dibattito anarchismo
Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro “Nico” Berti
Con questo titolo è appena uscito
un libro di un nostro storico collaboratore. Il sottotitolo
recita: “L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e
la vittoria del capitalismo”. È un libro che farà
discutere, per l'eterodossia di tante sue analisi e proposte.
Dal prossimo numero ospiteremo numerose riflessioni sul volume
e soprattutto sul ruolo dell'anarchismo oggi.
Ne pubblichiamo la premessa dell'autore e un paragrafo del quarto capitolo.
Premessa
Nel 1998 ho pubblicato Il pensiero anarchico dal Settecento
al Novecento con lo scopo di interpretare il pensiero anarchico
in chiave anarchica. Si è trattato di un'operazione culturale
necessaria, data la persistenza di molte errate, parziali e
mistificanti versioni storiografiche sull'argomento. Ho cercato
di far dire agli autori ciò che essi intendevano veramente
dire. La mia interpretazione dava conto dello svolgimento delle
loro riflessioni all'interno dei tre diversi periodi che scadenzano
i duecento anni che corrono dal Settecento al Novecento. Il
primo va dalla fine del XVIII secolo agli anni Sessanta-Settanta
del XIX e vede la nascita e il formarsi del pensiero anarchico
in presenza di un parallelo sviluppo dell'anarchismo, ma in
assenza di uno specifico movimento militante. Il secondo inizia
con il sorgere della Prima Internazionale e si conclude con
la rivoluzione spagnola del 1936-39. Qui si assiste all'organica
compenetrazione fra l'anarchismo, il pensiero anarchico e il
movimento anarchico. Il terzo corre dall'inizio della seconda
guerra mondiale e finisce intorno al '68. Esso decreta il progressivo
venir meno del movimento anarchico, mentre prendono vita alcuni
tentativi di aggiornamento dell'anarchismo. Dal '68 ai giorni
nostri tale disgregazione si è ulteriormente accentuata,
nel senso che quel movimento militante nato con la Prima Internazionale,
e intrecciatosi per molti decenni con il movimento operaio e
socialista, è ormai in completa dissoluzione, anche se
sono continuati, quali logici contraccolpi, i tentativi di aggiornamento
dell'anarchismo e del pensiero anarchico. Con quest'ultima fase
si registra una nuova divisione fra i tre ambiti: il declino
irreversibile del movimento anarchico, il pensiero anarchico
e i suoi tentativi di rivitalizzazione dell'anarchismo, l'anarchismo
“generico“ alla ricerca di un nuovo autore.
Siamo dunque in presenza di un passaggio storico che non può
più essere sottaciuto.
Oggetto del presente libro è il problema politico e culturale
di questo mutamento. A Il pensiero anarchico dal Settecento
al Novecento subentra perciò Libertà senza
Rivoluzione. L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la
vittoria del capitalismo. Esso affronta il problema che
l'anarchismo si trova a sostenere oggi dopo la fine della prospettiva
rivoluzionaria connessa – in qualche modo – alla
possibilità di un rovesciamento radicale dell'esistente
dovuta alla spinta obiettiva dell'anticapitalismo socialista
e proletario. L'esaurimento di questa spinta ha definitivamente
dissolto – senza alcuna possibilità di ritorno
– tale possibilità. La rivoluzione sociale quale
risoluzione obbligata dell'emancipazione umana è oggi
soltanto una chimera. Ne consegue che l'anarchismo oggi rappresenta
soltanto se stesso; una condizione, questa, che nessuna
prassi sovversiva può minimamente modificare e rimediare.
Per capire in senso anarchico cosa significa – e comporta
– questo limbo di auto rappresentatività è
necessario innanzitutto guardare in faccia la realtà,
non per accettarla così come è, ma per vederla
con un'altra angolazione. Essa impone di distinguere le valenze
universali dell'anarchismo dalla specifica concretezza conferitagli
dalla storia del movimento anarchico, vale a dire la specificità
relativa al periodo che ha visto l'organica compenetrazione
fra l'anarchismo, il pensiero anarchico e il movimento anarchico;
compenetrazione riassumibile, appunto, nel mito rivoluzionario.
