No Tav 1
Tracce nel bosco
di Maria Matteo
“Non siamo mai stati con le mani in mano” afferma l'autrice di questo scritto, da sempre attiva nelle lotte in Val di Susa (e non solo), nonché militante della Federazione Anarchica Torinese. E spiega come e perché negli ultimi tempi...
Mentre scrivo l'anno sta volgendo
al termine, la trama dei giochi di potere di questo 2012 non
è ancora stata interamente tessuta.
Il mio osservatorio, quello di un angolo di nord ovest dove
le sirene del potere hanno meno eco che altrove, è una
via di mezzo tra una trincea e un'assemblea popolare.
Pochi giorni fa, nel parcheggio di Giaglione l'inverno mordeva:
per un momento ho invidiato quelli che erano al caldo nelle
loro case. Eravamo un bel gruppone di No Tav armati di lampade
frontali, sciarponi, scarpe grosse. Quelli di Susa sono arrivati
dopo aver consegnato alla sindaca della città una ghirlanda
di auguri di natale, con tanto di lacrimogeni appesi.
Poi siamo partiti.
La notte era limpida, illuminata da una buona mezza luna, il
Rocciamelone si stagliava bianco alle nostre spalle, mentre
procedevamo verso la Clarea occupata.
Alle reti illuminate a giorno da fari violenti che bruciano
le notti, tanti si sono messi a ballare al suono della cornamusa
di uno zampognaro No Tav.
Pura magia. Poi una delle torri faro ha deciso di spegnersi,
restituendo alla notte parte delle sue ombre. Più tardi,
ridendo, uno dei tanti non più giovanissimi partecipanti
alla serata ha detto: “questa volta non potranno più
dire che certe cose le fanno solo i ragazzi”.
Il movimento No Tav è tutto lì, tra gente che
sperimenta la fraternità della lotta, del gioco, della
sfida quando l'inverno consiglia a tutti di stare a casa.
Il governo in questo lungo anno ha affinato le armi della propaganda
e quelle della repressione. La sfida cominciata nella primavera
del 2011 è diventata sempre più dura. Dopo il
corteo del 25 febbraio 2011 una manifestazione, ampia, popolare,
forte nel sostegno agli arrestati di gennaio, il governo è
passato all'attacco, si è preso la Clarea, ha quasi ammazzato
Luca, ha fatto partire i lavori propedeutici al tunnel. Allora
come adesso nessuno sa se la nuova linea tra Torino e Lyon la
faranno davvero, perché Hollande e Ayrault lo hanno detto
chiaro: se l'UE non finanzia il 40% del tunnel, la linea non
si può fare.
Noi non siamo stati con le mani in mano: le giornate di febbraio
e di marzo sono state il segnale di un una volontà di
lotta, di resistenza ai soprusi, di riscossa molto forti.
In tutti questi mesi ci siamo messi di mezzo, per contrastare
l'occupazione militare, le ditte collaborazioniste, per dare
appoggio a chi, sempre più spesso, incappava nelle maglie
della repressione.
Il governo, consapevole di ciò, ha picchiato sempre più
duro, forte di un apparato mediatico quasi unanime, tanto da
nascondere con abilità le debolezze del proprio fronte
per giocarle a proprio vantaggio.
Il vertice italo-francese del 3 dicembre ne è un esempio
forte. Un accordo che non c'è spacciato per decisione,
i soldi che non ci sono nascosti sotto il tappeto, la criminalizzazione
e l'imbrigliamento umiliante di un movimento stretto nell'imbuto
di una violenza ormai dispiegata. Chiudono tutte le strade,
perché non ne resti che una sola, ossia l'accettazione
del livello dello scontro da loro imposto in questi mesi. Lo
scopo – non stupido – è che solo una minoranza
possa reggerlo, mentre i più si trasformano in supporter
sempre No Tav, ma sempre meno presenti.
In questo momento delicato le prossime elezioni si presentano
come un nuova possibile trappola.
In questi giorni si scaldano ai blocchi di partenza i pretendenti
al voto no tav. Tutti nuovi, puliti, super ecologisti, ultrapartecipativi.
Gente che si inventa una sigla, uno slogan per partecipare al
gioco delle poltrone.
Come quelli di Alba, che da marzo fanno assemblee sui beni comuni
con il solo scopo di fare la lista, imbarcando giudici e vecchi
rifondati. In questi anni di lotta i No Tav hanno imparato quanto
valgano le sirene istituzionali, quelle di chi promette opposizione,
ma va al governo e firma il dodecalogo di Prodi con il Tav tra
le priorità, quelle di chi strilla di partecipazione
ma decide tutto lui con il suo blogger.
L'importante è non cadere nella trappola del meno peggio,
figlia della rassegnazione, dell'incertezza sulle proprie forze,
senza rendersi conto che è proprio l'autonomia di chi
cammina misurando la via sul proprio passo che fa paura a chi
vuole imporre a tutti i costi il Tav.
