride) – che è un nome irlandese che
vuol dire “ammazza Patrizio” – il quale aveva,
nell'ambito della riflessione sull'educazione democratica di
John Dewey, elaborato una didattica che eliminava le materie.
Io sono d'accordo con lui: la realtà non è divisa
in materie, è olistica, è complessa. Ma complesso
non è sinonimo di complicato. Se vuoi spezzettare la
vita in materie, allora diventa complicata e difficile da apprendere.
Kilpatrick aveva elaborato “il metodo dei progetti”,
per cui si stabiliva un progetto dei più svariati, anche
solo “come raggiungere la scuola”. Una volta individuate
le difficoltà che dovevano risolvere per realizzare il
progetto, i bambini potevano rivolgersi a tutto: a libri, insegnanti,
specialisti... ma senza divisione in materie: era una ricerca
molto olistica, appunto.»
Quindi mai lezioni frontali...
«No, mai... poi da un progetto ne nasceva un altro...
Contemporaneamente avevo introdotto il “pittodramma”,
ispirato ai murales del Cile, per cui ogni progetto veniva subito
visualizzato con pitture su grandi superfici.
Ogni pittura rappresenta un problema, ogni problema emana un'emozione,
così avevamo individuato i colori delle emozioni, per
cui prima di partire a dipingere la storia si dipingeva il fondale
del colore dell'emozione dominante. Il fondale innanzitutto
si doveva asciugare, quindi c'erano diverse tappe, non era “il
gesto spontaneo”, era un gesto ragionato da parte della
collettività, della tribù classe. Una volta che
si erano dipinte le figure poi, diverse squadre intervenivano,
magari con il colore a cera, per ritoccare, aggiungere le ciglia
la barba... (era buffo perché le bambine facevano sempre
dei ciglioni...) Insomma, si vestiva la pittura. Quando era
pronto, si attaccava alla parete e ci si riuniva tutti a commentarlo,
e da lì nascevano altre domande.
Infatti io dico, una pedagogia valida è una pedagogia
delle domande, non delle risposte. Le risposte non le avranno
mai, perché l'ultima risposta definitiva, l'ultima certezza
è la morte, e basta. E prima ogni apparente risposta
è una preparazione a un'ulteriore domanda, come una scala
in cui il primo scalino serve per accedere al secondo e così
via...»
Non dovevate rispettare dei programmi didattici?
«Non avevamo i programmi, ma bisognava essere furbi, non
farsi schiacciare. Se sei un nativo – o un nativo bambino
– devi evitare che ti schiacci la burocrazia: il direttore
didattico, papà, mamma... e non è facile. Siccome
non facevamo lezioni frontali perché non avevamo programmi,
dovevamo comunque essere in grado – quello era compito
mio – di dimostrare che quello che facevamo noi superava
i programmi, andava ben oltre.»
Le vostre lezioni si svolgevano anche molto all'aperto.
Sei noto, ad esempio, per le gite in bicicletta...
«Quando non avevamo niente da fare, allora prendevamo
la bici e andavamo al fiume. L'idea era bruciare l'aula, che
è una cella. È importante che la scuola porti
il bambino nel mondo, che non lo sottragga al mondo. Per otto
ore al giorno, per minimo otto anni il bambino è sottratto
al mondo. Poi magari le maestre gli portano le foglie autunnali
e le appiccicano alle pareti...
Una volta abbiamo scritto una storia su pergamena, l'abbiamo
messa in un baule, l'abbiamo battezzato con l'aranciata e a
fine dell'anno l'abbiamo sepolta sull'“isola che non c'è”,
ovvero l'isolotto di un torrentello che si trovava lì
vicino e si poteva raggiungere con un salto. Abbiamo scavato
con una vanga e l'abbiamo sotterrato.
Il problema è rispettare i bambini e prenderli sul serio:
quando da bambini diventano “scolari” non li rispetti
più. I bambini sono persone e vanno ascoltati, altrimenti
non puoi capirli. Io non sono più bambino da un bel po'.
Certo, con la mia pratica continuo a restare anche bambino,
ma il mio è un “essere bambino da adulto”.
Invece loro sono bambini-bambini, sono aperti a tutte le curiosità
e non puoi castrare il loro apprendimento: “Questa non
è matematica”? Chi se ne frega! Per l'aritmetica,
pensa, usavamo anche i cartoni animati. I Puffi e Gargamella
ci servivano per le misurazioni, perché i Puffi erano
alti “due mele o poco più”, quindi una spanna.