Se non si attua questa distinzione-divisione l'anarchismo è
destinato alla medesima deriva cui è destinato il movimento
operaio e socialista, vale a dire un esito che comporta, inevitabilmente,
la fuoriuscita dalla storia, la sua definitiva marginalità:
l'anarchismo passa dal suo essere stato nella storia,
ma contro la storia, al suo essere semplicemente fuori
dalla storia. Estrarre gli elementi di universalità dalla
sua precedente determinatezza – ovvero elevare l'anarchismo
a criterio di interpretazione meta-storica – è
l'unico modo per comprendere fino in fondo la svolta epocale
avvenuta con la sconfitta irreversibile del comunismo e la conseguente
vittoria del capitalismo sul comunismo; svolta epocale entro
cui l'anarchismo si muove oggi con grande difficoltà
e smarrimento, essendo stata predominante in esso la componente
anticapitalistica.
Distinguere le valenze universali dell'anarchismo dalla specifica
storicità conferitagli dal movimento anarchico è
un'operazione tuttavia difficile, dato che molti anarchici sono
più interessati a salvare la loro (pregressa) identità,
che a liberare l'anarchismo dalla sua (pregressa) storicità.
Non occorre dirlo: qui non si rinnega ciò che l'anarchismo
è stato, ma si riconosce che il suo passato ha esaurito
il compito di orientare in senso positivo il presente, anche
se sprigiona ancora tutta la sua forza morale. Esso illumina
i cuori di molti militanti, ma la sua luce è come quella
delle stelle morte milioni di anni fa: inonda il presente solo
se lo sguardo di chi la riceve è rivolto all'indietro.
Per lanciare nel futuro i princìpi generali dell'anarchismo
occorre invece cambiare – forse completamente, comunque
in gran parte – la loro strumentazione scientifico-concettuale.
Bisogna portare la storia anarchica, intesa come movimento anarchico,
alla sua dimensione transeunte. È questa la sola possibilità
– cioè la condizione teorico-culturale preliminare
– per immettere nuovamente l'anima universale dell'anarchismo
contro la storia. Ma per essere contro la storia
bisogna essere nella storia. Ed è questo, oggi,
per l'anarchismo, il problema del problemi.
Capitolo
4°
Il bivio obbligato della storia
La fine della possibilità rivoluzionaria intesa come
un “totalmente altro”; il fallimento catastrofico
del comunismo ovunque questo sia stato applicato – cioè
il fallimento del progetto di una società senza proprietà
privata e senza mercato –; la vittoria planetaria e irreversibile
del capitalismo sullo stesso comunismo; l'esaurirsi definitivo
dell'onda lunga del '68; il venir meno di tutti i movimenti
contestativi (che non siano solo di pura protesta), sia in Occidente
sia fuori dell'Occidente; la metamorfosi delle lotte terzomondiste
diventate in gran parte faide interne a carattere tribale hanno
decretato uno scacco enorme per tutto il fronte progressista,
segnando in modo indelebile l'ultimo quarantennio della storia
mondiale. L'inizio del ventunesimo secolo vede la sinistra,
compresa quella moderata, in una forte crisi di identità;
una situazione che non poteva lasciare immune l'anarchismo.
Anche l'anarchismo, sia pure con modalità molto particolari,
risente di questo smarrimento generale perché le condizioni
sociali e culturali che l'avevano visto nascere e vivere sono
venute meno, essendosi dissolto l'alveo nel quale, più
o meno, era vissuto fin dall'inizio: l'alveo del movimento operaio
e socialista (naturalmente il movimento operaio e socialista
c'è ancora, ma non è più, assolutamente,
un protagonista primario del nostro tempo).
L'ultimo quarantennio della storia mondiale ha posto dunque
l'anarchismo di fronte a una svolta storica decisiva perché
esso si trova scisso fra una identità pregressa e la
possibilità di un'identità futura, la quale, però,
dovrebbe essere in grado di liberarlo dal contesto della sua
genesi e dall'humus del suo ambiente, senza fargli perdere
l'anima. Ma mantenere l'anima di un'identità pregressa,
facendola vivere al di fuori del suo svolgimento ambientale,
è un po' come ottenere la quadratura del cerchio perché,
come affermava Giambattista Vico, «natura di cose altro
non è che nascimento di esse in certi tempi e in certe
guise». La fine delle condizioni storiche porta così
in primo piano, in modo drammatico e ultimativo, il problema
della natura vera dell'anarchismo, vale a dire ciò che
rimane di esso dopo la sostanziale dissoluzione della sua fenomenologia
storico-genetica. È l'auto-individuazione di questo irriducibile
residuo il problema vero della riflessione anarchica
odierna: problema nel senso che, se non si fa chiarezza su questo
punto, è impossibile proseguire teoricamente e praticamente
nella ricerca di una nuova identità politica e ideale
in grado di rimettere le istanze a-storiche di libertà
e di uguaglianza nell'asse della contemporaneità. La
domanda a cui si deve rispondere perciò è questa:
qual è questo residuo?