Una
storia di treni
Qualcuno la racconta come fosse una storia di treni: da tanto
tempo questa è una storia di gente. Gente che ha scoperto,
con pazienza, fatica e un pizzico di azzardo che l'ordine della
cose non è disegnato una volta per tutte. Governo, politici
e poliziotti tracciano la geometria del potere, quella che disegna
i muri e le recinzioni che separano, dividono, chiudono.
Chi si mette gli scarponi e cammina per i sentieri di montagna
sa che la strada della gente è fatta di passi che si
incrociano, di tracce nel bosco che vivono perché c'è
chi le percorre e ne ha cura. Sa che frontiere e filo spinato
possono essere buttati giù, che gli uomini in armi messi
a guardia possono essere cacciati.
I No Tav l'hanno imparato sette anni fa, tra le neve della Repubblica
di Venaus e i sentieri del giorno dell'immacolata ribellione.
In questi sette anni chi vuole imporre il Tav ha lavorato per
dividere e fiaccare la resistenza. Hanno usato le armi della
politica ma hanno comperato solo una manciata di politici di
professione. Poi la parola è passata al manganello e
al gas, ai poliziotti e ai giudici. Hanno usato la violenza
e la paura. Ma non hanno piegato il movimento.
Sono stati molto più abili e accorti di sette anni fa.
Sono andati piano. Hanno giocato sulla crisi per buttare sul
piatto il ricatto del lavoro. Un bluff, ma efficace per chi
non ha argomenti ma solo qualche abile e ben pagato venditore
di fumo e frottole.
Sanno che non cambieremo idea ma sperano che ci rassegniamo,
che cediamo di fronte alla forza, alla difficoltà di
bloccare i lavori alla Clarea.
Hanno scelto con cura il posto dove fare il tunnel geognostico.
Un'area poco abitata, lontano dalle case e dagli occhi dei più,
un posto perfetto per un'occupazione militare. Sperano che il
movimento si estenui nell'assedio del cantiere militarizzato.
La scommessa è di non accontentarli.
Le lotte e i movimenti durano quando segnano punti all'avversario.
Le sconfitte alla lunga logorano.
Non siamo più nel 2005. Allora si andò di slancio
e il governo venne preso alla sprovvista: c'era in noi tutta
la forza della prima volta, l'insurrezione si fece con la spontaneità
di chi la impara facendola.
La partita
è oltre il Tav
Oggi ci serve forza ed intelligenza. I nostri avversari sanno
usare l'inganno e la violenza, i giudici e i poliziotti, i giornalisti
e l'illusione partecipativa.
Oggi la partita non è (più) solo sul Tav. In ballo
c'è il disciplinamento di un movimento che ha saputo
riprendersi la facoltà di decidere e di pensare un altro
futuro, perché sa vivere un altro presente.
Ridurre la nostra resistenza alla ripetizione rituale della
pressione sul cantiere, sperando che il tempo sia dalla nostra,
è il primo sintomo della rassegnazione. Si va perché
si vuole agire, perché non si vuole fare la fine di altri
movimenti, ridotti ad un ruolo meramente testimoniale, si va
perché quelle reti, quelle ruspe, quegli uomini in armi
sono intollerabili. Si va perché è giusto andarci.
Ma non basta e non può esaurire la nostra lotta. Sarebbe
miope non vederlo.
Il fortino non è una via crucis da percorrere per celebrare
il rito collettivo del taglio di qualche metro di filo spinato.
Il taglio delle reti è indubbiamente il segnale forte
della volontà di rifiutare le regole di un gioco truccato.
Ma se resta un esercizio, diviene inutile.
Quando le nostre barricate attraverseranno tutti i paesi, quando
le truppe saranno obbligate a valicare dal Sestriere, perché
questa valle gli si chiuderà ancora davanti allora –
come nel dicembre del 2005 e nel febbraio del 2010 – li
vedremo fare marcia indietro.
Radicalità
dell'agire e radicamento sociale
La Val Susa è un laboratorio vivo dove radicalità
dell'agire e radicamento sociale si coniugano in una sintesi
felice, mai data per sempre, ma costantemente rinnovantesi,
nella sfida ai poteri forti.
Una sfida che può e deve coinvolgere tutti, che può
e deve puntare al blocco della valle, allo sciopero generale,
alla rivolta che li obblighi a mollare senza rimettere in moto
i tavoli di mediazione, i giochi della politica come accadde
nel dicembre del 2005, quando la vittoria ci sfuggì di
mano per aver esitato a mantenere ferma la resistenza.
Non sarà facile.
Non c'è una strada ben tracciata, un itinerario sicuro,
solo tracce che potrebbero perdersi nel bosco. Occorre agire
pensando e pensare mentre si fa. Ad ogni passo, chi è
più veloce, più sicuro, più forte deve
fermarsi e guardare come vanno le cose.
Si va e si torna insieme lungo tutto il percorso. E, quando
serve, ci si ferma e si ragiona.