E allora, per calcolare una distanza, si poteva misurare quanti
Puffi ci stavano. Non corrispondeva al sistema metrico, però
a noi serviva. Invece Gargamella, che era più alto, serviva
per le distanze chilometriche, per esempio per andare a Torino.
Quindi i calcoli si facevano, ma non erano basati sull'atteggiamento
fideistico, erano basati sull'esperienza.»
E per quanto riguarda l'insegnamento dell'italiano?
«Per la lingua non c'erano problemi perché avevamo
una corrispondenza con dei bambini che abitavano in montagna.
Per l'ortografia avevamo fatto un pino, dopo natale: era “l'albero
delle parole nuove”. Quando imparavamo una parola nuova
si scriveva su un bigliettino e si attaccava al pino, che quindi
era tutto fiorito di cartellini. Era una visione poetica dell'apprendimento
della lingua.»
Cosa rimproveri principalmente alla scuola di adesso?
«La scuola, da quella dell'obbligo all'università
è impositiva, non c'è il libero pensiero e manca
il rispetto per lo stupore, che invece andrebbe incoraggiato
perché fa scattare la molla della ricerca. Lo stupore
a sua volta nasce da una lettura, per così dire minimalista.
Immagina di essere una formica e guarda la vita dalla prospettiva
di una formica, allora ti accorgi della sua complessità,
della sua munificenza.»
Poesia
Tu scrivi poesie da tanti anni, sei passato per diversi
mutamenti stilistici, ma l'esigenza di poetare non ti ha mai
abbandonato...
«Quando si parla di poesia bisogna andare alle radici
del poetare. Quando gli esseri umani hanno cominciato a scrivere
delle cose in un certo modo? La poesia, in origine, era cantata,
accompagnata dalla cetra. Era orale, visionaria, non era descrittiva,
era emotiva ed era accompagnata dal ritmo, perché il
ritmo aiuta la memoria. Per esempio le epopee dei popoli nomadi
che non hanno la scrittura sono tutte cantate. Pertanto la domanda
che mi sono posto come poeta è: che cosa vuol dire scrivere
poesie e che cos'è la poesia scritta? Io scrivo
poesie per evocare qualcosa che non c'è più. La
poesia deve sempre ringraziare Mnemosyne, la musa della memoria.
Majakovskij diceva: “Quando volete scrivere una poesia
di neve, scrivetela in estate. E quando cade la neve parlate
del mare e della spiaggia”. Perché la poesia deve
evocare, non è cronaca giornalistica, è un distillato,
è come la grappa. Quindi la poesia è sempre un
necrologio o meglio, è un epitaffio – quindi è
malinconica, comunque. Al di là delle forme e degli stili
ha sempre un fondo malinconico ed è un epitaffio perché
è rivolta come preghiera a una situazione, a una realtà
che più non c'è. Ed è sapienziale, perché
riscopro ogni volta l'impermanenza della realtà (come
dicevano gli antichi greci: panta rei).
La poesia esprime questo sentimento di perdita, tenuto sotto
controllo attraverso la convivialità dei non più
presenti, che attraverso la poesia riconvochiamo per una sorta
di consolatio. Quindi la poesia ha anche un valore terapeutico.
A prescindere dai generi stilistici, la sostanza, a mio parere,
è questa: la poesia è sempre una preghiera per
i morti. E quindi chi scrive dovrebbe sempre essere rispettoso
e non pensare solo alla propria gloria, che poi è sempre
effimera, è come farsi i ricci con il ferro.
Se la poesia è questo, anche la pedagogia libertaria
è analoga: abbiamo dei bambini, fatti nascere con un
gesto autoritario, in un mondo che non è stato fatto
da loro, un mondo castrato, perché non è il mondo
reale della natura, è un mondo di regole, il più
delle volte assurde, che hanno in comune soltanto il fatto di
essere funzionali al potere. Non tutte le piante per crescere
hanno bisogno dello stesso terreno: c'è la vigna che
necessita di un terreno acido, altre piante hanno bisogno di
terreni grassi. La rosa ha bisogno di un terreno caldo, sabbioso,
se la metti in un terreno troppo umido non ce la fa a crescere,
si ammala. Anche la pedagogia deve avere alla base la compassione,
non nel senso religioso ma in quello etimologico del provare
emozioni insieme, realizzare l'empatia, allora non imponi nulla
ai bambini.