Si può cercare di rispondere riflettendo, prima di tutto,
sulla fenomenologia storico-genetica dell'idea anarchica (...)
La
natura “astratta” della crisi anarchica
A differenza del marxismo, l'anarchismo non subisce una specifica
crisi scientifica perché la sua critica non è
rivolta solo all'assetto di potere capitalista, ma al principio
informatore di ogni dominio: il principio di autorità.
Tale prerogativa “astratta” e “generica”
lo sottrae a questa impasse, permettendogli, anzi, una
grande attitudine adattiva, rinvenibile in molte “attualizzazioni”
libertarie, tendenti a riscoprire intuizioni e idee del suo
precedente patrimonio ideologico. Tuttavia, sebbene esso possieda
questa specifica chance teoretica, le sue capacità
rigenerative sono ormai esauste, dal momento che non sono in
grado di far rivivere la sua anima militante, la quale era tutta
fondata sulla speranza di giungere in breve tempo al “totalmente
altro”. È morta, infatti, anche se finora nessuno
ha avuto il coraggio di stilarne l'atto ufficiale con una dichiarazione
franca e senza ritegno, la certezza nella rivoluzione
e la certezza della rivoluzione: la certezza nella rivoluzione
perché l'esperienza storica ha mostrato i molti limiti
etici e politici di questa prassi, la certezza della rivoluzione
perché, comunque, il passaggio rivoluzionario sembra
più remoto che mai. L'esaurirsi della capacità
rigenerativa – contemporaneamente alla dissoluzione della
vecchia antropologia militante – è confermata dall'enfasi
puramente rivoluzionaria della nuova antropologia nata con il
'68, la quale non è più anarchicamente tale perché
generata da una determinata condizione sociale, ma lo è
in virtù della sua mancanza. Si tratta cioè
di un'antropologia schizofrenica in quanto rappresenta un'anima
senza corpo. Ecco perché si può parlare, per la
cultura del '68, di una caricatura della dimensione rivoluzionaria,
come è perfettamente rinvenibile nell'enfasi dei comportamenti
attivistici dei suoi protagonisti, che hanno recitato negli
ultimi quarant'anni una parte senza scena: come abbiamo già
detto, ci sono – o ci sono stati – i rivoluzionari,
ma non c'è stata e non c'è la rivoluzione.
Il senso profondo della contemporanea e inscindibile relazione
fra la “tenuta” teorica anarchica e il venir meno
della sua “attualità rivoluzionaria” rimanda,
a sua volta, all'inscindibile relazione tra il fallimento del
marxismo e la vittoria del capitalismo. Tutte queste relazioni
si mostrano nella loro piena evidenza proprio nell'ultima fase
della storia anarchica, quella iniziata negli anni Sessanta
perché il carattere epocale del '68 non è dato
solo dalla sua valenza “esistenziale-soggettiva”,
ma soprattutto dal palese fallimento storico del marxismo, che
proprio l'esigenza di una sua riscoperta libertaria emersa in
quel periodo – esigenza del tutto inconsistente e fallimentare
sotto il profilo scientifico –, ha messo pienamente in
luce. La ricerca di una fondazione libertaria del marxismo deriva
infatti dal fallimento del marxismo stesso, il quale, come avevano
profetizzato gli anarchici, si è concretizzato durante
il ventesimo secolo nei soli due esiti che gli erano storicamente
consentiti: quello socialdemocratico (ovvero riformista), quello
comunista (ovvero rivoluzionario-totalitario).
Tuttavia la vittoria del capitalismo, se da un lato ha segnato
l'atterramento definitivo del marxismo, dall'altro ha determinato
la destoricizzazione dell'anarchismo. È questo ciò
che ci ha consegnato il '68: il successo del capitalismo si
rinviene nella fine storica del marxismo e nella fine
della storia dell'anarchismo definibile come classico. È
all'interno di questa triplice relazione che va individuato
il segreto emancipazionista della storia contemporanea. È
qui che va trovata la sua spiegazione: la fine storica del marxismo
mostra, attraverso la vittoria del capitalismo, il significato
della fine della storia dell'anarchismo classico, evidenzia,
cioè, l'astrazione universalizzante, la natura ultima
dell'anarchismo medesimo. Dunque, la natura ultima dell'anarchismo
è data dalla sua dimensione universale e questa dimensione
universale è tale in quanto è astratta, ovvero
sciolta da ogni sua determinatezza storica. Ciò conferma
che solo in questa prospettiva, cioè ponendosi non contro
un determinato potere, ma contro il potere in quanto tale, è
possibile riportare per intero il messaggio anarchico di una
emancipazione integrale dell'uomo.