In quest'ultimo anno e mezzo i nostri avversari e anche certi
amici un po' tiepidi hanno sostenuto che il discrimine tra i
tanti e i pochi era la violenza. In un certo senso è
persino vero: la violenza della polizia, i candelotti sparati
in faccia, gli arresti, i genitori convocati dai servizi sociali
possono far paura. Sarebbe miope non capirlo, sarebbe stolido
avanguardismo non comprenderlo. Quello che invece i nostri avversari
proprio non capiscono è che la loro violenza sta cementando
il consenso verso chi resiste, verso chi comunque si espone,
verso chi rischia le botte, i gas, la galera. In quell'ormai
lontano dicembre del 2005 tanti che credevano nel gioco e nelle
sue regole, hanno compreso che le carte sono truccate, che il
banco bara. Sempre. Quanto l'ordine si rompe diventa chiaro
che libertà e legalità sono scritte con inchiostri
diversi, ed uno lava via l'altro. Tagliare le reti, violare
un recinto, affrontare la polizia è illegale ma legittimo.
Quando l'ordine del discorso muta, la narrazione sull'ordine
pubblico è solo storia d'oppressione.
Cambiare l'ordine del discorso è la nostra scommessa.
Non è un'impresa facile e, soprattutto, non bastano le
parole, serve un agire che dia loro gambe per muoversi, fiato
per correre, cuori per sedurre, cervello per farle proprie.
Quando l'ordine del discorso muta, ad affrontare la polizia,
i media, i giudici, ci arrivano tutti. Chi in prima fila, chi
in ultima, chi poco oltre l'uscio di casa.
È di questo che hanno paura. È su questo che dobbiamo
puntare.
Quando nessuno resta a casa, quando almeno l'uscio lo passano
tutti, lo Stato ha poche possibilità. Può sparare
o può ritirarsi. Nel 2005 si sono ritirati.
Quella del 2005 fu un'alchimia unica e non ripetibile, perché
l'aurora dei movimenti arriva repentina ed inaspettata: quando
vorresti fermarti per afferrarla è già trascolorata
nell'alba.
Non si tratta di rifare lo stesso sentiero, ma di sapere che
un movimento per vincere non può essere diviso tra giocatori
e tifosi. Solo quando tutti possono dare un contributo la marcia
è veramente di tutti. Solo scegliendo il proprio campo
di gioco si evita una corsa ad handicap.
Non per caso gli ultimi rinvii a giudizio hanno colpito chi
ha agito fuori dal recinto: dalla resistenza alle trivelle del
2010, sino alle azioni contro le ditte collaborazioniste.
Tante
libere repubbliche
In questi lunghi mesi tanta gente di ogni dove è scesa
in piazza al nostro fianco. Il governo ha fatto una macelleria
sociale senza precedenti. Si sono presi quello che restava di
libertà e tutele, si sono presi la nostra salute, l'accesso
ai saperi, alle risorse indispensabili alla vita. Nonostante
piovano pietre prevale la paura, l'io speriamo che me la cavo,
la ricerca meschina di una salvezza individuale. Ma i sommersi
sono ben più dei salvati.
La lotta dei No Tav è stata l'unica scintilla che ha
spezzato la paura che ha rotto la rassegnazione, che ha dato
fiducia nella possibilità di invertire la rotta.
Questa scintilla, se riesce a mantenere forte la propria fiamma,
se riesce a farsi pratica viva può accendere ovunque
nuovi focolai di lotta.
Oggi occorre un nuovo patto di mutuo soccorso. Un patto vero
che si costruisca spontaneamente tra chi lotta in ogni dove,
non certo l'ennesima assise politica dell'ennesimo super movimento,
l'ultima delle creature che uccidono in breve chi le ha partorite.
Presto ci saranno le elezioni, presto i giochi della politica
istituzionale in chiave partecipativa reclameranno le loro vittime.
È tempo di costruire una prospettiva diversa. È
tempo che la capacità di fare politica senza deleghe
sperimentata in questi anni tra una barricata e un pranzo condiviso,
esca fuori dalla gabbia istituzionale.
Costruire assemblee popolari che in ogni dove avochino a sé
la facoltà di decisione, svuotando e delegittimando chi
gioca il gioco del potere, è una prospettiva possibile
un po' ovunque. Tante Libere Repubbliche, tante Comuni contro
il Comune, tanti spazi di libertà che allarghino il fronte,
che mettano in gioco intelligenze e cuori, che ridisegnino la
mappa del territorio in cui viviamo.
Solo se sapremo scandire con intelligenza e passione un tempo
altro potremo mettere – ancora una volta – in difficoltà
un avversario che non fa sconti a nessuno. Occorre estendere
il conflitto, aprire sempre nuovi ambiti di autogestione, per
spezzare l'accerchiamento e creare le condizioni per mandarli
via. E non solo dalla Clarea occupata.
Maria Matteo
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