Come la poesia, anche la pedagogia dovrebbe essere malinconica,
i vecchi maestri come me lo capiscono: aiuti questi bambini
a crescere, a che pro? Per mandarli in guerra? Per farli andare
in un ufficio, per mettergli la cravatta?»
A
una bambina
Impara a dipingere
fiori, nuvole,
bellezze varie,
ma anche i manifesti,
perché senza giustizia
non basta, per volare,
la bellezza delle ali.
Gianni Milano |
Anarchia
Il finale della tesi anarchica di Gianni comprende una citazione
di Krishnamurti che è un vero e proprio manifesto anarchico:
“Non è rimpiazzando un governo con un altro, un
partito con un altro, una classe con un'altra che diventeremo
intelligenti, solo una profonda rivoluzione interiore che modifichi
tutti i nostri valori può creare un ambiente nuovo, una
struttura sociale illuminata e una tale rivoluzione non può
essere fatta che da voi e da me perché nessun ordine
sociale nascerà fintanto che individualmente non avremo
demolito le nostre barriere psicologiche e non saremo liberi”.
Tu prima hai detto di non essere un moralista ma una “persona
etica”. In cosa consiste l'ethos, il comportamento dell'anarchico?
«Nell'elaborare un operare alternativo che metta in discussione
la società – e questo vale per l'anarchia quanto
per la pedagogia.
Io sono un No Tav. Quest'estate sono andato in Clarea, dove
stanno aprendo il cantiere per lo sbocco del tunnel, e un pomeriggio,
davanti alla Digos che ascoltava, ho parlato della pedagogia
della disobbedienza, che ha lo stesso prefisso di “divergenza”,
ovvero il pensiero divergente che scardina le nozioni per porre
altre questioni e quindi si accompagna alla creatività.
Tutte le grandi scoperte sono venute dalla disobbedienza e dalla
divergenza. La disobbedienza civile, quella di Thoreau, è
praticata anche da persone, nel movimento No Tav, che sono perfettamente
integrate nel sistema, non gli va bene quella cosa lì,
ma per il resto sono integrati, non fanno il passaggio successivo,
non si domandano da cosa nasce il Tav. Io punto a una riflessione
più olistica: a me piacciono le cose semplici.»
E cosa si deve fare per vedere le cose semplici?
«Essere come il bambino della novella di Andersen, diventare
ignoranti, invece spesso gli anarchici lasciano che il pensiero
si avviti su se stesso. È come nella pedagogia: se parti
dalle richieste dei bambini, dalle loro domande, è chiaro
che ti obbligano a una visione da un lato più semplice,
più immediata, ma più radicale. Mentre la visione
adulta, gira che rigira, serve a coprire le cose.
Cito anche il vangelo, in cui Giovanni dice: il seme che non
muore non dà vita, ma la morte del seme per dare vita
è rappresentata dall'apertura del seme, che si crepa
e si apre. Chi sta chiuso nelle sue certezze e nel suo io non
dà vita e non la riceve.
È significativo che anche i marxisti cantino le canzoni
anarchiche di Gori, perché nelle loro non c'è
la stessa tenerezza. La tenerezza è una percezione di
fragilità che ti porta a fare domande, e più domande
fai più la tua scorza si apre, è come il parto.
Ogni conoscenza è una forma di concepimento. Io chiamo
i miei amici No Tav “eretici erotici”. Senza erotismo
non c'è rivoluzione.»
E come si concretizza questa semplicità, quest'ethos
eretico-erotico?
«Noi abbiamo proposte alternative, per esempio il libero
scambio, ci sono villaggi anarchici in Argentina dove la moneta
non circola. È possibile. Ovviamente non lo è
in uno stato, che è autoritario per costituzione.
Penso a piccole comunità, a un federalismo solidale in
cui le differenze non sono un handicap ma un punto di forza:
io so insegnare ai bambini a scrivere, ma non so avvitare una
vite. Tu avviti la vite, io insegno ai bambini a scrivere.»
E il mercato?
«Il mercato è come il mago di Oz. Tu hai visto
il mago di Oz, il film? Ti ricordi cosa succedeva? Il cagnolino
tirava giù la tenda e si scopriva che il mago era una
mistificazione, aveva un'altoparlante ma lui era solo un piccolo
vecchietto. E così è il mercato: dietro ci stanno
persone che non sanno farsi nemmeno un uovo al tegamino, il
loro potere deriva dalla servitù degli altri. Bisogna
dire che il re è nudo.»