A questo punto bisogna formulare la seguente domanda: perché
il segreto emancipazionista della storia contemporanea va individuato
nella triplice relazione fra la vittoria del capitalismo, l'atterramento
del marxismo e la destoricizzazione dell'anarchismo? Ovvio:
perché solo la contrapposizione anarchica rende evidente
che il capitalismo, in quanto capitalismo – cioè
in quanto precisa e determinata forma storico-sociale –,
è un'espressione del dominio, ma non è il dominio.
E che, perciò, esso non deve essere combattuto in quanto
tale, ma solo in quanto fenomenologia del principio autoritario,
del principio della dominazione: non si può scambiare
il “fenomeno” per il “noumeno”. Bisogna
quindi domandarsi: ma qual è questo noumeno? Per restare
allo “schema kantiano”, possiamo dire che il noumeno
è inconoscibile, mentre è conoscibile la sua “perenne”
rappresentazione storico-sociale, ovvero la società piramidale
data dalla divisione gerarchica del lavoro sociale. Questo significa
che la lotta contro il potere espresso dalla società
capitalistica, in qualunque variante questa possa essere rappresentata,
deve essere condotta non come semplice ed esaustiva contrapposizione
antagonistica, irrimediabilmente perdente, ma come un superamento
di civiltà. La nuova, possibile identità anarchica
scaturita quale residuo universalizzante uscito quasi
indenne dalla destoricizzazione dell'anarchismo post 1968, deve
concepirsi storicamente nella consapevolezza che il fallimento
del comunismo e la vittoria planetaria del capitalismo sono
eventi irreversibili (ovviamente quando si parla qui della definitiva
vittoria del capitalismo si intende sempre la sua sola
e diretta vittoria sul comunismo). Il problema dell'anarchismo
è dunque quello di sapere se esso possa essere concepito
come qualcosa che sia in grado di situarsi storicamente oltre
il capitalismo medesimo: invece di pensare se il capitalismo
possa essere abbattuto (cosa priva di senso), gli anarchici
devono pensare se il capitalismo possa essere superato:
si può superare un evento, non si può abbattere
un evento.
Riassumendo, possiamo dire che l'esito fallimentare del marxismo
– libertario o non libertario –, rendendo evidente
questo pregresso aut aut, mostra che nella lotta contro
il capitalismo il marxismo ha perso: la sua sconfitta è
irreversibile. La storia riporta la bandiera emancipazionista
nelle (uniche) mani nelle quali avrebbe sempre dovuto rimanere:
quelle anarchiche. Se non che la “tenuta” teorica
anarchica, e il venir meno della sua “attualità
rivoluzionaria”, si danno – e possono darsi soltanto
– sotto la forma della sua destoricizzazione: è
questo il punto decisivo, ed è un punto decisivo perché
è un punto di non ritorno. L'anarchismo “tiene”
nella misura in cui è spogliato dei suoi caratteri storici
e sociali, per cui si può dire che la prospettiva anarchica
è rimasta la sola radicale alternativa emancipazionista
al sistema di dominio capitalistico proprio perché –
grazie a questa sua natura “astratto-universale”
– ha passato indenne il venir meno delle proprie condizioni
di partenza.
Questa perdita del concreto, della sua specificità determinata,
spiega altresì l'ovvio saccheggio di molte sue idee e
intuizioni da parte del fronte progressista avvenuto negli ultimi
quarant'anni: tutti si sono riempiti la bocca, molte volte a
sproposito, delle parole “libertaria”-“libertario”,
declinandole come un verbo-prezzemolo in ogni occasione. Il
lungo, complesso e positivo strascico ideologico che un settore
consistente dello stesso '68 ha messo in moto – femminismo,
non violenza, pacifismo, anti-dogmatismo, discussione critica,
disobbedienza civile, libero amore, e così via –
mentre costituisce per alcuni versi una grande “rivincita”
di molte idee anarchiche, soprattutto sotto l'aspetto esistenziale-emancipazionista,
dimostra che ciò è stato possibile solo perché
esse hanno pagato il prezzo della loro scarnificazione storico-genetica;
una “selezione” che, togliendo di mezzo la dimensione
contingente della loro insorgenza, rende difficile la creazione
di una nuova identità dell'anarchismo medesimo, se esso
rimane prigioniero dell'anima ideologica e politica che l'aveva
visto nascere: quella socialista-rivoluzionaria. A causa della
sua scarnificazione storica, l'anarchismo socialista-rivoluzionario
non costituisce più un'alternativa concreta all'esistente.