Dopo la chiacchierata, Gianni mi accompagna un po' in giro per
Torino. Mi indica i luoghi, i monumenti, commenta ogni cosa
che succede intorno a lui: è sempre attento e interessato
a tutto. Durante la passeggiata, che si conclude con una tappa
obbligata: una delle sue librerie preferite, mi parla ancora
del suo impegno con il movimento No Tav. È contento perché
nel movimento ha riscontrato una felice applicazione del rifiuto
della delega: «quando qualcuno vuole fare il capoccia
– dice – viene subito ridimensionato». Lo
rende felice anche il fatto che tra i No Tav siano proprio gli
anarchici a fare da collante.
Una volta tornati a casa, Gianni inizia a sfogliare una pubblicazione
che gli è appena arrivata per posta: è una piccola
raccolta di sue novelle, intitolata Il respiro del drago.
Chiedo delucidazioni su un titolo così curioso e dal
sapore fantasy.
«Il drago che sta nella terra dà calore alla terra
e con il suo fiato caldo, genera creatività e invenzione.
Solo se viene espulso fuori genera fiamme, diventa cattivo.
È il sonno del drago che dà la quiete, la pace.
Ma la pace mia non è la pace quietistica: è la
pace che riesce a risolvere nel dinamismo i conflitti strutturali,
per cui è la rivoluzione. La rivoluzione è il
momento più pacifico che ci possa essere.»
Laura Antonella Carli
Gianni
Milano,
Mombercelli (At), 1938, all'anagrafe Giovanni Battista
Milano, è poeta e pedagogista. Autore di diversi
saggi pubblicati su riviste pedagogiche, ha lavorato
per quarant'anni come insegnante, prima con i bambini
delle elementari, poi con i ragazzi delle magistrali.
In sintonia con le istanze educative del pedagogista
francese Célestin Freinet, è tra i fondatori,
a Torino, del MCE, Movimento di Cooperazione Educativa.
Autore anche di numerose raccolte poetiche, negli anni
sessanta è stato una delle voci del movimento
beat italiano. Durante gli anni del movimento underground
pubblica Off Limits (1966) Guru (1967),
Prana (1968), King Kong (1973), Uomo
Nudo (Tampax, 1975). Più recentemente ha
curato, insieme allo scrittore e giornalista Luigi Bairo,
un manuale di pedagogia alternativa: Capitan Nuvola
(2001, Stampa Alternativa), e Mi hanno allevato gli
Indiani (2003, edizioni Sonda), ispirato al filosofo
nativo canadese Wilfred Peltier. Nel 2009 è stata
pubblicata, in edizione limitata e privata, una prima
raccolta di testi sparsi intitolata Un Beat con le
ali. |
Poesia
su Monamì l'Anarchico
Ed egli fu e sarà
per queste strade lorde di rumori, d'appassiti visi
e voglie spente
Monamì che cammina per solchi rossoneri d'Anarchia
da quando piscieggiava sulla guerra
all'attuale scoperta dell'amore
sulla soglia d'un tempo indifferente che lo porta
ai novanta
ma non toglie
il desiderio di pienezza e il canto.
Dall'incubo di tonache e padroni
lo salvarono i libri poverelli, residuati di perse
biblioteche,
consunti agli occhi ma fedeli al tatto come un braille
d'emozioni
accanto al flusso di palandrane indifferenti ai sogni,
ottuse alla catena di montaggio
ed alla bollatrice quotidiana.
Non date del patetico a chi tace
nei consessi ufficiali o nei giornali
di cimici ripieni e di rifiuti
ma intrattiene coi morti un dialogare, con Bakunin
il russo,
con Bresci il regicida – e la fiumana anonima
dei tanti che spinge i giorni e dignità ridona
a chi nacque liquame in stenta gora – non dite
ch'è magìa d'illusione il penetrare
in tempi oltre il reale
per non volgersi all'ore ghigliottine
col volto rassegnato del fallito.
Monamì fu il fedele
sostegno a una colonna di via Po nella Torino acida
e seriale
a interpellare chi non fu distratto sui casi della
guerra e del profitto,
sulla libera scelta e sul diritto. Non disse mai
al chapliniano stanco
'Posa il sorriso, tàgliati i capelli, mostra
la grinta
che sta dietro alla rosa.' Di questo lo ringrazio
mentre ancora
mi confida che scrive un libro strano – dal
mare ai monti
dai sogni alle battaglie – perché c'è
chi l'ascolta, una signora,
bella e tedesca che pare un'aurora.
Gianni Milano |
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