Non c'è più un “mondo”, come cent'anni
fa, dietro il movimento anarchico. Se si ostina a porsi come
antagonista diretto della fenomenologia capitalistica del dominio,
le possibilità effettive dell'anarchismo finiscono per
essere dettate dallo stesso protagonismo capitalista.
All'anarchismo rimangono perciò oggi solo due strade:
o preserva i suoi contenuti storici, coltivandoli sotto forma
di memoria (impressionante, e altamente significativo, questo
suo guardare indietro come è dimostrato dal numero crescente
di iniziative archivistiche di documentazione del passato promosse
all'interno del movimento anarchico), o si apre al futuro, rinunciando
a una parte – non piccola – della sua identità
pregressa. O sceglie l'inevitabile deriva valdese (i valdesi
da trecento anni sono “asserragliati” nelle valli
del Pellice, e da lì non si muovono e non si muoveranno),
o accetta di farsi interprete generale della secolarizzazione
e di diventare coscienza critica della modernità. La
deriva valdese ci viene già offerta, per esempio, dalla
terrificante dichiarazione dell'Ufficio della Cultura del Cantone
di Berna, il quale ha proposto che l'anarchismo sia iscritto
nella lista cantonale delle tradizioni viventi trasmessa all'Unesco
in base alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio
culturale immateriale. Noi, diversamente dagli anarchici di
Espace Noir, che hanno fatto esplicita richiesta per
ottenere tale riconoscimento – non abbiamo parole! –
non vogliamo un anarchismo imbalsamato, un anarchismo-panda,
un anarchismo museale: le tradizioni vanno bene, ma vanno collocate
nei musei non nella lotta per l'avvenire. In conclusione l'anarchismo
si trova di fronte a questo aut aut: o coltiva la sua
antropologia storica, chiudendosi in una contro-società
– che comunque non ha alcun avvenire –, o abbandona
ogni idea socialmente definita di emancipazione umana,
con tutto ciò che questo, politicamente e ideologicamente,
comporta.
Tertium non datur.
Giampietro “Nico” Berti
Signora libertà, signorina anarchia
“Signora libertà, signorina anarchia”,
una grande iniziativa che ha chiuso la stagione degli eventi
2012 in viadelcampo29rosso, nel cuore della città vecchia
cantata da Faber con la partecipazione reale di straordinari
amici come don Andrea Gallo, Mauro Macario, Reinhold Kohl e
virtuale (causa avverse condizioni meteo) di Paolo Finzi.
Siamo orgogliosi delle parole di Andrea “non esiste un
posto in tutta Genova dove si respira un'aria così libertaria...
anarchica...” e nella direzione “ostinata e contraria”
di Faber, in sinergia con le realtà che ci circondano
siamo decisi a proseguire il nostro cammino.
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Genova,
15 dicembre 2012, Emporio viadelcampo29r - da sinistra:
Mauro Macario, don Andrea Gallo, Reinhold “Denny”
Kohl e Laura Monferdini |
La testimonianza sul pensiero anarchico di De André
è stata rievocata da due suoi amici e compagni, Mauro
Macario che ci ha emozionato con le sue parole, i suoi altissimi
concetti e che ha rievocato un mondo, quello dei “ragazzi
della Foce” che hanno condiviso con Faber un periodo storico
ineguagliabile e indimenticabile. Accanto a lui, Reinhold Kohl,
con la poesia delle sue immagini dell'uomo Faber consacrate
dal suo ritratto più evocativo, lo “scatto del
timo”, simbolo di un'idea intramontabile e di un artista
che l'ha vissuta e resa ancora più vicina a tutti noi.
Il messaggio di Don Andrea Gallo, prete da marciapiede come
lui stesso si definisce, una guida spirituale e morale di respiro
universale che illumina il nostro percorso quotidiano invitandoci
a seguire i precetti del libro più rivoluzionario della
storia dell'uomo, il Vangelo che per lui contiene più
evidente che mai una “spruzzata” di anarchia.
Laura
Monferdini
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